CRISTO E’ RISORTO, ALLELUJA!

 

                                                     

 

         Cari amici, buona Pasqua! La Risurrezione di Cristo è la garanzia della nostra immortalità. Gesù è risorto per darmi la certezza che anch’io risorgerò e avrò un posto nel suo Regno di pace, di amore, di gioia. Che grande cosa la fede, care sorelle e cari fratelli! “Questo è il giorno che ha fatto il Signore. Venite, esultiamo, perché Cristo è risorto!”. Nella Pasqua ho la certezza che Gesù è risorto e che anch’io risorgerò con Lui. La mia vita quindi non è una vita piccola, povera, tormentata da malattie, sofferenze e fallimenti, ma una vita felice ed eterna

 

    La novità sconvolgente della risurrezione è così fondamentale per la fede cristiana che da duemila anni la Chiesa non cessa di proclamarla ogni domenica ma specialmente nella prossima Festa di Pasqua. E’ un avvenimento reale, storico, testimoniato da molti e autorevoli testimoni. Il Gesù che noi amiamo e adoriamo non è semplicemente un grande profeta del passato, come molti altri che la storia umana ricorda. E’ Dio, la seconda persona della SS. Trinità, che s’è fatto uomo ed è morto in Croce per tutti gli uomini, per liberarci dal peccato e dalla morte eterna.

 

     Nel 1964 ho incontrato a Calcutta padre Courtois, un gesuita francese che è stato uno dei pionieri del dialogo con l’induismo. Mi raccontava che aveva fatto anche lui l’esperienza di San Paolo ad Atene quando aveva parlato di Cristo agli ateniesi (Atti, 17, 19-34). Courtois era stato invitato a parlare di Gesù Cristo ad un importante convegno di monaci indù. Per più d’un ora l’avevano ascoltato incuriositi e attenti mentre raccontava i miracoli e le parabole di Gesù. Ma quando dice che Gesù Cristo è risorto dalla morte lo interrompono rispettosamente e gli dicono: “Anche noi abbiamo nei nostri poemi mitologici storie di dei e di dee che morivano ma poi risorgevano a nuova vita. Ma non crediamo che siano fatti realmente accaduti. Si raccontano come favole simboliche di un lontano passato”.

 

    Cari amici, la nostra fede ci dice che Cristo è veramente risorto, ma anche oggi c’è chi cerca di negarne la storicità riducendo il racconto evangelico a un mito, ad una “visione” degli Apostoli, riprendendo e presentando vecchie e già smentite teorie come nuove e scientifiche. Courtois era fra monaci indù pagani, noi viviamo in un paese di battezzati, di cristiani, non pochi dei quali hanno perso la fede nella Risurrezione e nella Divinità di Cristo, senza la quale non esiste cristianesimo.

 

     La cultura corrente del nostro tempo tende ad accettare il messaggio di Gesù: amore, carità, perdono, pace, aiuto ai più poveri, giustizia, solidarietà e via dicendo. Accetta il messaggio, ma rifiuta il messaggero e la prova capitale della sua Divinità, cioè la Risurrezione dalla morte. Gesù quindi è solo un saggio, un profeta che, come diceva Gandhi riferendosi alle Beatitudini, “ha espresso il pensiero più alto in tutta la storia dell’umanità”. Ma questo a noi cristiani non basta, perché se Gesù è solo un uomo, sia pure il più grande e saggio degli uomini, non solo lui non è risorto, ma anche noi non risorgeremo. E la nostra vita ha per orizzonte sempre e solo questo mondo materiale, che passa ogni giorno e passerà del tutto quando moriremo e alla fine dei tempi.

    

    In questo giorno siamo tutti chiamati a ritrovare l’entusiasmo della fede. Prima di celebrare la S. Messa dico sempre: “Signore Gesù, riaccendi in me l’entusiasmo della mia Prima Messa, quando piangevo di gioia perché avevo raggiunto l’ideale della mia giovinezza”. Oggi chiediamo la fede e l’entusiasmo della fede. Tutti abbiamo la fede, che però può essere una fiammella di candela che si spegne ad ogni soffiar di vento lasciandoci al buio o come il sole che splende a mezzogiorno, che illumina, riscalda, dà senso alla vita e gioia di vivere.

     La Pasqua è la fonte della nostra gioia. Anche se abbiamo mille problemi e sofferenze, la fede ci dà la gioia, quella autentica che viene da Dio. Questo è il mio augurio: amici, siate felici della gioia che solo Dio può dare. Ancora Buona Pasqua a tutti e arrivederci, se Dio vuole, all’8 aprile prossimo    

                                                                                            Piero Gheddo

Cesare Colombo: la rivoluzione dell'amore

 

   

       Il 13 marzo scorso, nel Teatro della Società di Lecco, si è svolta un’assemblea cittadina organizzata dal Laboratorio missionario di Lecco, per commemorare il centenario della nascita di padre Cesare Colombo (1910-1980), missionario lecchese del Pime in Birmania, medico-chirurgo, fondatore e direttore del lebbrosario di Kengtung. Vi hanno partecipato mons. Roberto Busti, vescovo di Mantova e parroco emerito di Lecco, mons. Franco Cecchin, attuale parroco, varie autorità civili e un 250-300 amici del Laboratorio missionario. Mons. Busti ha aperto l’assemblea ricordando i suoi molti incontri con padre Cesare; poi ho tenuto la commemorazione ufficiale del missionario e infine suor Maria Viganò, delle suore di Maria Bambina, ha dato una toccante testimonianza dell’influsso che padre Cesare ha avuto nella sua vita. Ecco in sintesi quanto ho detto più a lungo:   

 

