Che cosa hanno in testa i nostri giovani?

Sabato scorso, 25 aprile, nel telegiornale delle ore 20 su Rai Uno hanno trasmesso otto o nove brevi interviste a giovani italiani, dai 18 ai 25 anni. La domanda era questa: “Perché oggi in Italia si fa festa? Come si chiama questa festa?”. Nessuno ha risposto in modo preciso ed esauriente. Alcuni dicevano: “E’ la festa della liberazione”, ma alla domanda “Liberazione da che cosa?” nessuno sapeva andare oltre. Rispondevano: “Non so…” o qualcosa di equivalente come “Boh…”. Uno finalmente ha detto: “E’ caduto il regime fascista” ma non sapeva precisare come o perchè. Un altro: “Oggi non si va a scuola, a me basta questo”. L’intervistatrice insisteva e chiedeva: “In che anno è avvenuta questa liberazione?”. Anche qui vuoto assoluto. Due ragazze hanno risposto: “Nel 1944” una, ma l’altra subito dopo: “No, nel 1946”! Nessuna delle due e nemmeno nessun altro ha centrato, sia pure per caso, l’anno giusto 1945!

Spettacolo desolante e deprimente. Cosa hanno in testa e nel cuore i giovani italiani del nostro tempo? Come si può sperare di costruire un futuro democratico e pieno di ideali e di impegno civile per la nostra Italia, se i giovani sono in questo abisso di ignoranza, in questo sottozero culturale e patriottico? Noi anziani sopra i settant’anni giustamente ci appassioniamo, con il Presidente Napolitano e il Premier Berlusconi, di pacificare gli italiani della nostra età, ancora divisi (65 anni dopo!) da due diverse letture di quel tragico periodo della nostra storia, da cui è nata l’Italia attuale e la sua Costituzione. E poi scopriamo che molti giovani italiani non sanno nulla, non gli interessa sapere nulla, hanno ben altro in testa: divertimento, successo, salute, bellezza, carriera, soldi, apparenza, fama, vita facile con poco sforzo, ecc. Questi, in genere, appaiono gli ideali di vita di non pochi italiani e italiane delle generazioni più giovani. E non è tutta colpa loro!

E’ un segno macroscopico di quanto è disastroso il fallimento della società che abbiamo costruito noi adulti e noi anziani, con lo sfascio dei matrimoni (in continuo aumento i divorzi e le separazioni), delle famiglie e della scuola, il prevalere dei diritti sui doveri (l’aborto è un diritto della donna: e il diritto del bambino che viene ucciso?). La televisione ormai, in assenza d’altro, è il principale soggetto educativo delle nuove generazioni e fra i primi responsabili, credo, della decadenza morale e intellettuale di cui siamo spettatori impotenti. Come fa infatti ad educare se insegue solo o quasi un sempre maggior guadagno economico? La soluzione. Per noi credenti non c’è dubbio: ritornare a Cristo e al suo Vangelo. Ma questo non si può dire perchè la fede è un fatto privato, personale, giornali e televisione non ne parlano mai, in scuole e università è argomento tabù.

Piero Gheddo

Quanti credono in Cristo risorto?

È passata da poco la Pasqua (12 aprile 2009). “Il Corriere della Sera” ha pubblicato (18 aprile 2009) questa notizia. Un sondaggio commissionato in Francia dal settimanale cattolico “Le Pélerin” (Il Pellegrino) “sulla credenza dei francesi nella risurrezione propria del Redentore, che viene proclamata nel Credo” rivela che “solo il 13 % dei cattolici crede nella risurrezione, mentre nel totale degli interrogati solo il 10% ci crede e il 14% ci spera; il 33% degli interrogati (il 40% dei cattolici) è persuaso che ci sia qualcosa dopo la morte, ma non sa di che genere; il 43% del totale e il 33% dei cattolici è persuaso che non ci sia nulla dopo la morte”; il 7% dei cattolici crede nella “reincarnazione” in questa vita! Questo in Francia, nonostante l’eccezionale fioritura della teologia e di tutte le scienze sacre nel Novecento!

