Obama ai neri d’America: «Non cercate scuse!»

Il Presidente americano Obama non cessa di stupire. Grande oratore e comunicatore, parla quasi sempre improvvisando, cioè senza avere sott’occhio testi preparati da altri, ed esprime idee contro corrente che gli attirano la simpatia degli americani che non l’hanno votato e dell’opinione pubblica mondiale.

Il 16 luglio scorso a New York, parlando a 3000 neri della Naapc (“National Association for the Advancement of Coloured People”), la più antica associazione per i diritti civili dei neri d’America che compie 100 anni, in un appassionato discorso di 45 minuti ha preso di petto il problema che interroga la più grande potenza del mondo: come mai i discendenti degli schiavi neri non riescono, come popolo, a crescere e ad integrarsi nel mondo americano, quanto mai aperto a tutte le componenti etniche presenti nei suoi 300 milioni di abitanti? Interrogativo quanto mai provocante, dato che altri popoli di recente giunti sul suolo americano (ad esempio i vietnamiti) in trent’anni sono riusciti, partendo quasi da zero, a costruirsi una posizione di tutto rispetto nella società americana.

Obama ha ricordato le sue origini africane, rivendicando con orgoglio il suo essere nero ed ha affermato con forza che la discriminazione razziale esiste ancora in America e nel mondo, “e questa piaga colpisce in modo devastante la comunità afro-americana”: nella sanità, nella scuola, nel lavoro, nella società civile. Negli Stati Uniti d’America non deve esserci più posto per i pregiudizi e le discriminazioni. Questa è la nostra responsabilità di capi”.

Poi si è rivolto direttamente ai suoi concittadini neri, affermando che nessun intervento del governo potrà cambiare queste situazioni, se non interviene un radicale cambiamento di mentalità, che sconfigga la più pesante eredità del passato, cioè la convinzione nella Black America (l’America nera) che il loro destino di neri è ineluttabile. Obama ha detto che il problema va affrontato soprattutto sul piano educativo e ha gridato: “Il vostro destino è nelle vostre mani, non dimenticatelo”. Ma poi ha aggiunto: “I genitori devono assumersi le loro responsabilità, mettendo da parte i videogiochi e mandando i figli a letto presto”. Il primo presidente afro-americano della storia Usa non ha esitato ad attribuire a sua madre — una bianca — il merito dei suoi successi. “Se non fosse stato per lei la mia vita avrebbe preso una piega tutta diversa…. Quando guido per Harlem o nei quartieri del South Side di Chicago e vedo quei ragazzi buttati per le strade, mi dico: “Quello potrei essere io, ma grazie a Dio è andata diversamente””.

“Non tutti i vostri figli possono aspirare a diventare Le Bron o Lil Wayne — ha detto riferendosi ad una star del basket e ad un rapper —. Voglio che aspirino a diventare scienziati, ingegneri, dottori, insegnanti, giudici della Corte Suprema e presidenti degli Stati Uniti”. E con quell’afflato religioso e messianico che rende la democrazia americana tanto diversa da quella europea, ha detto che “tutti i nostri giovani devono avere le stesse possibilità, perché tutti figli di Dio”. Ma ha concluso con un forte richiamo alla fede e alla speranza che hanno sostenuto gli uomini neri nelle loro travagliate secolari vicende e alle responsabilità dei genitori e delle famiglie, affinchè anche i giovani neri possano cogliere le possibilità che la società americana offre anche a loro.

L’11 luglio scorso ad Accra, capitale del Ghana, dopo aver descritto le troppe miserie dell’Africa nera, il Presidente Obama ha detto alle élites intellettuali africane (vedi il mio Blog del 17 luglio): “E’ facile addossare ad altri la colpa di questi problemi!”, invitandoli ad un “esame di coscienza” delle colpe che hanno i capi africani. Ad esempio, l’Occidente non ha colpa alcune di tanti disastri africani ed ha ricordato lo Zimbabwe, la Somalia, il Darfur. Una settimana dopo a New York ancora un discorso “politicamente scorretto”. Su questi due discorsi tutti noi che siamo interessati e appassionati a questo tema, dovremmo riflettere. Non facciamo il bene dei neri quando continuiamo ad insistere solo e sempre sulle colpe dell’Occidente e dei bianchi e su quel vittimismo che li porta alla protesta e all’inazione. Dobbiamo invece trasmettere loro, per quel poco o tanto che possiamo, il senso ottimistico della fede e della speranza in Dio e nelle loro potenzialità di popoli giovani, secondo quanto ha detto Obama: “E’ facile addossare le colpe dei vostri problemi agli altri… Il vostro futuro sarà quello che oggi voi vi costruite”.

Avviso ai lettori

Cari amici lettori, fra alcuni giorni andrò a fare un po’ di vacanza nella casa del Pime a Genova, pur con qualche impegno sacerdotale e missionario. Riprenderò il Blog qualche giorno dopo di quando ritornerò a Milano per la festa di Maria Assunta in Cielo, il 15 agosto prossimo. Buone vacanze anche a voi e Dio vi benedica tutti. Vostro padre Piero Gheddo

Islam guerrigliero nel sud Thailandia

In Thailandia si sta combattendo una delle tante “guerre dimenticate” di cui non si sa quasi nulla. La Thailandia è un paese a grande maggioranza buddhista di 65 milioni di abitanti, con una piccola percentuale di musulmani (4,5%) nelle tre province del sud, ai confini con la Malesia. Le richieste degli islamici di potersi unire alla Malesia risalgono a molti anni fa, poiché in passato quei territori appartenevano al sultanato islamico di Malay sotto la protezione dell’Inghilterra, come la Malesia, il Borneo malesiano e il Brunei. Dopo l’ultima guerra mondiale, il sultanato venne occupato dalla Thailandia.