    Padre Cesare Colombo è andato in Birmania nel 1935, nella prefettura apostolica di Kengtung, ai confini con Thailandia, Laos e Cina. Si interessa subito dei lebbrosi, che allora erano tanti e abbandonati a se stessi, non curati in nessun modo, anzi scacciati dei villaggi, portati in foresta perché morissero. Il suo amore per il popolo birmano si esprimeva soprattutto verso i lebbrosi e tutti i poveri che battevano alla sua porta. Già nel 1936 aveva cominciato a raccogliere i lebbrosi, gli handicappati, quelli cacciati via dai villaggi. “Quando parlava dei lebbrosi piangeva”, ricordavano i confratelli. Nella casa di riposo del Pime a Lecco, una volta gli ho chiesto: “Perché si è messo ad assistere i lebbrosi?”. Mi ha risposto: “Perché erano i più abbandonati, quelli che nessuno voleva”. Nasce il lebbrosari di Kengtung con le suore di Maria Bambina come infermiere e mamme dei lebbrosi.

 

    Durante la seconda guerra mondiale padre Cesare è mandato con altri missionari italiani e tedeschi in un campo di concentramento in India e quando ritorna a Kengtung nel 1945 riprende la guida del lebbrosario, che le suore avevano sempre mantenuto aperto. Nel 1953 viene in Italia per laurearsi in medicina e chirurgia a Padova e poi realizza a Kengtung alcune rivoluzioni nel trattamento e cura dei lebbrosi, che gli meritano diversi premi internazionali e riconoscimento dell’O.M.S. (Organizzazione Mondiale della Sanità), agenzia delle Nazioni Unite.   

                                                                                                                      

     Nel 1966 quella che lui definiva seriamente  “la mia prima morte”. I militari (che ancora governano la Birmania) espellono tutti i missionari più giovani, entrati nel paese dopo l’indipendenza del 1948. Padre Cesare, quando era rientrato in Italia per laurearsi, aveva poi richiesto il permesso di soggiorno e quindi risultava entrato in Birmania nel 1957. Il 1° gennaio 1967 giunge in Italia e per anni continua il calvario dei molti tentativi di poter ritornare nella sua missione e tra i suoi lebbrosi. Interessa anche l’ONU e l’Organizzazione mondiale della sanità, ma è costretto a rimanere in Italia, dove continua la sua opera a favore dei suoi lebbrosi.  

 

    Ho visitato due volte quel villaggio di ammalati “che nessuno voleva” (con 1500 degenti). Era davvero diventato “la città della gioia”, come dice il titolo del documentario cinematografico del regista americano William Deneen realizzato alla fine degli anni cinquanta. All’inizio degli anni cinquanta padre Cesare inizia, con molto coraggio e contro il parere di diversi esperti, a rinnovare il sistema di vita nel lebbrosario. Partendo dalla convinzione che il lebbroso è un ammalato come gli altri e il terrore della lebbra in gran parte assurdo e superstizioso realizza gradualmente queste innovazioni rivoluzionarie:

    1) Non più lebbrosario chiuso con filo spinato, ma aperto con libertà per tutti di entrare ed uscire nel villaggio.

    2) Non più i lebbrosi curati lontano dalle famiglie, ma tutta la famiglia del lebbroso ospitata nel lebbrosario, compresi i bambini che vanno a scuola; si forma così non un lazzaretto o un carcere, ma un normale villaggio.

    3) Non più il ricovero di tutti i colpiti dalla lebbra, ma solo di quelli incurabili nei loro villaggi. Quando padre Colombo parte nel 1966 per l’Italia, ospitava nel lebbrosario circa 1.500 lebbrosi, ma ne curava, lui con le suore e i suoi aiutanti para-medici, altri 4-5.000 nei loro villaggi.

    4) Non più il lebbroso passivo, in attesa solo di cibo e medicine, ma la cura attraverso il lavoro. Nel lebbrosario di Kengtung (dove sono andato due volte, 1983 e 2002) tutti lavorano nei campi, nell’artigianato e in altri mestieri utili al villaggio stesso; non solo, ma sono corresponsabili nella gestione del villaggio, con l’elezione del capo-villaggio e di altri membri del consiglio e dei vari servizi.

    5) Infine, ultima rivoluzione, la più grande di tutte: non più il lebbroso costretto a lasciare la moglie (o il marito) o a non sposarsi, ma il matrimonio anche per loro, anche per le ragazze lebbrose, dato che i figli dei lebbrosi non nascono lebbrosi e non lo diventano se non si prendono alcune precauzioni. Padre Colombo era severissimo sulle norme igieniche e ripeteva spesso che nel suo lebbrosario nessuno dei bambini figli di lebbrosi era diventato lebbroso!

 

    Oggi queste norme sono adottate ufficialmente dall’OMS (Organizzazione mondiale della sanità) dell’Onu, ma il padre Cesare Colombo è stato il primo a “inventarle” e applicarle a Kengtung, con risultati che lasciavano stupiti gli esperti in visita alla “città felice” sui monti birmani! Quando Cesare era ormai in Italia e senza più speranza di poter tornare in Birmania, oltre a impegnarsi al massimo per mandare aiuti ai suoi poveri, era a volte intervistato e invitato a parlare a congressi medici e di leprologia sulla sua “rivoluzione dell’amore” a Kengtung. La sua avventura di missionario meritava una biografia e infatti un’autrice americana la scrisse col bel titolo “The Touch of his Hand” (Il tocco della sua mano) ([1]); ma padre Cesare non volle fosse tradotta in italiano, “perché diceva, mi rende un eroe, mentre sono solo un missionario come gli altri”.

                                                                               Piero Gheddo


[1] ) Pitrone Jean Maddern, “The Touch of his Hand”, Alba House, Staten Island, 1970; Agostoni M., Il  tocco della sua mano, EMI, 1985; Mondini L., La città felice, EMI 1989.