Il direttore del settimanale afferma che “fare ammettere e comprendere la risurrezione resta la sfida per tutti i predicatori della recente settimana santa”. Senza alcun dubbio, il fondamento del cristianesimo è la Risurrezione di Cristo e la nostra risurrezione in Cristo alla fine dei tempi. Cioè la fede nel mondo soprannaturale, che non si vede e non si tocca, ma che noi crediamo per fede essere una realtà autentica, per la quale vale la pena di vivere la fede cristiana.

Lo stesso “Corriere”, nella stessa pagina e nello stesso giorno, pubblica un articolo sul tema: “Dialoghi sulla modernità: uno sviluppo fondato sui valori”. Ecco l’espressione magica: “i valori”, che sostituisce la fede in Dio, in Cristo, nella vita oltre la morte, nella Bibbia e nel Vangelo, nei Dieci Comandamenti e nelle Beatitudini! Filosofi, moralisti, politici, scrittori, intellettuali e quant’altro si interrogano su dove fondare lo sviluppo moderno per renderlo meno disumano. E rispondono: sui “valori”. Cioè sul bene comune, la pace, la giustizia, la solidarietà, il rispetto dell’altro, la democrazia, la legge e via dicendo. Del Vangelo si vuol prendere il messaggio (l’amore al prossimo, ecc.), ma non il messaggero, cioè Cristo.

Ma la storia ripetutamente dimostra che la cosiddetta “morale laica” e i cosiddetti “valori” non sono fondamenti così solidi da costituire un muro invalicabile per l’egoismo umano e una “regola di vita” capace di resistere all’usura del tempo e di ideologie e modelli di vita in continuo mutamento. Come diceva Paolo VI nel discorso della Pasqua 1970: “Anche i più importanti ed essenziali valori umani, separati da Cristo, si trasformano facilmente in disvalori”. Che fine ha fatto il valore della “pace”? Tutti dichiarano di volere e di lavorare per la pace, ma  le guerre non fanno che aumentare. E la “giustizia”? Il comunismo è nato con nobilissimi ideali (che i semplici comunisti nostrani sentivano e nutrivano in modo autentico), soprattutto quello della giustizia fra gli uomini. Eppure è difficile trovare nella storia un sistema di governo così ingiusto come i governi degli stati comunisti, atei per definizione!

Il sondaggio di “Le Pélerin” è un drammatico campanello d’allarme: se si facesse in Italia, quali risultati darebbe? Certo, in nessun passo del Vangelo si dice che dobbiamo essere in molti, che dobbiamo essere maggioranza, ma comunque il sondaggio provoca la Chiesa tutta, sulla nostra autentica e sostanziale fedeltà a Cristo e sul nostro impegno missionario di singoli credenti e di comunità ecclesiali.

Piero Gheddo

Anno paolino: forza e debolezza di San Paolo

Siamo ancora nell’Anno Paolino, proclamato da Benedetto XVI dal 28 giugno 2008 al 29 giugno 2009 per ricordare il bimillenario della nascita dell’Apostolo Paolo. Leggendo gli Atti degli Apostoli e le Lettere di san Paolo, si rimane colpiti da due fatti: la potenza di Dio e la fragilità del santo, la sua miseria umana.

Cari amici, noi abbiamo un modo sbagliato di guardare ai santi. Li pensiamo quasi dei budda impeccabili, imbalsamati nelle loro nicchie, uomini perfetti e senza tentazioni e senza colpe. No, erano e sono uomini deboli e peccatori come noi. La differenza è che loro coltivano il desiderio di santità, pregando Dio di convertirli. Noi invece ci adattiamo ad una vita cristiana mediocre. Una volta ho detto ad un signore che è venuto a confessarsi: “Guardi che anche lei è chiamato alla santità” e lui mi risponde: “Ma cosa dice? Io santo? Per carità, sono così debole, peccatore, incostante, pieno di difetti, che parlarmi di santità è un’utopia, un sogno che non mi permetto nemmeno di coltivare!”.