Negli anni settanta del Novecento c’è già stata una forte campagna di richieste di autonomia regionale da parte dei musulmani, con attentati, violenze e brevi periodi di guerriglia. Poi tutto si è calmato, ma il problema si è riacceso dopo il crollo delle due torri a New York l’11 settembre 2001, che è stato quasi come un segnale di rivendicazione per i seguaci dell’islam in paesi dove sono minoranza: ad esempio, nell’isola di Mindanao nel sud delle Filippine e nella regione del Sinkiang in Cina.

La situazione attuale nel sud della Thailandia è molto grave. I separatisti musulmani reclutano nuovi combattenti nelle scuole islamiche, nel tentativo di innalzare il livello di scontro con il governo e l’esercito thailandese. Secondo uno studio elaborato dagli esperti dell’esercito thailandese, i separatisti musulmani cercano guerriglieri facendo leva sul nazionalismo Malay e sull’orgoglio e il senso di appartenenza al vecchio sultanato. “Essi dicono agli studenti delle scuole [islamiche] che è compito di ogni musulmano riprendere la loro terra dagli infedeli buddisti”.

Parlo con un missionario del Pime, padre Claudio Corti di Lecco, che lavora nel nord della Thailandia da 11 anni ed è in vacanza in Italia. Dice: “Tutti i giorni, i giornali riferiscono di attentati, incendi a scuole, molto spesso i monaci buddhisti non escono più dal monastero o escono con scorte armate di soldati perché sono stati uccisi anche loro; diversi abitanti delle tre province del sud sono scappati e vengono al nord perché la situazione è insostenibile. Per invogliare la gente ad andare a lavorare nel sud, il governo dà paghe molto più alte e tanta gente ci va. Là c’è una grande produzione di caucciù e pagano molto bene. I nostri tribali o per guadagnare o perché non hanno notizia di questa situazione ci vanno, poi alcuni tornano indietro quando si rendono conto dei pericoli. C’è una vera guerriglia contro il governo, i militari, la Thailandia. Con accuse al governo che non ha mai aiutato il sud a svilupparsi, infatti il sud è una zona abbastanza depressa della Thailandia. E anche la minoranza parlamentare accusa la maggioranza di questo.

“Ma in fondo – continua il missionario – lo scontro è diventato fra islam e buddhismo. Infatti il governo, per cercare di superare questo momento di crisi, favorisce molto le scuole islamiche e l’islam. I musulmani quel che vogliono lo ottengono. L’esempio più lampante è che i musulmani sono stati riconosciuti come thailandesi: mentre prima thailandese voleva dire buddhista, da due anni a questa parte i musulmani sono riconosciuti come thailandesi. Esempio concreto. Tutti i giorni, al mattino alle otto e alla sera alle sei c’è l’inno nazionale. Il paese si ferma, radio e televisioni trasmettono l’inno nazionale e tutti lo cantano. Le televisioni trasmettono immagini della Thailandia. C’è il re, ci sono i monaci buddhisti e adesso ci sono sempre anche i musulmani col loro caratteristico vestito, ci sono le pagode buddhiste e le moschee islamiche.

“Invece i nostri tribali no. Il cristianesimo è considerato religione straniera, anche se ormai gli stranieri siamo pochi: clero e suore sono quasi tutti locali. In Thailandia i cattolici sono circa 300.000 e i cristiani tutti assieme quasi un milione su 65 milioni, i musulmani sono circa tre milioni. Nella diocesi del sud fondata dai salesiani i cattolici sono circa 6.000, mentre nella nostra diocesi di Cheng Mai al nord sono 50.000 battezzati e 25.000 catecumeni. Cheng Mai è la seconda diocesi di Thailandia, dopo Bangkok.

“I musulmani vogliono unirsi alla Malesia, che ufficialmente non li appoggia, ma che sarebbe ben contenta di prendere anche quelle province thailandesi. Ma questo irredentismo islamico è venuto fuori dopo l’11 settembre 2001. Sono in Thailandia da undici anni, ma nei primi anni non c’era assolutamente questa richiesta di indipendenza. E’ una politica generale dell’islam che viene fuori anche nelle Filippine e in diverse regioni dell’Indonesia, ad esempio Sumatra che vorrebbe l’indipendenza per fare uno stato islamico”.

Piero Gheddo

Obama agli africani: "Yes, you can!"

“Akwaaba!” gridavano gli africani ad Accra, capitale del Ghana, mentre Barack Obama scendeva dall’aereo presidenziale americano: Benvenuto! Altri gridavano: “Akwaaba wo ba fiz!”, Welcome Home, Bentornato a casa! Era il sabato 11 luglio 2009. In una sola giornata il Presidente americano ha compiuto una visita al continente africano che rimarrà come uno dei momenti più alti nella storia di questo sfortunato continente, specialmente per il discorso tenuto al Parlamento di Accra. Perché Obama è andato in Ghana? Avrebbe dovuto andare in Kenya, paese dal quale viene la sua famiglia; ma il Kenya si trova in una situazione di insicurezza e di guerriglia per i contrasti fra le varie etnie, mentre il Ghana è oggi uno dei paesi più pacifici e democratici dell’Africa nera, che sta incamminandosi bene verso la democrazia e lo sviluppo.

Obama ha scelto il Ghana per dare un segno agli africani di come vuole tutta l’Africa, poi ha indicato con parole forti la via per la rinascita del continente, che ancora fatica a uscire dalla morsa del sottosviluppo. Parlando al Parlamento del Ghana, ha incominciato ricordando le sue origini africane: “Io ho dentro di me il sangue dell’Africa. Mio nonno faceva il cuoco per gli inglesi in Kenya, e nonostante fosse un anziano rispettato nel suo villaggio i suoi datori di lavoro lo chiamarono “boy” (ragazzo) per buona parte della sua vita. Mio padre crebbe pascolando le capre in un minuscolo villaggio, lontanissimo dalle università americane dove sarebbe poi andato per ricevere un’istruzione”.

