Parlo con padre Ermanno Battisti, trent’anni esatti di Guinea Bissau uno dei paesi più poveri e arretrati dell’Africa, fino al 1974 colonia portoghese e poi sotto varie dittature, prima di tipo comunista, poi dittatura personale del presidente Nino. Battisti mi racconta che da pochi anni ha fondato (nel 2006 sono andato a vederlo) un ospedale in un quartiere periferico della capitale Bissau, che, pur non ancora finito di costruire, in pochi anni è già diventato il più efficiente di una città che ha circa 400.000 abitanti. Gli chiedo perché e mi risponde che il problema sanitario in Africa, oltre che di strutture, costruzioni, strumenti, medicine, finanziamenti, è anzitutto un problema di personale preparato in uno spirito di servizio all’ammalato.
Prima di costruire questo ospedale (si chiama “Bor” dal quartiere periferico in cui è sorto), padre Battisti si è preoccupato di formare il personale. Ha mandato studenti e studentesse in Italia, specie a Verona, dove sono aiutati dalla diocesi, e sono diventati medici, specialisti in vari rami, infermiere. Intanto stava sorgendo la costruzione e a poco a poco i giovani da lui mandati sono tornati in patria e ciascuno ha trovato il suo posto nel nuovo ospedale. Sono tutti cattolici, educati anche in Italia ad una sanità rispettosa dell’uomo. Iniziando a lavorare in una struttura che dipende dalla diocesi, quindi fuori della gestione statale, hanno subito dato l’idea di un sistema diverso di conduzione di un ospedale.
Ad esempio, dice Battisti uno dei danni peggiori degli ospedali africani sono i parenti del malato che vengono, si accampano ovunque, rimangono vicini al loro infermo anche per dagli da mangiare, ma girano ovunque, parlano ad alta voce, sentono musiche, preparano da mangiare, sporcano, ecc. L’ospedale rischia di diventare una specie di grande villaggio che sfugge ad ogni regola e controllo. Difficile estirpare questa abitudice ormai comune in enti pubblici, perché entra nella cultura tradizionale africana, che ha naturalmente molti aspetti positivi, ma impedisce od ostacola ogni controllo igienico e la serietà e severità che si addice ad un ambiente con ammalati spesso molto gravi. In un ospedale diocesano, fin dall’inizio i malati sono nutriti e assistiti, ma i parenti devono stare fuori e limitarsi ad ore precise di visita. Nel recinto dell’ospedale di Bor Battisti ha preparato strutture esterne all’ospedale che ospitano parenti e amici (a volte vengono anche da villaggi lontani), ma fuori dell’ambiente sanitario-ospedaliero, lasciato libero e pulito.
Ma questo è solo un aspetto che fa la differenza fra ospedali cattolici (o protestanti) e ospedali pubblici in Africa, dove naturalmente c’è anche personale cattolico o anche non cristiano ma onesto e dedicato, però l’impostazione iniziale è diversa. Secondo aspetto ancora più importante è il trattamento dell’ammalato. Il padre che dirige, le suore che vivono nell’ospedale cattolico e il primo personale educato in ambienti sanitari cristiani in Italia, danno l’esempio e creano una tradizione che poi si tramanda anche agli elementi locali assunti e preparati sul posto. L’ammalato è sacro perché come Gesù che soffre in Croce, la sua sofferenza ha diritto ad ogni attenzione personale e cura sanitaria; anche se non può pagare nulla si sa che la Provvidenza di Dio manda il necessario e non esistono ammalati privilegiati o di second’ordine; l’onestà del personale dell’ospedale è continuamente raccomandata e controllata, contro la tentazione di furti e vendita in privato di medicine o altro. E via dicendo.
Padre Battisti dice, ma questo l’ho sentito spesso anche in altre parti del continente africano, che in Italia, in Occidente, ci sono molte persone o associazioni o Ong che vengono in Africa, realizzano qualche progetto sanitario o educativo (quel che si dice della sanità vale anche per le scuole), rimangono per tre-cinque anni o poco più per avviare il progetto e poi donano tutto allo stato e si ritirano, mandando aiuti e macchine. Però dopo non molti anni quelle opere ammirate da tutti diventano cosa di tutti e decadono. Non è “colpa” di nessuno in particolare, ma semplicemente frutto di una cultura tradizionale, quella africana, che pur avendo valori positivi non si adatta al mondo moderno, porta ovunque l’ambiente del villaggio africano, nel quale tutti sono eguali, tutti sono fratelli e cugini, non si concepisce che uno cresca nel benessere e gli altri rimangono indietro. Un esempio che ho sentito molte volte in vari paesi africani. Un ragazzo africano va in Italia a studiare e ritorna in patria diplomato o laureato, magari ha sposato una ragazza bianca, ammirata da tutti. Quel giovane si è elevato sopra tutti gli altri, quindi deve dare agli altri qualcosa della sua fortuna. In altre parole, se ha un impiego in una ditta di città, in un ospedale, in un ufficio governativo, se ha uno stipendio fisso superiore di molto a quanto guadagnano gli altri, molti si fanno vivi per chiedere questo o quello e non è facile dire di no, rischia di essere odiato e punito in qualche modo, a volte anche avvelenato. Più sale di grado e di possibilità di guadagno, più è vittima del suo villaggio, della sua etnia, della sua famiglia. L’enorme corruzione in tanti paesi africani viene soprattutto da questo!
Conclusione, nel mese della Giornata missionaria mondiale. Perché i missionari vanno nel mondo intero a portare la nostra religione a popoli che ne hanno un’altra e già vivono felici e contenti? Perché le religioni “naturali”, quelle che vengono dall’uomo (anche da grandi uomini e profeti), sono profondamente diverse e meno umanizzanti di quella che viene da Dio. Il cristianesimo dimostra la sua origine divina proprio da questo: umanizza l’uomo e i popoli. E se noi italiani stiamo diventano sempre meno uomini, la nostra società sempre più chiusa, fredda, arida, egoista, è proprio perché abbiamo dimenticato Gesù Cristo e il suo Vangelo. Ci lamentiamo che i nostri giovani spesso “non hanno ideali”. Per forza, se dall’orizzonte dell’uomo, del giovane, della famiglia, togli Dio che ideale può esserci, oltre al fare carriera, avere tanti soldi?
Piero Gheddo