Perchè i cristiani sono i più perseguitati?

  

 

     Il settimanale “Oggi” mi ha chiesto di rispondere (in 1500 spazi e battute) a questa domanda: “Perché i cristiani i ‘più i perseguitati?”. Ecco la mia risposta pubblicata da Oggi del 24 marzo 2010 (N. 12):

    

     Al di fuori del mondo cristiano, i credenti più perseguitati sono i cristiani. Perché? Gesù è all’origine dell’unica rivoluzione che cambia il cuore dell’uomo e la stessa società. Questo dà  fastidio. Tre esempi. In India le Chiese cristiane lavorano fra i paria (oggi 160 milioni) e i tribali (80 milioni). Col Vangelo e le scuole hanno creato una coscienza nuova nei servi e schiavi delle caste più alte e dei proprietari terrieri. Il governo indiano ha fatto molto per elevarli, ma le missioni cristiane hanno dato la coscienza della dignità di ogni uomo e dell’uguaglianza di tutti gli uomini, causando la rivoluzione sociale che sta cambiando l’India rurale.

     In Nigeria i 140 milioni di cittadini sono per metà musulmani (il nord) e per metà cristiani o animisti (il sud). Anche qui il Vangelo e le scuole hanno elevato le popolazioni che un secolo fa erano schiavizzate dagli islamici. Per cui oggi il sud è molto più evoluto del nord, dove spesso le bambine non vanno a scuola e il mondo moderno fa fatica ad affermarsi.

     In Cina il Partito comunista sta tentando di sviluppare il paese, ma mantenendo la dittatura e lo stato di polizia. I cristiani sono perseguitati perché, pur non facendo alcuna opposizione violenta, sfuggono al controllo totalitario che lo stato vorrebbe imporre, con un pensiero diverso da quello dell’ideologia di stato. Questo rappresenta un pericolo, tant’è vero che la persecuzione si scatena in quelle regioni del continente Cina dove e quando ci sono  proteste o sommosse popolari.

 

                                                                                                         Piero Gheddo

I missionari del Pime e il Risorgimento italiano

     Il 6 marzo scorso “Avvenire” ha pubblicato un’interessante intervista di Andrea Galli ad Angela Pellicciari sul Risorgimento italiano e la Chiesa. La Pellicciari ha studiato a fondo questo tema e afferma che “tutte le fonti dell’800, sia da parte cattolica che massonica, dicono la stessa cosa: che la fine del potere temporale del Papa era l’obiettivo di forze internazionali legate al protestantesimo e alla massoneria per distruggere la Chiesa”. La prof.sa Pellicciari ha comunicato i risultati dei suoi studi in alcuni volumi che vanno segnalati: “Risorgimento da riscrivere” (Ares 1998), “I panni sporchi dei mille” (Liberal 2003), “Risorgimento anticattolico” (Piemme 2004). Insomma, liberali e massoni erano convinti che togliendo al papato il suo potere politico e le sue ricchezze, questo sarebbe crollato anche spiritualmente, perchè proiettavano sulla Chiesa le loro categorie.

     Pio IX (1792-1878) era favorevole, e con lui tutti i cattolici, ad un’Italia unita. Ma quando questo progetto inizia ad essere realizzato dai Savoia e dal loro governo liberal-massonico in modo violentemente anti-cattolico (un solo esempio su tanti altri: sopprimendo nel 1855 i gesuiti e tutti gli ordini religiosi e requisendo le loro proprietà), il Papa e i cattolici che lo seguivano si dimostrano contrari. Il timore era che la sede di Pietro sarebbe finita sotto il potere di uno stato dichiaratamente anti-cattolico, nelle opere anche se non nello Statuto Albertino del 1848, che dichiarava il cattolicesimo religione di stato e rimane alla base dell’Italia unita!

     Perché segnalo questo tema? Perché merita di essere conosciuto e studiato, non per creare divisioni fra credenti e non credenti, ma per essere informati sul come mai il beato Pio IX, dopo aver favorito l’unità d’Italia nel 1948, assunse poi una ferma posizione contro i primi governi dell’Italia unita e capire il perché delle molte opposizioni ad una sua beatificazione, avvenuta il 3 settembre 2000 da parte di Giovanni Paolo II.

 

    Ma il giudizio sul Risorgimento italiano interessa anche chi, come il sottoscritto, ha studiato la storia del Pime, pubblicando un “volumone” per i nostri 150 anni: vedi P. Gheddo, “PIME 1850-2000 – 150 anni di missione” (EMI 2000, pagg. 1228, Euro 25,00). Il Pime è stato fondato da mons. Angelo Ramazzotti, approvato e fatto proprio dai vescovi lombardi nel 1850, come “Seminario lombardo per le missioni estere”. In quei tempi i missionari dell’Istituto erano conosciuti come “papalini”, perché le due personalità rappresentative del nascente Pime (nel 1926 acquista questo nome), mons. Angelo Ramazzotti, vescovo di Pavia e poi patriarca di Venezia, e mons. Giuseppe Marinoni primo direttore del Pime difendevano Pio IX e il suo potere temporale, come garanzia di libertà per poter esercitare il suo ministero universale. Marinoni fondò nel  1964 a Milano il quotidiano “L’Osservatore cattolico” (superando «indescrivibili difficoltà»), proprio allo scopo di difendere il Papa e la Chiesa dalle calunnie e dai sistematici attacchi della stampa di quel tempo. E già il 22 settembre 1859 Marinoni si era rifiutato di illuminare San Calocero, contravvenendo all’ordine del governatore di Milano, che aveva disposto l’illuminazione di tutti gli edifici religiosi di Milano per onorare la deputazione della Romagna venuta ad offrire a Vittorio Emanuele II il potere politico della regione, già appartenente al governo pontificio. Fu l’unica disobbedienza nella capitale lombarda!