Il Presidente della maggior potenza mondiale si presenta come africano e la sua stessa persona dimostra che “il futuro dell’Africa spetta agli africani”, anche se oggi l’Africa è rimasta “drammaticamente indietro. Malattie e conflitti hanno devastato intere parti del continente africano”. Ma, ha aggiunto Obama, “è troppo facile addossare ad altri la colpa di questi problemi. L’Occidente non è responsabile della distruzione dell’economia dello Zimbabwe nell’ultimo decennio o delle guerre in cui vengono arruolati bambini tra i combattenti. Ma io sono convinto che questo sia un nuovo momento di promesse. Non saranno giganti come Nkrumah o Kenyatta a plasmare il futuro dell’Africa. Sarete voi. E soprattutto, saranno i giovani”.
Quattro i pilastri della rinascita africana: democrazia, opportunità per tutti, lotta alle epidemie e risoluzione pacifica dei conflitti. “La prima cosa da fare è sostenere governi democratici e onesti. Nessun Paese riuscirà a creare ricchezza se i suoi leader sfruttano l’economia per arricchirsi, o se la polizia può essere comprata da trafficanti di droga. Questa non è democrazia, questa è tirannia ed è tempo che finisca. Possiamo star certi di una cosa: la storia è al fianco degli africani valorosi, non al fianco di chi usa colpi di Stato o modifiche costituzionali per rimanere al potere. L’Africa non ha bisogno di uomini forti, ha bisogno di istituzioni forti”.
“Questo continente è ricco di risorse naturali”, continua il Presidente americano e gli africani hanno la responsabilità di realizzare le potenzialità dell’Africa, “trasformando la crisi attuale in opportunità”. Poi ha detto: “Voglio essere chiaro: per tanti, troppi africani i conflitti armati sono parte dell’esistenza. Questi conflitti sono una pietra al collo per l’Africa. Dobbiamo combattere la mancanza di umanità in mezzo a noi. Non è mai giustificabile prendere di mira innocenti in nome dell’ideologia. Costringere i bambini a uccidere in guerra è la sentenza di morte di una società. Condannare le donne a stupri incessanti e sistematici è un segno estremo di criminalità e di vigliaccheria. Dobbiamo dare testimonianza del valore di ogni bambino del Darfur e della dignità di ogni donna del Congo. Nessuna fede o cultura può giustificare le offese contro di essi. Quando in Darfur c’è un genocidio o quando in Somalia ci sono i terroristi, queste sono sfide che riguardano la sicurezza globale ed esigono una risposta globale. Ecco perché siamo pronti a collaborare attraverso l’azione diplomatica, l’assistenza tecnica e il supporto logistico, e sosterremo gli sforzi per portare i criminali di guerra di fronte alla giustizia”.

Parole forti, accuse precise che nessuno aveva mai pronunziato in Africa. Per concludere riprendendo il massaggio di fondo della sua visita: “Come ho detto prima, il futuro dell’Africa spetta agli africani…. E sto parlando in particolare ai giovani. Questo è quello che dovete sapere: il mondo sarà come voi lo costruite. Voi avete la forza per chiamare i vostri leader a render conto del proprio operato, per costruire istituzioni che siano al servizio del popolo. Potete sconfiggere le malattie, mettere fine ai conflitti e creare il cambiamento partendo dal basso. Potete farlo. Sì, voi potete. Perché ora la storia sta cambiando”.

“Yes, you can!” ha tuonato il Presidente americano rivolto ai giovani: Sì, voi potete! Un messaggio di speranza e di fiducia. Due brevi riflessioni:

1) “E’ troppo facile addossare agli altri le colpe di questi problemi”. L’Occidente deve prendere coscienze delle proprie colpe, passate e presenti e coltivare verso i fratelli africani gli stessi sentimenti di fiducia e di disponibilità del Presidente americano. Ma anche gli africani, soprattutto gli “intellettuali” e le élites politiche, culturali e religiose del continente debbono rendersi conto delle proprie colpe e responsabilità. Noi in Italia e in Europa, non facciamo un buon servizio all’Africa se continuiamo solo e sempre ad attribuire all’Occidente le colpe dei drammi e dei fallimenti africani. Quando si parla e si scrive dei problemi africani, vengono alla ribalta i temi di sempre: colonialismo, neo-colonialismo, multinazionali, sfruttamento materie prime, oro e diamanti, vendita di armi, debito estero, ecc… Mai che si protesti contro l’analfabetismo, la corruzione dei governi africani, le divisioni e le guerriglie tribali, le dittature, l’instabilità politica che scoraggia gli investimenti dall’estero, la mancanza di strade (persino quelle fatte al tempo del colonialismo spesso non sono mantenute efficienti), ecc.

2) Obama ha indicato i quattro pilastri della rinascita africana: democrazia, possibilità per tutti, combattere le epidemie e risoluzione pacifica dei conflitti. Nel suo discorso non ha sviluppato il secondo pilastro: penso che con “possibilità per tutti” volesse indicare la scuola per tutti (la scuola vera non le povere scuolette africane di villaggio, senza libri e quaderni, con 80-100 alunni per classe!), per dare a tutti i bambini e le bambine eguali possibilità di crescere e di partecipare alla lotta per il buon governo e lo sviluppo. Con il 50% di analfabeti (e non pochi degli “alfabetizzati” sono “analfabeti di ritorno”), l’Africa purtroppo non va da nessuna parte: non può avere governi democratici e non può svilupparsi in un mondo super tecnicizzato come il nostro.