Santa Teresa di Gesù ha detto che “santità è il desiderio di santità”. Bello, sintetico e chiaro! S. Paolo è un innamorato di Gesù, vuol spendere tutta la vita per Lui sente l’ansia di annunziare il Salvatore, perché sperimenta nella sua vita la bellezza di questo amore profondo ed esclusivo. “Guai a me se non annunziassi il Vangelo!” (1 Cor. 9,16). “Non sono più io che vivo, è Cristo che vive in me” (Gal. 2,20). ” Per me infatti il vivere è Cristo e il morire un guadagno”(Fil. 1,21). “Tutte queste cose che prima avevano per me un grande valore, ora che ho conosciuto Cristo le ritengo da buttare via. Tutto è una perdita di fronte al vantaggio di conoscere Gesù Cristo, il mio Signore” (Fil. 3, 7-8).

Ma Paolo rimane debole e peccatore, si confessa umilmente ai suoi cristiani e dice loro di pregare per lui. “Mi presentai a voi debole, pieno di timore e preoccupazione” scrive nella I lettera ai Cor. 2,3. “Di me stesso non mi vanterò – scrive nella stessa lettera – (12, 5) – fuorchè delle mie debolezze”. Dicendo di avere ricevuto da Dio “grandi rivelazioni” aggiunge: ” Perché non montassi in superbia per la grandezza delle rivelazioni, mi è stata messa una spina nelle carne, un inviato da satana incaricato di schiaffeggiarmi perché non vada in superbia. A causa di questo per ben tre volte ho pregato il Signore perché lo allontanasse da me. Ed egli mi ha detto: “Ti basta la mia grazia: la mia potenza infatti si manifesta in tutta la sua forza proprio quando uno è debole. E’ per questo che mi vanto volentieri della mia debolezza, perché la potenza di Cristo agisca in me. Perciò mi rallegro della mia debolezza … perchè quando sono debole, allora sono veramente forte”. (2 Cor. 12, 7-10).

Che bello questo passo! S. Paolo non spiega che cos’è questa sua debolezza, ma riconosce di essere peccatore e dice addirittura che “Quando sono debole è allora che sono forte”. Ecco la differenza con il nostro atteggiamento: quando noi ci scopriamo peccatori, allora ci scoraggiamo e diciamo che pensare alla santità è un sogno assurdo. Cari amici, non è il nostro peccato che spiace al Signore, ma la mancanza di volontà e di decisione nel pentirsi e volerlo superare confidando nella Grazia di Dio e l’aspirazione profonda e costante all’unione con Dio, cioè alla santità. Chiediamo a San Paolo di coltivare anche in noi il desiderio della santità, cioè della piena intimità con Dio, perché questo è il senso profondo e supremo della vita cristiana.

Piero Gheddo

Un aneddoto su Madre Teresa

Il 23 aprile 1977 Madre Teresa parlò allo Stadio di San Siro a Milano, strapieno di giovani e non giovani, alla presenza di tutti i vescovi della Lombardia, sul tema della vita e dell’aborto. Era una delle grandi manifestazioni dell’Ufficio missionario diocesano, organizzate da padre Giacomo Girardi (1930-1998), allora direttore del Centro missionario Pime.

Quel pomeriggio, padre Mario Meda, missionario del Pime in Birmania e poi espulso dai militari, accompagnò la Madre nella sua auto utilitaria (la Fiat 600) dalla sede del Pime allo Stadio. La Madre gli chiede dov’è stato in missione e cosa fa in Italia. Poi aggiunge: “Lei quante ore prega al giorno?”. Padre Mario le risponde e poi dice: “Madre, pensavo mi chiedesse se aiuto i poveri!”. Con molta semplicità la Madre ribatte: “No, perché se non preghiamo molto non siamo uniti a Dio e se non siamo uniti a Dio non possiamo aiutare i poveri, i quali hanno fame di pane, ma soprattutto hanno fame di Dio”. A 32 anni di distanza, padre Mario ricorda ancora commosso quel piccolo incontro con la grande e santa Madre Teresa.

Piero Gheddo

Contro l’Aids in Africa serve educazione

A proposito delle polemiche contro Papa Benedetto in Africa, sull’uso del “preservativo” per combattere l’Aids (vedi Blog del 25 marzo scorso, con il caso dell’Uganda), segnalo una dichiarazione alla Radio Vaticana del Cardinale senegalese Théodore-Adrien Sarr, Arcivescovo di Dakar, il quale ha ricordato che dal 1995 in Senegal, su richiesta dell’allora Presidente Abdou Diouf, le comunità religiose cristiana e musulmana si sono impegnate nella lotta contro l’Aids: “Abbiamo detto che avremmo predicato, esortato in favore dell’astinenza e della fedeltà e l’abbiamo fatto, sia noi cristiani che i musulmani. E se oggi il tasso di contagio dell’Aids rimane basso in Senegal, penso che sia grazie alle comunità religiose che hanno insistito sulla morale e sui comportamenti morali”.