     I missionari di San Calocero (così chiamati dalla loro chiesa a Milano) erano presi di mira dai giornali anti-cattolici, particolarmente attivi. Ecco le gentili parole che «Il Pungolo» dedica alla partenza dei missionari nel gennaio 1865:

     «I giornali clericali annunziano che mercoledì venturo partiranno da Milano tre missionari con due suore di carità per le Indie orientali. Furbi quei missionari! Hanno trovato che, in certi paesi barbari, le suore possono servire assai bene. Buon viaggio a loro! Così tutti i frati e le monache che poltriscono nei nostri conventi, si decidessero a partire per le Indie! Ci farebbero un gran servizio!».

    Nel 1867, ancora «Il Pungolo», preoccupato per la voce di una prossima nomina di Marinoni a vescovo di Como, scrive che «il famoso Marinoni… si può dire il comandante generale del biscottismo milanese»… Nel milanese i cattolici papalini erano chiamati “biscotti”, cioè cotti due volte. E’ appassionante conoscere la storia del nostro grande e bel paese, non per dividerci (siamo tutti italiani!), ma solo per capire bene come siamo nati. Conoscendo la storia si capisce anche l’attualità.  

                                                                                   Piero Gheddo

 

 

Che immagine mi sono fatto di Dio?

 

                                                     

                                          

     La parabola del figliuol prodigo è una delle più belle e commoventi che si leggono nel Vangelo IV domenica di Quaresiima – Anno C). Gesù parlava in parabole, cioè raccontava fatti di vita quotidiana che erano comprensibili ai suoi ascoltatori. Non faceva teorie o teologie, raccontava fatti, presentava persone che incarnavano e rappresentavano ai suoi seguaci la verità che il Signore voleva annunziare.

     Il dramma familiare di un padre il cui figlio prende una via sbagliata è comune anche ai nostri tempi. Quante volte sentiamo dire da genitori credenti: “Abbiamo educato bene il nostro figlio, ma poi è andato fuori strada e ci fa soffrire”. Il padre della parabola è esemplare: anche i genitori d’oggi dovrebbero essere come lui in situazioni simili: amare ancor più il figlio ribelle, dargli il buon esempio di un amore gratuito, pregare per lui, attendere con fiducia e pazienza il suo ritorno.

 

     Ma Gesù voleva soprattutto rivelarci il volto del Padre che sta nei cieli. Il Creatore di tutti gli uomini è un Padre pieno di bontà e di misericordia, che ci vuol bene sempre, anche quando noi non comprendiamo il suo amore. In questa parabola vediamo uno sceneggiato simbolico del mondo “post-cristiano” in cui viviamo. I popoli cristiani sono il figliuol prodigo lontano dal Padre e si ritrovano meno uomini, sono diventati “guardiani dei porci”, mangiano le ghiande dei porci. Gli uomini secolarizzati del nostro tempo si rendono conto che lontano da Dio non c’è vero umanesimo, la vita non ha senso. Non parlo di casi personali, mi riferisco alla cultura che tutti respiriamo: molti hanno perso il senso della vita, non sanno perché vivono. C’è in giro molto pessimismo, disperazione, aumentano i suicidi, tanti non vorrebbero più vivere perchè la vita lontano dal Padre non ha senso. Due riflessioni:

                                                                                                      

     1) La prima domanda che mi faccio oggi è questa: che immagine io mi sono formato di Dio? Vivo la presenza di Dio in ogni momento della mia vita?

     La nostra vita spirituale dipende in buona parte da come pensiamo e sentiamo Dio presente nella nostra vita. Tutti i popoli credono in Dio Creatore e Giudica, lo adorano, lo pregano: non esistono popoli atei! Ma quelli che non hanno ricevuto la rivelazione di Cristo non sanno chi è Dio, come agisce, cosa pensa, cosa vuole da noi; lo immaginano come un personaggio misterioso, lontano dall’uomo e dalle vicende umane, che punisce i crimini degli uomini. Pensano che la vita è sotto il dominio di spiriti buoni e cattivi, che vanno propiziati con atti di magia, sortilegi, superstizioni.

 

     Care sorelle e cari fratelli, nel mondo attuale rischiamo anche noi credenti di finire nel gorgo di una visione pagana di Dio. Ebbene, oggi Gesù ci presenta il Padre nostro che sta nei Cieli, quello che preghiamo ogni giorno: è un Padre, una mamma che amano il figlio, lo guidano, lo perdonano, lo proteggono.

     Nel 1974 ero nel Vietnam del sud durante la guerra. Scendevo dai monti verso la pianura, da Pleiku a Qui Nhon, su un camion militare, assieme a numerosi vietnamiti. Una giornata intera di viaggio, su strade dissestate, in un paese in guerra: abbiamo attraversato zone dove si combatteva, villaggi bruciati e bombardati, mitragliamenti, profughi che scappavano a piedi e con ogni mezzo. Tutto questo è un’immagine del mondo in cui viviamo anche oggi!

    Io e gli altri profughi eravamo seduti su delle panche nel cassone scoperto del camion. Di fronte a me una giovane mamma vietnamita teneva in braccio il suo bambino che aveva pochi mesi. Lo cullava, lo allattava, lo coccolava. Ad un certo punto, passando vicino ad un villaggio in fiamme dove molti gridavano il bambino, sentendo quel trambusto, si è messo a piangere, avvertiva anche lui il pericolo. La mamma ha steso su di lui un asciugamano ed ha continuato a cullarlo. Dopo un po’ il bambino dormiva placidamente. Attorno a noi crollava il mondo e lui dormiva: non sapeva niente, non aveva paura di nulla, si fidava dell’amore di sua madre.