Piero Gheddo

Nell'Enciclica manca l'educazione dei poveri

Come ho già scritto nel Blog precedente (11 luglio), condivido pienamente i pareri positivi e laudatori espressi da molti sulla “Caritas in Veritate”, un documento che speriamo abbia un forte impatto in tutto il mondo, anche al di là di quello occidentale, fra i popoli “in via di sviluppo”. Vorrei però esprimere umilmente un mio sentimento di delusione. Visitando i missionari italiani in ogni parte del mondo, sento spesso ripetere l’antifona: qui manca l’educazione, qui manca la capacità di produrre, Ecco, nell’Enciclica manca il tema “educazione dei poveri”, che dovrebbe essere fondamentale quando si discute su cosa si può fare per aiutare “i paesi in via di sottoviluppo”: secondo una valutazione dell’Undp (United Nations Development Programm) ancor oggi sarebbero 34. L’educazione è il motore principale dello sviluppo, il mezzo, lo strumento che sviluppa anzitutto le facoltà intellettuali dell’uomo e fa crescere un popolo. Non si può separare l’economico dall’umano e noi, ricchi del mondo, diamo troppo spesso per scontato che anche nei 34 “paesi in via di sottosviluppo” la scuola sia assicurata a tutti. Ma non è così.

Come può svilupparsi l’Africa nera quando circa il 50% dei suoi abitanti sono analfabeti riconosciuti e un altro 20-25% “analfabeti di ritorno”? L’Enciclica mette giustamente l’accento sul diritto dei popoli al cibo, ma non dice nulla di quei popoli che producono meno cibo di quel che consumano, mentre potrebbero essere autosufficienti se fossero educati a produrre! L’Africa nera, dal 1960 ad oggi è passata da 200 a 700 milioni di abitanti, ma la produzione agricola non è aumentata di pari passo. In passato l’Africa esportava alimenti oggi, importa il 30% del cibo che consuma. A Vercelli produciamo 75-80 quintali di riso all’ettaro, nell’agricoltura tradizionale africana ne producono 4-5 (è solo un esempio tra mille) e non per pigrizia, ma proprio perché non sono educati a produrre di più. Ma chi va ad educarli a produrre? Prima di dire che bisogna assicurare ad ogni uomo il diritto al cibo, bisognerebbe dire che ogni uomo va educato a produrre per essere autonomo, lui e la sua famiglia, nelle necessità primarie della vita. Cosa di cui i governi locali dei paesi poveri non si preoccupano e il mondo internazionale meno ancora. Nel G8 di questi giorni si parlerà molto di aiuti, di soldi, di commerci, ma non di educazione.

Uno slogan efficace ma falso dei No Global dice: “Il 20% degli uomini possiede l’80% della ricchezza mondiale, mentre l’80% degli uomini possiede solo il 20%”. La verità è un’altra: invece di “possiede” bisogna dire “produce”. La soluzione è quella del famoso proverbio cinese: “Se un uomo ha fame non dargli un pesce, ma insegnagli a pescare”; oppure: dagli pure un pesce, ma insegnagli anche a pescare.

C’è un abisso d’incomprensione fra noi ricchi del mondo e gli autentici poveri dei villaggi africani che ignorano l’uso della ruota e della carriola (le donne portano tutto sulla testa), la trazione animale, la rotazione delle colture, l’irrigazione artificiale, la forza motrice del mulino ad acqua, la piscicoltura in laghetti artificiali, l’uso dell’aratro e tante altre piccole grandi “invenzioni” che permetterebbero all’Africa che soffre la fame di essere autonoma. Non si tratta anzitutto di “distribuire” il cibo e la ricchezza prodotti, ma di “insegnare” a produrre. Ma chi va a condividere con i poveri nei villaggi con capanne di paglia e di fango? E’ più facile mandare soldi e container che trovare giovani disposti a donare la vita o almeno alcuni anni della vita al prossimo più povero.

Tutto quel che dice l’Enciclica è giusto e vero, ma mi stupisco  di come il tema “educazione” non venga mai fuori. Educare vuol dire partire dalla base, dal piccolo popolo povero che soffre la fame (almeno in certi periodi dell’anno). Una delle più importanti Ong cristiane e italiane di volontariato internazionale, l’AVSI, da alcuni anni insiste con campagne d’opinione pubblica sul tema “Educazione dell’uomo per lo sviluppo”, specialmente degli uomini più poveri e marginali. Che poi è proprio quello che fanno le Chiese locali ed i 7.000 missionari e volontari italiani in Africa.

Piero Gheddo

Cosa dice la "Caritas in Veritate"

La terza Enciclica di Papa Benedetto “Caritas in veritate” è veramente un testo di grande valore. Dopo averla letta (e sottolineata per ricordare i temi più importanti), penso che sia, nel nostro tempo, “la magna charta dei paesi poveri”, come il Primo ministro dell’India aveva definito 40 anni fa la “Populorum Progressio”, di cui questa nuova Enciclica sociale vuol essere la continuazione aggiornata al nostro tempo. E’ il tentativo riuscito di sintetizzare la situazione caotica in campo economico-finanziario in cui ci troviamo tutti sommersi. Lo scopo è di orientare l’economia mondiale, specie quella dei paesi ricchi, verso la fraternità fra i popoli, termine preferito a solidarietà: gli uomini infatti sono tutti fratelli perché figli dello stesso Padre. Quindi verso i popoli più poveri e marginalizzati dal mercato mondiale. Un’Enciclica scritta anzitutto per i grandi del mondo, gli studiosi, i periti di varie scienze, ma credo leggibile anche da “tutti gli uomini di buona volontà” a cui il Papa espressamente si rivolge.