Anche se il cardinale ha riconosciuto che in alcuni paesi del continente africano potrebbero esserci delle difficoltà “perché ci sono usanze diverse”, però sostiene che “in ogni caso è necessario sapere che l’Africa è variegata e che ci sono delle società africane che conoscono e osservano molto bene il concetto dell’astinenza e della fedeltà” e che “è necessario aiutarle a continuare a coltivarlo”.

Quanto al Senegal, ha confessato di temere che “se si iniziasse a distribuire dosi massicce di profilattici ai nostri giovani, questo non li aiuterebbe e sarebbe più difficile controllarsi e rimanere fedeli fino al matrimonio, Penso che aiutare la gente attraverso l’educazione ad imparare lo sforzo di controllarsi, rimanga un contributo valido per la prevenzione dell’Aids”, ha commentato. Secondo il Cardinale Sarr è “un peccato che, invece di riflettere su come il Papa è stato accolto e su tutto quello che ha vissuto con le popolazioni del Camerun e dell’Angola, alcuni media abbiano messo l’accento quasi esclusivamente sulla questione del profilattico e dell’aborto. In questo viaggio ci sono state cose belle che è necessario trasmettere e invece alcuni non hanno trovato niente di meglio da fare che alimentare polemiche”, che peraltro “sono state gonfiate rispetto al resto del contenuto” della visita papale.

A questo proposito, il Cardinale ha dichiarato che “diventa sempre più necessario che l’Occidente e gli occidentali smettano di pensare che solo quello che loro concepiscono come modo di vedere e di fare, sia valido”. E ha aggiunto: “Ciò che rimarrà nella mia mente del viaggio papale è che, se il Papa ha sollevato questi due problemi dell’aborto e dei profilattici, forse è stato per ricordare sia a noi africani e in special modo a noi Vescovi d’Africa che pensare con la nostra testa e per noi stessi è meglio…. In ogni caso, io mi sono impegnato a lavorare perché noi possiamo esprimerci e dimostrare che abbiamo modi di vedere e di agire che sono validi, anche se sono diversi da quelli che alcuni propongono”.

Piero Gheddo

Mass media che «raggiungono i lontani»

Un caro amico mi scrive da Lodi, riferendosi al Blog del 19 marzo scorso “Lo spirito missionario dà una marcia in più”.

Carissimo padre Piero, io e mia moglie seguiamo i tuoi scritti da parecchi anni. Alcuni ce li siamo “persi” perché non vengono più ripubblicati e sono esauriti. Tu noti che i mezzi di comunicazione permettono una visibilità maggiore del messaggio evangelico e missionario. Questo è vero e mi suggerisce una considerazione. Perché non si sfrutta maggiormente la televisione per diffondere la catechesi? Le parrocchie sono sempre alla spasmodica ricerca, con mezzi limitati, del “buon” relatore che parli ai gruppi su vari temi. Come mai, ad esempio SAT2000, non diffonde sistematicamente una proposta catechistica? Dove si spera che il comune credente trovi chi gli spiega, ad esempio, l’ultima enciclica o la vita e l’attività di S.Paolo? Capisco che il “contatto umano” è una gran cosa, ma un bravo relatore che sa esporre e ha esperienze da comunicare anche se tramite il video è secondo me molto meglio di uno mediocre anche se in carne ed ossa. Per una parrocchia possedere televisori e videoregistratori dovrebbe essere più semplice che cercare relatori. Se una parrocchia o una associazione non hanno i mezzi (e la popolazione) per chiamare relatori validi questa non potrebbe essere una soluzione accettabile? Non è un invito alla pigrizia ma una supplenza in caso di necessità. Grazie e buon lavoro. Paolo Melacarne.