     Ecco, quando penso a Dio mi vengono in mente quella dolce mammina vietnamita e il suo bambino. Se noi viviamo questa immagine di Dio e nella nostra piccola vita, non possiamo più essere pessimisti, scontenti, scoraggiati, timorosi di chissà cosa. Qualunque cosa mi capiti, io sono sempre nelle braccia del Padre!

 

     2) Noi cristiani, e specialmente noi preti e suore, rappresentiamo Dio e Cristo agli occhi degli uomini. Chi è riconosciuto come cristiano deve sentire la responsabilità di essere, agli occhi di chi ci conosce e osserva, un testimone a tempo pieno. Non per assumere volutamente atteggiamenti significativi e dire parole opportune. Oggi conta soprattutto essere autentici, non falsi. Anzi, i devoti manierati danno fastidio, sono una contro-testimonianza.

     Il nostro tempo ci invita ad un esame di coscienza: se io sono duro, scontroso, egoista, avaro, freddo, chiuso ai problemi degli altri, non sono come il Padre della parabola di Gesù: non do una bella immagine della fede e della vita cristiana.

      

     Molti anni fa, nel 1966, sono andato la prima volta in Amazzonia e nella capitale dell’Amazzonia brasiliana, Manaus, ho visitato il lebbrosario di Aleixo.  Mi accompagnava il mio confratello padre Mario Giudici, che era stato cappellano del lebbrosario e tornava dall’ Italia dopo un’assenza di quattro anni. Era un uomo di grande umanità, dopo un po’ che stavi con lui pensavi: “Chissà com’è buono Dio, se ha fatto un uomo così buono come padre Mario!”. I lebbrosi gli si avvicinavano e volevano salutarlo, abbracciarlo, parlargli. Io me ne stavo un po’ defilato ed entrando in un reparto di donne, vedo un’ammalata cieca con due moncherini al posto delle mani. Appena sente da lontano la voce di padre Mario, la riconosce, si mette a gridare un saluto e le viene istintivo di battere i moncherini perchè non aveva più le mani.    

      Piangeva e si è calmata solo quando sono andato a prendere Mario e l’ho portato da lei. Mi sono commosso anch’io nel vedere che per quella povera lebbrosa quel prete era forse l’unico che rappresentava in concreto la bontà di Dio. Tutti l’avevano abbandonata, i parenti non venivano a trovarla, ma quel prete era ancora lì a darle un abbraccio e la benedizione di Dio. Mi sono chiesto più volte: chissà se io prete, a tutti quelli che mi conoscono da vicino, do questa immagine forte e amorosa di Dio, che è un Padre pieno di amore e non ci abbandona mai?

                                                                                  Piero Gheddo

La vita cristiana un cammino continuo alla conversione

 

          

 

    Il Vangelo della terza domenica di Quaresima (Luca 13, 1-9) potrebbe essere stato scritto anche ai nostri giorni. Gesù sapeva che tutti parlavano di due tragici fatti appena successi: il governatore romano della Giudea, Ponzio Pilato, aveva compiuto un massacro di ebrei nel tempio, mentre i sacerdoti offrivano a Dio i loro sacrifici; e 18 persone erano morte per il crollo della torre di Siloe a Gerusalemme. Notizie quotidiane anche ai nostri tempi.

     Come spiegare quelle morti violente? Molti pensavano che quei morti avevano sbagliato, erano colpevoli di qualche delitto o peccato grave e pagavano le loro colpe: Dio li aveva puniti, la sua ira si era scatenata contro di loro. Il buon ebreo che pensava così era anche convinto di essere innocente, quindi non poteva succedergli niente di simile: viveva quelle tragedie come spettatore esterno, incuriosito, scandalizzato, ma non provocato nella sua vita. Ma Gesù dice che quei morti non erano più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme. E conclude dicendo: “Se non vi convertirete, perirete tutti allo stesso modo”. Parole forti rivolte agli ebrei del suo tempo, ma anche a noi cristiani del nostro tempo.

 

    Cari fratelli e care sorelle, giornali e televisioni portano ogni giorno nelle nostre case i morti per il terremoto all’Aquila o in Cile, i morti di guerre e terrorismi, gli arresti e processi per fatti di corruzione amministrativa o politica, per rapine o altre gravi trasgressioni delle leggi. Noi siamo spettatori scandalizzati, non ci viene in mente che altre disgrazie simili o diverse, ma egualmente rovinose per la nostra vita, possano capitare anche a noi. Ma Gesù dice anche a noi in questa Quaresima: “Se non vi convertirete, perirete tutti allo stesso modo”.

 

     Ci pare impossibile che a noi, persone normali e bravi cristiani (e bravi preti) che viviamo una vita del tutto onesta e pacifica,  Gesù venga a chiederci di convertirci. Eppure  oggi Gesù lancia anche a noi tre messaggi:

 

    1) Dobbiamo imparare a leggere l’attualità non con la sola logica umana, ma con gli occhi della fede. La fede mi dice che nulla succede senza un significato anche per la mia vita. Dio mi manda continuamente messaggi di amore e di misericordia, ma anche di conversione. Sono i cosiddetti “segni dei tempi” che nel Vangelo di oggi il Signore mi invita a leggere con fede. In altre parole, tutto quello di positivo che succede nel mondo e attorno a me è un invito all’imitazione, tutto il negativo mi dimostra concretamente gli effetti del peccato ed è una provocazione anche per me, di quanto male il peccato porta a chi lo commette e all’intera società; le disgrazie naturali (terremoti) o i malanni fisici (ad esempio cancro), ci indicano la situazione precaria dell’uomo su questa terra. La scena di questo mondo passa in fretta, dobbiamo sempre essere preparati a lasciarlo!