Un’enciclica di alto livello intellettuale e di inquadratura schematico-concettuale molto ampia, anche se non facile da leggere. E’ la prima osservazione che mi viene in mente leggendo. Manca una trascrizione direi “giornalistica”, che renda certi passaggi un po’ più comprensibili e digeribili. Un’osservazione generale che nulla toglie al valore del testo pontificio e si potrebbe ripetere per tanti altri documenti delle autorità ecclesiastiche: per voler comprendere tutto, per non trascurare alcun aspetto delle complesse situazioni del mondo attuale, si finisce per far perdere di vista il quadro generale del tema trattato. La stessa divisione della Caritas in Veritate in lunghi capitoli senza alcun sottotitolo non invita a leggere. La “Populorum Progressio” aveva avuto un grande successo di opinione pubblica in tutto il mondo, nei giornali laici e nei paesi poveri, credo anche per questo motivo, diciamo didascalico:  procedeva per paragrafi di 15-20-25 righe, ciascuno dei quali con un suo chiaro e nero titoletto. I sei capitoli della “Caritas in veritate” procedono per pagine e pagine con un titolo molto generale e poi un po’ di corsivi che si perdono nella lunghezza dei testi. Chi legge non respira più, si stanca, perde di vista la trama generale dell’opera!

Un documento, ripeto, che merita di essere veramente letto da tutti “gli uomini di buona volontà”, perché spiega molto bene la dottrina sociale della Chiesa riguardo ai problemi economici, politici, sociali e culturali di cui oggi si discute e si dibatte specialmente fra i soggetti politici e nei Parlamenti. Cosa dice la Caritas in Veritate? Il Papa parte spiegando il significato del titolo: la carità, cioè l’amore all’uomo, è il segno distintivo del cristianesimo: “La carità è la via maestra della dottrina sociale della Chiesa”. Ma questo amore dev’essere nel rispetto della verità sulla natura dell’uomo e della società umana. Due i “criteri orientativi dell’azione morale”, la giustizia e il bene comune. Ecco in estrema sintesi i contenuti del primo capitolo, che orienta e giustifica tutto il resto dell’Enciclica:

Benedetto XVI parte dal messaggio fondamentale della “Populorum Progressio: l’uomo creato da Dio non è un essere autosufficiente. Senza Dio, lo sviluppo umano viene “disumanizzato” (10-12). Il Vangelo è indispensabile “per la costruzione della società secondo libertà e giustizia” (13). Quindi lo sviluppo dell’uomo è una “vocazione” perché nasce “da un appello trascendente” ed è uno “sviluppo integrale” quando è “volto alla promozione di ogni uomo e di tutti gli uomini (16-18). Secondo queste premesse, le cause del sottosviluppo non sono primariamente di ordine materiale. Il sottosviluppo ha una causa radicale, che è “la mancanza di pensiero… e di fraternità tra gli uomini e tra i popoli” (19). “La società globalizzata – rileva il Papa – ci rende vicini, ma non ci rende fratelli… Bisogna allora mobilitarsi, affinchè l’economia evolva verso esiti pienamente umani” (19-20).

Non è possibile, in questo breve Blog, seguire tutta l’Enciclica nei restanti cinque capitoli, che trattano dei problemi in cui oggi si dibatte l’umanità. La Caritas in Veritate non è un’enciclopedia o un elenco sistematico di problemi, ma un esame e una proposta di soluzione, affinchè lo sviluppo sia veramente per tutto l’uomo e per tutti gli uomini. Mi pare importante rilevare che la Caritas in Veritate riprende dalla Populorum Progressio e mette bene in risalto quello che quarant’anni fa era stato trascurato di quell’Enciclica, nei commenti e studi anche di parte cattolica. Paolo VI partiva dallo “sviluppo dell’uomo che viene da Dio e deve portare a Dio” (nn. 14-21 e 40-42 della P.P. e n. 58 della “Redemptoris Missio” di Giovanni Paolo II).

Un ricordo. Nel 1972, cinque anni dopo la Populorum Progressio, nella sede di Piacenza dell’Università cattolica si tenne un congresso di studio di tre giorni sull’Enciclica, al quale ho partecipato con una lezione sull’azione dei missionari per lo sviluppo dei popoli. Mi stupiva il fatto che, a parte l’introduzione teologica del gesuita padre Joblin, si parlava dei problemi materiali dello sviluppo, gli aiuti, i finanziamenti dei piani di sviluppo, il commercio internazionale, i prezzi delle materie prime, i lavoratori emigrati, ma quasi senza più connessione con l’ispirazione religiosa profonda della P.P. Quasi due mondi separati: da un lato Dio, il Vangelo, la Chiesa, la vita religiosa; dall’altro il quotidiano con i suoi angosciosi problemi politico-economico-sociali-culturali. Era l’impressione comune che avevo in quegli anni, leggendo i molti studi e commenti internazionali, ripeto anche di cristiani e cattolici, dell’Enciclica di Paolo VI.

La Caritas in Veritate, riprendendo il grande documento di Paolo VI, ha voluto congiungere in modo fermo la fede con la vita, che deve illuminare e guidare anche la ricerca di una soluzione ai grandi problemi dell’umanità, ai quali oggi ci troviamo confrontati e spesso non abbiamo risposte adeguate. Insomma, credo che la Caritas in Veritate debba essere letta e meditata da tutti coloro che hanno a cuore specialmente temi come la fame nel mondo, l’integrazione culturale dei popoli, gli aiuti allo sviluppo da parte dei popoli ricchi e via dicendo.

Piuttosto, si può ancora notare che in questa Enciclica di Papa Benedetto manca qualcosa che ci aiuti a comprendere meglio gli ultimi della terra, quel miliardo di uomini e donne che ancora oggi soffrono la fame. E, di conseguenza, capire meglio cosa in concreto possiamo e dobbiamo fare per aiutarli. Nel prossimo numero del Blog parlerò di questo limite dell’Enciclica, che è un po’ quello dei documenti ecclesiastici e civili dei popoli ricchi che trattano di quelli poveri.