Pienamente d’accordo con la proposta di Carlo, sia per quanto riguarda SAT2000, sia per le parrocchie di dovrebbero attrezzarsi con strumenti audiovisivi di diffusione del Vangelo. Però debbo dire che la Tv cattolica la vedo pochissimo (come tutte le altre del resto) e penso che raggiunga i cattolici “praticanti” e nemmeno tutti. Potrebbe essere un buon aiuto per la “catechesi”, ma nel Blog del 19 marzo esprimevo il mio stupore nel segnalare il grande impatto sul pubblico che ha Radio Maria, alla quale parlo tutti i terzi lunedì del mese (ore 21-22,30), che raggiunge un pubblico molto vasto, ben oltre quello abituale delle nostre parrocchie. E questo l’ho sperimentato sia quando parlavo tutti i giorni a Radio Due con un breve racconto di esperienza missionaria, che quando spiegavo il Vangelo alla TV di Rai Uno del sabato sera, sia adesso con Radio Maria: da queste trasmissioni ricevevo e ricevo non pochi echi di adesione da parte di chi in chiesa non ci va quasi mai. Questa la domanda a cui rispondere: perché Radio Maria sì e molti altri mass media ecclesiali no?

Ricordo sempre che agli inizi del mio giornalismo, a metà anni cinquanta, il cattolico Edilio Rusconi, fondatore di “Oggi” e poi di “Gente” e dell’omonima casa editrice, mi chiamò a collaborare a Gente, perchè voleva far conoscere il lavoro dei missionari. Alcuni miei confratelli mi dicevano: “Scrivi sul giornale cattolico, ma non su quel giornale laico e a volte non raccomandabile”. Dissi a Edilio il mio dubbio e mi rispose: “Ma con questo giornale raggiungi i lontani e non solo i “paolotti” (usò proprio questa espressione). Questo mi convinse a collaborare e non mi sono mai pentito perché ho continuato anche con altri giornali laici.

Piero Gheddo

Buona Pasqua 2009

Pasqua: in ebraico “pasuq”, vuol dire “passaggio”, migrazione, transizione da una situazione peggiore ad una migliore. Per gli ebrei ricordava il passaggio dalla schiavitù dell’Egitto alla terra promessa da Dio a Mosè per il suo popolo. Ogni anno gli ebrei celebrano il ricordo di quella Pasqua, con riti e cerimonie: il sacrificio di un agnello a Dio per ringraziarlo, il pranzo in cui si mangia l’agnello con i pani azzimi, cioè non lievitati per indicare la novità della vita nella Terra promessa, e le erbe amare per ricordare la durezza della schiavitù in Egitto; e si beve il vino nuovo, ricordando l’attesa del profeta Elia che, secondo la tradizione ebraica, tornerà di nuovo ad annunziare l’arrivo del Messia promesso da Dio al suo popolo, il Figlio di Dio che libererà il popolo ebraico dal peccato e dalla morte.

Noi cristiani celebriamo la Pasqua ricordando quella che Gesù celebrò nell’ultima Cena con gli Apostoli e la Risurrezione di Cristo che dimostra la sua divinità e ci comunica il lieto messaggio della nostra Pasqua, del nostro passaggio dalla vita terrena a quella eterna che Gesù è andato a prepararci. La Pasqua che celebriamo oggi si compirà in modo definitivo con la nostra morte terrena e il passaggio alla vita eterna nell’amore e nella gioia di Dio.

Care sorelle e cari fratelli, siamo nel campo della fede e noi chiediamo a Dio la grazia di mediare a fondo queste verità per viverle nella nostra piccola vita. Tre significati della Pasqua per la nostra vita:

1)  Il bene vince sul male. Gesù risorto è una svolta nella storia dell’umanità e nella mia vita. Ringraziamo il Signore che è venuto a salvarci. Grazie, Gesù!

2)  La Risurrezione ci dà la certezza che risorgeremo anche noi e che il bene ha vinto il male. Ecco la speranza e l’ottimismo cristiani; da cui nasce la serenità della vita. Il cristiano, se si forma ad una lettura di fede della storia umana e personale, non può mai essere pessimista, scoraggiato, abbattuto. Nella vita, è vero, si ricevono botte che lasciano tramortiti: ingiustizie, violenze, fallimenti, calunnie, malattie gravi. Ma noi sappiamo che Cristo è risorto e che risorgeremo anche noi!