     2) Nessuno può presumere di essere giusto. I santi avevano coscienza della loro debolezza, chiedevano spesso a Dio la grazia della conversione. A volte sembravano esagerati nelle loro espressioni: “Sono l’ultimo dei peccatori!” diceva spesso il Curato d’Ars. In realtà, ma non lo erano perché più l’uomo si avvicina a Dio e più gli appare la propria miseria e piccolezza. Più uno è lontano da Dio e più pensa di essere giusto e di non aver bisogno di conversione. E’ questo un esame di coscienza, per noi che presumiamo di essere giusti agli occhi di Dio e pensiamo di esserci già convertiti a Cristo o che comunque la conversione non è per noi un problema urgente, immediato, non esiste nelle nostre preoccupazioni quotidiane.

 

     Voi ricordate il beato Papa Giovanni XXIII, “il Papa buono” che suscitò nel mondo intero, anche fra i popoli non cristiani, sentimenti di ammirazione e di amore per il cristianesimo che lui rappresentava col suo sorriso e la sua umanità. Ebbene, Papa Giovanni negli ultimi giorni della sua vita (morì il 3 giugno 1963), scriveva nel suo “Diario dell’anima”: “Debbo prendere sul serio la necessità della mia conversione”. Pensate, aveva 82 anni e sarebbe morto pochi giorni dopo! In tutta la sua vita si era impegnato a lavorare solo per Dio e per la Chiesa. Ma prima di morire capiva che avrebbe avuto ancora un lungo cammino di conversione da fare! Ecco un santo che è vissuto nella perenne tensione verso la santità.

     Un grande missionario che ho conosciuto bene, padre Giovanni Battista Tragella, nel 1968 aveva 84 anni ed era a letto. Morì una settimana dopo avermi incontrato. Mi diceva: “Vedi, sento che sto morendo e mi chiedo perché il Signore ci fa vivere così poco!”. Io avevo 38 anni e non capivo, gli dicevo che aveva vissuto e lavorato tanto ed era stato di esempio a molti, ma lui rispondeva: “Tu sei giovane e non capisci. Adesso che si avvicina la morte capisco meglio di prima quale immenso dono da spendere è la vita. Se avessi ancora tempo per vivere, potrei fare molto meglio, per imitare il modello del Signore Gesù”.

 

     3) La vita cristiana, e specialmente di noi preti e persone consacrate, deve essere una tensione continua verso l’imitazione di Cristo, verso l’unione con Dio e la santità.

 

     Nel nostro mondo globalizzato e secolarizzato, in cui non esiste più una “civiltà cristiana” e un “cristianesimo di massa”, la fede e la vita cristiana diventano sempre più una scelta personale e cosciente. La “nuova evangelizzazione” di questa umanità nuova e diversa avviene principalmente attraverso la testimonianza che noi credenti in Cristo riusciamo a dare con la nostra vita quotidiana. “L’uomo contemporaneo – scriveva Paolo VI nella ”Evangelii Nuntiandi” (1975, n. 41) –ascolta più volentieri i testimoni che i maestri e se ascolta i maestri, lo fa perché sono testimoni”. Lapidario il grande Paolo VI!

     La vita cristiana è bella ed esaltante, ringiovanisce perchè ogni giorno ricomincia da capo con un cammino nuovo verso nuove mete da raggiungere sulla via della santità. Dobbiamo chiedere a Dio la grazia della conversione, non solo, ma di poter vivere in una continua e consolante tensione verso il Signore Gesù.

 

                                                                   Piero Gheddo

Il mondo moderno nato da Cristo e dalla Chiesa

      

 

    La globalizzazione dell’umanità ha portato alla ribalta un interrogativo importante, a cui ancora non si dà una risposta accettata dalla cultura corrente: come mai il “mondo moderno” è nato in Occidente e si sta diffondendo in tutto il mondo, perché accettato da tutti i popoli e preferito ai loro modi tradizionali di vita? Oppure, in altre parole: perché dalla caduta dell’Impero romano l’Occidente ha conosciuto un’evoluzione che l’ha portato per primo a quelle caratteristiche del “mondo moderno”, nelle quali tutti i popoli vorrebbero vivere? Caratteristiche sintetizzabili in pochi concetti: libertà, democrazia, progresso scientifico-tecnico ed economico-sociale, diritti dell’uomo e della donna, stabilità e sicurezza nei singoli paesi, istruzione e assistenza sanitaria per tutti, giustizia basata sulle leggi e non sull’arbitrio dei più forti, giustizia sociale fra ricchi e poveri, pace fra i popoli e le nazioni.

     Ecco il volume che dà una risposta articolata e documentata:

 

    Rodney Stark, “La vittoria della ragione – Come il cristianesimo ha prodotto libertà, progresso e ricchezza”, Lindau Torino 2008, pagg. 377, Euro 24,00.

 

    Il sociologo americano delle religioni Rodney Stark ha esaminato le molte risposte che si danno all’interrogativo: la posizione geografica e il clima dell’Europa, la scoperta di altre terre e continenti, la colonizzazione, l’evoluzione storica e culturale favorevole al progresso, il pensiero greco-romano e tante altre. E giudica che non spiegano perché l’Occidente ha progredito e le altre parti del mondo sono rimaste per millenni bloccate nello sviluppo. Basti pensare alle grandi civiltà di Cina, India, Giappone, Vietnam, Corea, Paesi arabi e islamici, Americhe pre-colombiane, dove non c’è stato nemmeno l’inizio di quei processi storici che hanno portato l’Occidente alla supremazia.