Piero Gheddo

Il processo romano di Rosetta e Giovanni

                        Il Processo romano di Rosetta e Giovanni      9 lug 2009

 

 

    Come forse i lettori di questo Blog sanno, mia mamma e mio papà sono in cammino per diventare Beati della Chiesa cattolica. Il 23 giugno 2009 alla Congregazione dei Santi in Vaticano sono stati aperti i sigilli degli atti processuali dei servi di Dio Rosetta Franzi (1902-1934) e Giovanni Gheddo (1900-1942). La fase diocesana della causa di beatificazione era stata iniziata dall’arcivescovo di Vercelli, mons. Enrico Masseroni, il 18 febbraio 2006 a Tronzano vercellese (il paese di Rosetta e Giovanni e della nostra famiglia) e chiusa dallo stesso il 17 giugno 2008 a Vercelli. Il materiale raccolto dal Tribunale diocesano, presieduto da mons. Ennio Apeciti della Curia di Milano, sulla vita di Rosetta e Giovanni, è stato portato a Roma nel febbraio 2009.

      La breve cerimonia del 23 giugno 2009, alla presenza della Postulatrice dott.sa Francesca Consolini, di padre Piero e di collaboratori ed amici, è il primo atto ufficiale del percorso romano della Causa, che, speriamo, condurrà alla beatificazione di Rosetta e Giovanni. Ora ci vorranno sette – otto mesi affinchè la Congregazione proclami il “Decreto  di validità”, cioè che il processo diocesano a Vercelli ha prodotto i documenti giusti e sufficienti per iniziare l’esame delle virtù eroiche dei due coniugi di Tronzano. Prima la Congregazione dovrà sistemare bene i documenti e fare un indice dei contenuti e poi mandare il tutto alla rilegatura, in doppia copia (si chiama “la copia pubblica”). Una copia di questi volumi (formato A4) rimane alla Congregazione e una va alla Postulatrice per preparare la Positio.

     Dopo il Decreto di validità e la rilegatura della copia pubblica, la Congregazione dei Santi nomina un “Relatore” della Causa, interno alla Congregazione stessa, che segue la preparazione della Positio e la stampa. Poi inizia processo romano della Causa, che consiste nell’esame e nella discussione del materiale raccolto nella “copia pubblica” e nella Positio, da parte di periti teologi e di periti storici e infine anche dai Cardinali membri della Congregazione. Al termine di questo cammino, se si conclude con voti positivi, cioè che Rosetta e Giovanni hanno vissuto le virtù cristiane in modo eroico, il Papa firma il decreto sulla eroicità delle loro virtù e li dichiara “Venerabili”. Per proclamarli “Beati” della Chiesa universale, occorre poi un miracolo, cioè una guarigione eccezionale, scientificamente inspiegabile per i periti medici della Commissione della Congregazione dei Santi.

      Cari amici di Rosetta e Giovanni, cosa possiamo fare affinchè si affretti il cammino verso la beatificazione dei due coniugi d’Azione cattolica? Anzitutto la preghiera per ottenere grazie attraverso la loro intercessione, segnalando le grazie ricevute e le preghiere fatte; e la volontà di imitare i due servi di Dio nella loro vita matrimoniale e spirituale. Scrivetemi, ditemi i vostri sentimenti e situazioni in cui sperimentate che l’aiuto dei due servi di Dio è importante per voi. Poi occorre anche diffondere la conoscenza e la devozione a Rosetta e Giovanni. Mandatemi indirizzi nuovi a cui inviare in omaggio la “Lettera agli amici di Rosetta e Giovanni”, che fanno a Vercelli un gruppo di amici, con le grazie ricevute, le lettere dei devoti, le testimonianze sui due servi di Dio e anche articoli sulla famiglia cristiana. Un piccolo bollettino di poche pagine, che piace a molti perché semplice e pratico. E poi confidiamo nel Signore. Lui sa quanto è importante proporre a tutta la Chiesa e all’umanità l’esempio di questi due coniugi che, come diceva l’arcivescovo di Vercelli, “hanno fatto una vita del tutto ordinaria, ma vissuta in modo straordinario”. Dio vede e Dio provvede!

                                                                                          Piero Gheddo

 

    Chi volesse ricevere in omaggio la “Lettera agli Amici di Rosetta e Giovanni”, scriva a. Padre Piero Gheddo – Pime – Via Monterosa, 81 – 20149 Milano. Il bollettino quadrimestrale è fatto da membri dell’Ufficio pastorale diocesano per la famiglia di Vercelli, con grazie ricevute, lettere di devoti dei due coniugi d’Azione cattolica, ricordi di Rosetta e Giovanni, articoli sulla famiglia cristiana oggi. E’ inviato in omaggio a chiunque lo chiede, chiedendo preghiere per la causa di beatificazione. Sono pure disponibili due volumi su Rosetta e Giovanni e il DVD sulla loro vita, fatto da Carlo e Paola De Biase, registi pensionati della RAI.

Birmania: un protettorato cinese?

La Birmania è scomparsa dalla stampa italiana ed internazionale. Nell’estate 2007, in occasione della “rivolta dei bonzi”, era alla ribalta dell’attenzione mondiale. Si moltiplicavano manifestazioni e proteste, l’Onu e l’Unione Europea mandavano i loro messaggeri per esprimere al governo militare la ferma condanna del loro modo di agire. Oggi silenzio assoluto, ma la situazione all’interno di quel grande paese va peggiorando. Il governo segue due chiare linee politiche: primo, è ormai praticamente un protettorato cinese, satellite della Cina in campo internazionale e invaso dai cinesi e dai loro prodotti; secondo, sul piano interno si segnalano massicce campagne di “birmanizzazione” del popolo di Myanmar. La Birmania, estesa due volte l’Italia con 47 milioni di abitanti, è abitata dai birmani (circa il 60% del totale) e da varie etnie per il 40%: karen (9,5%), shan (6,5), chin (2,5), mon (2,3), kachin (1,5), arakan e altre etnie aborigene (21,8%). La religione maggioritaria è il buddhismo (89,4%), seguono i cristiani (4,9), i musulmani (3,8) e poi indù e appartenenti a religioni animiste tradizionali.