3)  Per risorgere dobbiamo essere con Cristo, conoscere e pregare Cristo, amare Cristo, imitare Cristo. Il vocabolo Pasqua deriva anche da “pesah”, cioè rimettersi in piedi, risorgere, ricominciare una vita nuova. La Risurrezione di Gesù non è solo nella vita eterna è anche nella vita nostra quotidiana: quando incontriamo Cristo, incomincia per noi una vita nuova, la perenne giovinezza della vita cristiana. Ecco l’augurio che faccio a tutti i miei lettori. Che oggi incominciamo anche noi con Cristo una vita nuova.

Piero Gheddo

Noi preti e l’ultima Cena

Oggi, Giovedì Santo, la Chiesa ricorda l’Ultima Cena di Gesù con i suoi Apostoli, prima dei giorni tremendi della Passione e della morte in Croce. L’ultima Cena è l‘anticipazione sacramentale del sacrificio della Croce. Gesù dona se stesso al Padre per salvare gli uomini e istituisce il sacerdozio della Nuova Alleanza, cioè del Nuovo Testamento: “Hoc est enim Corpus meum… Hoc est enim Sanguis meum… Accipite et manducate… Accipite et bibite quod pro vobis tradetur… Hoc facite in meam commemorationem”. Un latino facile da comprendere: “Questo è il mio Corpo, prendete e mangiate… Questo è il mio Sangue, prendete e bevete quello che è dato per voi. Fate questo in memoria di me”.

Meditando su questo mistero divino, di Dio che si fa uomo e si offre in sacrificio per salvare tutti gli uomini, mi commuovo. Oggi infatti è la festa di noi preti. Gesù ci ha dato poteri divini, ripetiamo il sacrificio di Gesù, perdoniamo i peccati degli uomini, siamo (o dovremmo essere!) nel mondo un “altro Cristo”, parliamo in nome di Cristo e in nome della Chiesa che porta avanti nei secoli e nei millenni, con l’assistenza dello Spirito, l’insegnamento e il sacrificio di Gesù.

E penso che la nostra vita ha senso se ci facciamo dono, se ci mettiamo a disposizione degli altri. Il sacerdozio non è un potere, ma un servizio. Questo Gesù voleva dai suoi Apostoli, come sottolinea Giovanni raccontando la lavanda dei piedi degli Apostoli da parte dello stesso Gesù.

Quest’anno compio i 56 anni di sacerdozio e lo dico con sincerità: sono contento di essere prete e missionario e ringrazio spesso il Signore di avermi chiamato (e i miei genitori che hanno pregato per avere un figlio prete). Contento per due motivi:

1) La fede mi dice che il prete è “un altro Cristo”, rappresenta Cristo, di cui tutti hanno bisogno. Quindi la nostra vocazione è il massimo di realizzazione che potessimo sperare dalla nostra piccola vita. Diventando anziani lo comprendiamo sempre di più e questo ci rende felici, la mia piccola e debole persona si sente realizzata. Se a volte sono turbato dai dubbi e dalle tentazioni, mi chiedo: quanto conta la fede nella mia vita? Gesù è veramente al primo posto nei miei affetti e pensieri?

2) Il secondo motivo è questo. Sono convinto che tutti gli uomini e tutte le donne hanno bisogno di Cristo. Visitando poco meno di cento paesi in ogni continente mi sono reso conto di questo: anche quelli che non conoscono Cristo, anche quelli che non ci credono, anche quelli che l’hanno abbandonato, tutti aspirano a una salvezza, liberazione, felicità, che noi sappiamo vengono solo da Dio e dal Figlio suo Gesù Cristo. Ebbene, noi portiamo agli uomini l’unica ricchezza che abbiamo, Gesù, e questa ricchezza è tale che potrebbe rendere felici e liberi tutti gli uomini. E’ vero che molti non la accolgono, ma succede che noi preti siamo gli unici lavoratori a non andare mai in pensione, siamo sempre richiesti della nostra opera anche in tarda età: questo ci allunga la vita e ci rende felici, sereni.