     Rodney afferma con chiarezza: “E’ stato il cristianesimo a creare la civiltà occidentale. Il mondo moderno è arrivato solamente nelle società cristiane. Non nel mondo islamico, non in Asia. Non in un società “laica”, perchè non ne sono esistite. Tutti i processi di modernizzazione finora introdotti al di fuori del cristianesimo sono stati importanti dall’Occidente, spesso attraverso colonizzatori e missionari” (pag. 343).

     Questo fatto storico che non si può smentire, viene documentato in  un modo non religioso, ma laico. Sono stati  il Vangelo, il pensiero dei Padri della Chiesa e la teologia cristiana la vera origine del progresso dell’Occidente e del mondo intero. Mentre le grandi religioni hanno posto l’accento sul mistero, sulla meditazione, sull’astrologia e la fuga dalla realtà, il cristianesimo è nato dalla Rivelazione di Dio e attraverso la Bibbia e Cristo ha affermato il valore assoluto della singola persona umana “creata ad immagine di Dio”, abbracciando la logica e il pensiero deduttivo e aprendo la strada alle scienze e al progresso moderno.

 

     Un secondo volume recente sembra quasi la continuazione del precedente:

 

     Thomas E Woods, “Come la Chiesa cattolica ha costruito la civiltà occidentale”, Cantagalli, Siena 2007, pagg. 270, Euro 18, 50.

 

     Thomas E. Woods, anch’egli docente universitario americano, risponde allo stesso interrogativo che si pone l’autore precedente: come mai il “mondo moderno” è nato in Occidente e si sta diffondendo in tutto il mondo, perché viene accettato da tutti i popoli e preferito ai loro modi tradizionali di vita? Dimostra, in modo molto  concreto, diciamo storico, come le varie “novità” che hanno fatto grande l’Occidente, sono dovute non solo alla Parola di Dio ed a Gesù Cristo, ma alla Chiesa cattolica che nel corso dei secoli ha sostenuto quei principi e modelli evangelici, a volte pur nelle infedeltà di Papi, vescovi, sacerdoti e credenti in Cristo. La Chiesa è un’istituzione ispirata da Dio, ma fatta da uomini. Il volume percorre in vari capitoli la storia dell’Occidente, dalla caduta dell’Impero romano alle invasioni dei popoli “barbari” fino ai nostri tempi.

     Dopo l’Impero romano, in secoli di sbandamento dei popoli occidentali, i monaci salvarono la civiltà (capitolo I), poi la Chiesa fonda le Università, la vita accademica e la filosofia scolastica (capitolo II), poi ancora le scienze moderne e l’arte moderna, il diritto internazionale, l’economia e il capitalismo; le opere di assistenza per i poveri e “come la carità cattolica ha cambiato il mondo”. Gli ultimi capitoli “La Chiesa e il diritto occidentale”, “La Chiesa e la moralità occidentale”,  dimostrano, ripeto, con fatti storici concreti, come la Chiesa cattolica è all’origine, ad esempio, della separazione tra Chiesa e Stato (non così le Chiese ortodosse e protestanti), dell’abolizione della schiavitù, della condanna dei “duelli d’onore”, della promozione dei “diritti dell’uomo” e via dicendo.

    Infine, Thomas E. Woods esamina come vive “un mondo senza Dio” com’è oggi l’Occidente che si è staccato dal Vangelo e dal modello di Cristo, a volte ha anche perseguitato o marginalizzato la Chiesa cattolica, presentandola come nemica del progresso. Oggi, addirittura, l’Unione Europea non riconosce  le “Radici cristiane” della nostra civiltà. Una menzogna e assurdità storica.

     Formidabili le ultime pagine del libro, dove l’autore parte dall’affermazione di Nietzsche: “Il rifiuto dell’idea che il mondo sia stato creato da Dio per uno scopo…. rende l’uomo più libero di dare alla vita il significato che vuole darle. La vita così non ha alcun altro significato”. E Woods spiega, col trionfo di questa idea nel mondo secolarizzato e praticamente ateo di oggi, la degenerazione e la disumanità dell’arte, dell’architettura e di molte altre espressioni dell’uomo, fino al nichilismo di Jean-Paul Sartre (l’universo è assolutamente assurdo e la vita stessa completamente priva di significato), che esprime bene la cultura trionfante dell’Occidente moderno, sempre più arido, vecchio e pessimista. Cioè, così com’è, l’Occidente è senza futuro.

       Prima di pensare o dire che tutto questo è “trionfalismo”, bisogna prima leggere il volume e controbattere le prove storiche che vi sono portate. Non con ragionamenti, luoghi comuni e chiacchiere, ma con altre prove storiche che rispondono all’interrogativo posto dai due volumi.

                                                                                   Piero Gheddo

Anche noi siamo trasfigurati in Cristo

 

     Gesù sale sul monte Tabor con Pietro, Giacomo e Giovanni per pregare (Luca 9, 28, 36). Il Vangelo dice che, “mentre pregava, il suo volto cambiò aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante”. Oggi, seconda domenica di Quaresima, è la festa della ”Trasfigurazione” di Gesù davanti a tre discepoli. Nella vita quotidiana, egli era un uomo come gli altri, certo affascinante, faceva miracoli e parlava come nessuno aveva mai parlato; ma insomma, un uomo come gli altri, almeno nell’aspetto esterno. Oggi invece, sale sul monte, si isola dal mondo e dagli altri uomini, e mentre pregava rifulge in lui la luce accecante della sua divinità. I tre discepoli ne sono affascinanti e Pietro dice: “Signore, è bello per noi restare qui con te”. Il Vangelo commenta: “Non sapeva quello che diceva”. Cioè era talmente eccitato e pieno di gioia, che avrebbe voluto restare sul monte e non tornare più alla pianura nella vita quotidiana.