Il governo vuole unire il popolo nell’unica lingua nazionale birmana e nel buddhismo. Da varie parti del paese giungono notizie che le lingue delle etnie minoritarie non sono più insegnate e i militari distruggono i resti di antichi regni e culture. Ad esempio, a Kengtung hanno distrutto tutti i segni della cultura shan, compreso il palazzo reale del saboà di Kengtung che era il ricordo più prezioso e visibile del passato pre-coloniale. Nello stato dei “chin” ai confini con l’India, con mezzo milione di abitanti al 90% cristiani (protestanti o cattolici) e il resto animisti, i militari hanno distrutto le grandi croci che i chin avevano eretto sulle cime dei monti, le edicole religiose ai crocevia di alcune strade, altri segni cristiani all’entrata dei villaggi. Il popolo è obbligato a costruire grandi statue di Buddha e templi buddhisti, in una regione dove i buddhisti sono pochissimi e non chin, ma birmani, cioè stranieri in quella regione. Le Chiese cristiane, nello stato chin, sono oggi veramente perseguitate. I cristiani sono obbligati a versare una tassa annuale per sostenere il buddhismo e, se si convertono, ottengono privilegi: tra l’altro l’esenzione dai lavori forzati a servizio dell’esercito. Le Bibbie sono vietate, permesse le liturgie domenicali, spesso disturbate o interrotte, ma proibite tutte le altre riunioni di cristiani. Molti bambini cristiani sono portati lontano dalle famiglie e internati in monasteri buddisti.

Non si può però parlare di persecuzione anti-cristiana in tutta la Birmania, in quanto le campagne di birmanizzazione sembrano svolgersi in modo sistematico in alcune regioni e non in altre, forse per una strategia che si sviluppa in modo graduale. Ad esempio, in un altro stato federato di Myanmar a maggioranza cristiana (cattolica), il Kayah con poco più di 200.000 abitanti di etnia karen (o cariana), vi è libertà religiosa, anche se molto limitata e il popolo deve costruite templi buddhisti e statue di Buddha, dove non sarebbero necessari. Tra i cariani è ancora attiva la guerriglia anti-birmana.

Negli stati “shan” (Kengtung e Taunggyi) non c’è persecuzione, ma solo un’invasione di militari che obbligano tutti a parlare birmano, non si insegnano più le lingue locali, requisiscono gli uomini obbligandoli al lavoro forzato a servizio dell’esercito, distruggono i segni delle antiche culture, anche di quella degli shan che sono buddhisti. I quali fuggono in Thailandia e dicono chiaramente di essere legati all’esercito di liberazione del popolo shan dal potere birmano. Tutto attorno a Kengtung hanno messo accampamenti militari e nel cimitero cattolico sull’alto di una collina che domina la città hanno asportato le grandi croci di ferro che c’erano sulle tombe dei missionari italiani, con la scusa di aver bisogno di quel ferro. Ma in pratica, dal gennaio 2009 il cimitero cattolico non è più frequentabile né usabile. Diversa la situazione nelle sette “regioni speciali” ai confini con la Cina, che in pratica stanno diventando regioni cinesi, lingua cinese, lavoratori cinesi, strade ed edifici nuovi, modernizzazione dell’agricoltura e piena libertà religiosa. A Monglar, nella regione degli “akhà”, hanno costruito una seconda grande chiesa, un fatto che non sarebbe più possibile nella Birmania vera e propria.

Un monaco buddhista ha rilasciato un’intervista ad “Asia News” nella quale si legge: “La giunta militare schiaccia ogni dissidente, tiene in carcere migliaia di prigionieri politici e impone severe restrizioni alle libertà di parola, religione e assemblea. Nel nostro paese le risorse naturali abbondano eppure gran parte della popolazione vive nella povertà. Nei villaggi il servizio sanitario versa in condizioni disastrose. C’è un alto livello di malnutrizione, ci sono pochissime ostetriche. La gente delle zone rurali patiscono gravi problemi di salute a causa delle condizioni di povertà in cui vivono, la mancanza di servizi sanitari adeguati. Queste gravi carenze si vedono soprattutto nelle regioni abitate dalle minoranze etniche dove i continui trasferimenti forzati e la scomparsa degli uomini costringono le donne a prendersi cura in toto dei loro figli. Le percentuali di mortalità tra le madri è molto alta. Gli insegnanti nelle aree rurali scarseggiano e anche il livello di formazione è molto basso, per cui molti giovani non sono in grado di trovarsi un lavoro decente e sostenersi economicamente”.