Conclusione per chi è prete o si prepara al sacerdozio. Chiediamo al Signore di aumentare la nostra fede e di darci la forza di essere fedeli alle nostre promesse sacerdotali, per poter portare nel mondo la luce e la gioia di Cristo.
Conclusione per i laici cristiani. Pregate per noi sacerdoti, abbiate pazienza con noi, aiutateci.

Piero Gheddo

Meglio un cane o un bambino?

L’amico Andrea Zangirolami mi manda questa notizia:

“Fantastico! Ieri sera durante il tg1 delle 20 un servizio sul salvataggio dei cani componenti un branco che hanno assalito e se non sbaglio ucciso recentemente un bambino. Gli animalisti sono esultanti per il salvataggio di questa decina di cani dalla soppressione, se non ho capito male la fine che avrebbero fatto. Ora se ne occupa un canile in attesa di darli in adozione a qualcuno dal buon cuore… poverini. Ovviamente, dei 700 bambini abortiti in Italia ogni giorno lavorativo (oramai 3 milioni dal 1978 ) soltanto silenzio…..di tomba! Buona giornata, suo Andrea Zangirolami”.

Vedo anch’io la televisione, almeno il telegiornale, e mi stupisco perché quasi ogni sera alle 20, sia sul Tg1 della RAI che sul Canale 5 di Mediaset, verso la fine del telegiornale c’è un servizio sugli animali, i servizi che fanno all’uomo, come si devono trattare, le violenze di cui anche loro sono vittime, le mostre o sfilate o concorsi che si fanno con gli animali domestici, come bisogna trattarli e mantenerli e via dicendo. Tutto bello e buono, ma a volte penso: “E i bambini che muoiono a migliaia anche per fame e abbandono?”. Siamo una società talmente decaduta nella moralità, che si preoccupa forse più degli animali che dei bambini! Tempo fa, ancora nei telegiornali, un cucciolo di ippopotamo fu fatto vedere e rivedere in attesa che qualche zoo lo adottasse. Faceva tenerezza. E i cuccioli dell’uomo abbandonati, quando mai hanno questa rilevanza nei nostri TG?

Piero Gheddo

«Diventano ladri per sopravvivere»

A Milano parlo con un signora che abita in periferia e frequenta la parrocchia. Mi dice che ringrazia il Signore perché nella sua famiglia il marito e il primo figlio lavorano e sono in grado di affrontare, almeno finora, la crisi economica di questi mesi. “Ma sapesse, mi dice, quante difficoltà ci sono per quelli che perdono il lavoro e per i giovani che non trovano lavoro!”. Chiedo: “Se in una famiglia non c’è nessuno che lavora, come se la cavano?”. “All’inizio cercano in ogni modo di trovare un’altra occupazione per guadagnare qualcosa. Spesso se la cavano, facendo anche lavori molto umili e precari, ma se non ci riescono, dopo un po’ so che alcuni, e forse non pochi, rubano, si organizzano, diventano ladri per sopravvivere”.

La notizia è un lampo da tramortire. Noi preti, che non abbiamo mai avuto il problema di trovare un lavoro e anche a ottant’anni, se stiamo bene, siamo sempre super-occupati, non possiamo avere una coscienza così viva e forte di cosa vuol dire, nella società moderna, restare senza lavoro! E’ vero, poi si possono fare tutti i ragionamenti che si vogliono: che i giovani spesso rifiutano certi lavori perché troppo pesanti, che le famiglie non sanno più risparmiare e quindi vanno presto in crisi, che spetta al governo provvedere a chi perde il lavoro o non trova lavoro e via dicendo.

Sì, tutto vero, ma l’umiliazione di essere licenziati, di avere una famiglia a carico senza uno stipendio sicuro o con stipendio del tutto insufficiente…. sono tragedie che chi non le ha provate non può nemmeno immaginarle. Ecco dove la solidarietà, la carità e l’impegno di aiuto, anche nostro personale fin dov’è possibile, possono dare una mano a chi ha meno di noi. In persone e famiglie che tentano di vivere il Vangelo, non è giusto che alcuni abbiano molto di superfluo e di soldi in banca e altri siano quasi costretti a diventare ladri per sopravvivere. “Ogni volta che avete fatto questo ad uno di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” dice il Signore Gesù (Matt. 25, 40).

Piero Gheddo