 

    Che senso ha per noi questo brano del Vangelo? Molti significati. Gesù voleva dimostrare la sua divinità, voleva preparare gli Apostoli alla sua Passione e morte, ma indicava una realtà diversa da quella di tutti i giorni che essi conoscevano. Fermiamoci a riflettere su quest’ultimo significato della Trasfigurazione. Gesù era uomo ed era Dio, viveva una vita umana come tutti noi, ma era anche e sempre unito al Padre e alla realtà soprannaturale della sua natura divina.

     Ecco, cari fratelli e sorelle, anche la nostra vita è così. Noi viviamo in questo mondo in mezzo alle realtà terrene, fra gioie e dolori, successi e insuccessi, giorni lieti e giorni tristi, esaltazioni e depressioni. Ma poi abbiamo anche una vita soprannaturale, perché Dio ci ha creati “a sua immagine e somiglianza”. Noi non siamo come gli animali che hanno solo una vita materiale e istintiva, siamo anche uomini spirituali e Dio, lo sappiamo, è purissimo spirito, in lui non c’è nulla di materiale. La nostra vita spirituale è partecipazione alla vita divina attraverso il Battesimo, l’Eucarestia, la preghiera, i Sacramenti, l’osservanza della Legge di Dio.

 

    Insomma, la mia vita di uomo si svolge su due piani, come quella di Gesù: la vita materiale di tutti i giorni e la vita spirituale e soprannaturale, che ci trasfigura in Dio, ci fa contemplare Dio e vivere la vita di Dio, che è poi la vera vita, quella che tutti vivremo dopo la nostra morte, nei “verdi pascoli” del Paradiso.

    Ecco, Gesù ha voluto dare ai suoi Apostoli un’immagine concreta della vita divina, non solo quella di Dio, ma anche la nostra se viviamo in Dio. Anche noi possiamo trasfigurarci in Dio, cioè vivere una vita serena, felice, realizzata, cioè realizzare il Regno di Dio non su questa terra, ma almeno in noi, se viviamo non solo la nostra vita materiale, tutti volti ai beni di questa terra, ma la vita spirituale in Cristo.

 

     Ricordo che quando Giovanni Paolo II visitò la città e diocesi di Genova nel 1985, diede ai fedeli, e soprattutto ai giovani ai quali parlava, un’esortazione meravigliosa che mi è rimasta impressa nel cuore: “Vi invito – diceva – a fare della vostra vita un vero capolavoro”. Bello ed esaltante questo progetto di vita!

     Eppure care sorelle e cari fratelli, quante persone sono scoraggiate, depresse; quanti pensano e dicono: “Io non sono nulla, non valgo nulla, la mia vita non ha più nessun significato…”. Ho fatto centinaia di voli aerei. Si parte fra nubi e pioggia, un’atmosfera plumbea che invita alla tristezza, al pessimismo. Poi, quando l’aereo si alza sopra gli 8-9.000 metri, ecco il sole sfolgorante, ecco la trasfigurazione dell’atmosfera in cui viviamo. Siamo passati, seppur in piccola misura, dalla terra al cielo, all’atmosfera quotidiana in cui viviamo piena di pessimismo, all’atmosfera divina piena di luce e di gioia, in cui dovremmo vivere ogni giorno della vita.

 

     Forse qualcuno pensa: questo è impossibile nella mia piccola vita. Vi racconto un esempio che ho studiato bene. Dieci anni fa ho scritto la biografia di un grande missionario del Pime, il beato padre Paolo Manna (1882-1952), che veniva da una buona famiglia di Avellino. Come sacerdote nel Pime, è partito per la Birmania nel 1895 ed è tornato tre volte in Italia perché ammalato di tubercolosi e in quel clima caldo umido e con scarse possibilità di nutrimento e di medicine, rischiava di morire a 28-30 anni. A 34 anni si ritrova in Italia ammalato e umiliato, senza più possibilità di andare in missione. Scriveva al superiore: “Sono un missionario fallito e inutile a tutti, vedo molto fosco il mio futuro”. La tubercolosi oggi in Italia non esiste quasi più, ma nel Novecento era una malattia grave che portava alla morte.

 

     Padre Manna poteva intristirsi, chiudersi in se stesso e diventare un peso per sé e per gli altri. Invece era un prete molto devoto, pregava molto. Va in pellegrinaggio a Lourdes e chiede alla Madonna non la grazia della guarigione, ma di fare la volontà di Dio e di essere ancora utile alla Chiesa e alle missioni. Infatti, tornato a Milano, il superiore gli propone di andare nella redazione della stampa del Pime come aiutante e in poco tempo dimostra tutta la sua intelligenza e passione missionaria diventando direttore di “Le Missioni Cattoliche” (1908), fonda la Pontificia Unione missionaria del Clero (1917) ed è eletto superiore generale del Pime (1924-1934). Padre Manna è stato il missionario italiano più rappresentativo del Novecento per il suo pensiero e le sue molte iniziative, e beatificato da Giovanni Paolo II il 4 novembre 2001.

 

     Anche la sua vita è stata trasfigurata in Cristo. Da “missionario fallito e inutile a tutti” a beato e, speriamo, santo della Chiesa universale. Nelle testimonianze per il so processo di beatificazione si legge questa frase di un confratello: “Lo si vedeva trasfigurato dall’amore di Dio e del prossimo e dalla passione missionaria di portare Cristo e tutti i popoli”.

     Care sorelle e cari fratelli, tutti noi siamo un “progetto di Dio” da realizzare. Non siamo mai pessimisti sulla nostra vita e sul nostro futuro. Anche noi siamo un progetto di Dio da realizzare, se facciamo la volontà di Dio e seguendo le ispirazioni dello Spirito Santo. Fin che il Signore ci dà vita, siamo sempre in cammino per essere trasfigurati in Cristo. E’ la grazia che chiediamo al Signore Gesù.

                                                                                              Piero Gheddo