Piero Gheddo

Iran: il maggior aiuto è la preghiera

La rivolta che incendia Teheran da due settimane è la ripetizione di quel che è già successo trent’anni fa in quel grande paese. Una rivolta popolare contro il potere oppressivo dello stato. Nel 1979 lo Scià modernista Reza Pahlevi, oggi il dittatore reazionario Ahmadinejad. Nel 1979 il popolo, infiammato dai mullah e dal carismatico Khomeini, protestava contro il discendente del millenario regno di Dario e dell’antica Persia, che voleva modernizzare il paese alleandosi con “Il Grande Satana”, gli Stati Uniti d’America e l’Occidente cristiano. Pur mantenendo l’islam come religione nazionale, lo Scià si proponeva di aggiornare i precetti ed i costumi islamici al mondo moderno. Era un monarca del passato che esercitava un potere assoluto, ma anche avviando molte riforme: voleva le bambine a scuola, apriva le Università alle ragazze, mandava molti giovani a studiare in Occidente, concedeva una limitata ma effettiva libertà di stampa e di ricerca, varando anche un codice matrimoniale molto più favorevole alla donna di quello islamico; infine, aveva aperto una facoltà universitaria che studiava come ringiovanire l’islam aprendolo agli studi comparati con le altre religioni e culture. L’”Accademia Iraniana di Filosofia” credo sia stata l’unica iniziativa partita dall’islam per dialogare e cercare interscambi con il cristianesimo e le altre religioni e civiltà.
Questa spinta autoritaria per una troppo rapida evoluzione verso il mondo moderno venne spazzata via nel 1979 dalla “Rivoluzione islamica” di Khomeini, che ha dato origine al movimento opposto, il ritorno all’islam puro e duro e alla radicale islamizzazione della società: taglio della mano ai ladri, lapidazione delle donne adultere, fustigazione e impiccagione pubblica per vari tipi di crimini, matrimoni forzati di bambine di nove anni, censura dei libri e dei siti internet “pericolosi”, imposizione del “burqa” alle donne che non vogliono avere guai coi “pasdaran”, i guardiani della rivoluzione armati di manganelli. Un regime teocratico che governa nel nome di Dio esercitando una ottusa e feroce violenza e facendo strame della Carta dei Diritti dell’Uomo.
Nel 1979 la “rivoluzione islamica” di Khomeini, applaudita in Occidente come se fosse progressista, si è invece rivelata quanto mai reazionaria. Oggi siamo tutti idealmente al fianco dei coraggiosi che si oppongono al regime degli ayatollah, ma da molti segni pare che il capo dell’opposizione Moussavi sia ben lontano dal voler uno stato laico e rispettoso delle libertà personali. Parlo con un missionario che viene da un paese islamico e conosce bene la situazione dell’islam. Dice: “La partita che si gioca a Teheran mi pare esemplare e decisiva per il mondo islamico, perché tutta all’interno di quel mondo, lontano secoli dalla nostra mentalità occidentale. Ovunque ci sono popoli in grandissima maggioranza non secolarizzati o laicizzati, ma tutti egualmente fedeli ad Allah. Si scontrano le due correnti che vogliono trovare una via d’uscita dalla costante umiliazione dell’islam negli ultimi due secoli: tornare a Maometto e alla “legge islamica” oppure iniziare un cammino guidato verso l’accettazione del mondo moderno, che ormai li circonda e li invade da ogni parte. Noi confidiamo che la maturazione già iniziata ai valori della Carta dell’ONU sui diritti dell’uomo possa prevalere nei popoli islamici ”.
Nel 1982 al vescovo di Feisalabad mons. John Joseph (morto martire in difesa dei cristiani oppressi in Pakistan) chiedevo cosa possiamo fare noi italiani per aiutare la piccola comunità cristiana del suo paese. Risposta: “Abbiamo bisogno anche di aiuti economici perché siamo molto poveri. Ma il maggior aiuto è la preghiera. Io stesso che sono nato in Pakistan non saprei cosa suggerire di diverso. Solo Dio conosce in profondità l’islam e può cambiarlo dall’interno”.
Piero Gheddo

Come cambia la Chiesa giapponese

I cattolici in Giappone sono circa 430.000 su 130 milioni di giapponesi. Ferventi, con un forte senso di fedeltà e di appartenenza, aumentano più o meno del 4% l’anno. Il cristianesimo e la piccola Chiesa cattolica (0,4% dei giapponesi) sono conosciuti da tutti, ammirati e lodati, il Vangelo è da anni uno dei best-sellers librari in Giappone (più di un milione di copie vendute all’anno) e, quel che più conta, la società giapponese, rispetto a un secolo o mezzo secolo fa, si è sempre più avvicinata al costume cristiano. L’influsso del Vangelo e delle comunità cristiane è stato notevole e positivo. La Chiesa giapponese s’interroga come mai, date queste premesse, le conversioni di giapponesi sono sempre minime. Ma non trova risposte soddisfacenti.

Parlo a Roma con un missionario del Pime in vacanza (dopo quasi 40 anni di vita giapponese), padre Mario Bianchin. Mi dice che, oltre ai poco più di 400.000 cattolici giapponesi, in Giappone ce ne sono molti altri, poco meno di un milione: in cifra tonda, mezzo milione di filippini e filippine e mezzo milione di sudamericani (specie peruviani e brasiliani). Vengono soprattutto come lavoratori, badanti, persone di servizio, ma anche rappresentanti di ditte soprattutto brasiliane. Anche i giapponesi fanno sempre meno figli!

Dice che questa massa di cattolici sono ammirati, non solo per il lavoro e l’onestà, ma soprattutto per la fedeltà alla Chiesa e alla preghiera e danno anche una buona testimonianza di vita. Aggiunge: “Noi missionari e il clero giapponese ci interroghiamo da anni perché la nostra Chiesa non attira molte conversioni. Fioriscono le interpretazioni più diverse. Intanto lo Spirito Santo preparava questa pacifica e massiccia “invasione” di cattolici benvisti e benvoluti, che sono inseriti nella società e nelle famiglie giapponesi”.

E dà una spiegazione di esperienza alla domanda che tutti si fanno. “Il giapponese, dice, non è interessato alle cose teoriche, alla dottrina, alla teologia, non segue volentieri i nostri ragionamenti logici. E’ un popolo pratico e si potrebbe dire pragmatico. Vivendo assieme giorno per giorno con cattolici come filippini e sud americani in genere abbastanza convinti e praticanti, incomincia a vedere in concreto il valore della nostra fede. Speriamo che il Signore faccia il resto, comunque è un fatto molto positivo per la Chiesa giapponese e anche un nuovo impegno pastorale per assistere questi nuovi fratelli di fede”.

Piero Gheddo