Il Monte Athos simbolo della Grecia cristiana

 

 

        Nella drammatica crisi economico-politica-sociale che sta attraversando la Grecia, paese vicino e fratello della nostra Italia, mi viene spesso in mente il Monte Athos, che ho visitato più di quarant’anni fa. E’ la famosa repubblica dei monaci cristiano-bizantini, dove circa 1700 monaci (allora erano tanti, oggi 1500) vivono isolati in una stretta e lunga penisola nel mar Egeo, dov’è difficile entrare. Interdetta alle donne, ma dedicata a Maria, perchè, secondo un’antica tradizione, la Vergine Madre e San Giovanni vi trovarono rifugio in una tempesta del mare circostante.

      Non è facile visitare il Monte Athos, ci vogliono permessi speciali, perché questa repubblica dei monaci, anche se territorialmente appartiene alla Grecia che vi mantiene un governatore (nominato dal Ministro degli Esteri greco), è riconosciuta come una “entità teocratica indipendente”, che dipende direttamente dal Patriarca di Costantinopoli; e la Grecia difende rigorosamente questa indipendenza e i confini del territorio monastico.

 

      Prima di andarci con due sacerdoti spagnoli incontrati ad Atene, pensavo ad un  monastero più o meno come i nostri. Invece no, è una vera “repubblica teocratica”. Un vasto territorio lungo la piccola penisola (45 km e il confine con la Grecia all’inizio), con boschi, campi coltivati, strade, montagne, mercato, villaggi dove abitano monaci ma anche laici che servono i monaci, con la famiglia e le donne a pochi chilometri in Grecia. La penisola ai confini con la Grecia è montuosa e boscosa, piena di dirupi. Più avanti degrada verso il mare ed è quasi deserto.

 

     Al centro la “Meghisti Làvra” (la grande làvra), il monastero fondato da Sant’Anastasio nel 963. “Làvra” significa “cammino stretto” e include le celle monastiche, la chiesa, il forno, i magazzini, la foresteria e altri servizi. I monasteri cenobitici (il cenobio è dove i monaci vivono una vita comunitaria) sono venti, Poi ci sono anche i monaci che vivono individualmente e provvedono col lavoro alle personali necessità, partecipano alla liturgia del monastero da cui dipendono e mangiano con i monaci nelle grandi feste liturgiche. Ci sono monaci che vivono in grotte isolate, altri su cocuzzoli di montagne di difficile accesso e ogni tanto vengono riforniti di cibo dal basso con una cesta.

 

     Alla repubblica monastica si accede solo per mare e, a parte il viaggio in pullman che conduce dal porticciolo alla grande Làvra e per qualche trasferimento più lungo, per visitare il territorio si fanno ore a piedi, fra boschi, colline e monti, sempre in un paesaggio incantevole, col mare azzurro cupo che a volte si vede dalle due parti della stretta penisola. I permessi di residenza sono di 3-4 giorni, ma estensibili, e si è ospiti nella foresteria di un monastero. La grande Làvra, sospesa fra cielo, terra e mare, è il luogo principale di questo “monte santo” consacrato a Maria e alla contemplazione di Dio e della natura. Ricordo di aver vissuto tre giorni in un’atmosfera satura di preghiere, canti, fatiche e rinunzie, ma con l’animo allegro perché ti trovi a contatto con la natura e soprattutto con Dio. Tutto traspira Dio, tutto parla di Dio, che si rivela riempiendo il cuore di gioia. Se si visita il Monte Athos, bisogna andarci con l’animo aperto alla contemplazione, altrimenti non si resiste.

 

    I monaci vengono da varie parti del mondo ortodosso, dalla Russia e persino dai greci nelle Americhe, e nella loro vita percorrono la “Scala del Paradiso”, descritta da San Giovanni Climaco (sec. VII), che è il loro modello: combattere le proprie passioni e raggiungere l’”apathìa”, l’indifferenza spirituale, per entrare nella “vita evangelica”. Nel refettorio della grande Làvra, a destra sono affrescati gli angeli che aiutano e confortano i monaci che salgono la difficile scala verso Cristo; a sinistra i demoni tentatori che divorano i monaci che precipitano dalla scala perché incapaci di vincere le tentazioni.   

     Ripensando a quella breve esperienza e ai brevi dialoghi (si parlava francese) con un giovane monaco che ci accompagnava nelle visite (tra i monaci ci sono laureati, medici, ingegneri), mi è sembrato di capire la differenza tra l’Occidente e l’Oriente cristiano (una delle tante). Noi privilegiamo, nella formazione dei preti e anche nella predicazione, lo studio speculativo e teoretico della teologia, pensando forse che conoscere in modo approfondito equivale a vivere; là nell’Athos non fanno tanti ragionamenti e distinzioni, tutto è volto alla ricerca di Dio, al percorrere un cammino spirituale che ti conduce a Dio. Noi vogliamo conoscere Dio, loro tendono ad incontrarlo per lasciarsi trasfigurare da Lui.

 

     Il Monte Athos, come tutti i conventi di clausura, è un luogo simbolico del cristianesimo, che è radicato sulla terra ma tende al cielo. E’ una scala verso il Paradiso, la Gerusalemme del cielo trasformatasi in monastero, anticipazione dei “cieli nuovi e terra nuova” del Regno di Dio. Simboleggia anche, per noi Chiesa latino-occidentale, la ricchezza liturgica e spirituale dell’Oriente cristiano. E ci invita a pregare per l’unità delle Chiese cristiane, poichè solo così Cristo potrà essere testimoniato e annunziato in modo credibile a tutti i popoli e le culture del mondo.

    “Quale Cristo annunziamo ai non cristiani?” si chiedeva il beato padre Paolo Manna, uno dei massimi profeti dell’ecumenismo cattolico nel Novecento. E aggiungeva: “I non cristiani ci dicono: vi ascolteremo quando vi sarete messi d’accordo”. Era uno dei rovelli della sua anima di missionario e dovrebbe essere anche il nostro.                                  

                                                                       Piero Gheddo                                                                                                                        

Il Monte Athos simbolo della Grecia cristiana

 

  

        Nella drammatica crisi economico-politica-sociale che sta attraversando la Grecia, paese vicino e fratello della nostra Italia, mi viene spesso in mente il Monte Athos, che ho visitato più di quarant’anni fa. E’ la famosa repubblica dei monaci cristiano-bizantini, dove circa 1700 monaci (allora erano tanti, oggi 1500) vivono isolati in una stretta e lunga penisola nel mar Egeo, dov’è difficile entrare. Interdetta alle donne, ma dedicata a Maria, perchè, secondo un’antica tradizione, la Vergine Madre e San Giovanni vi trovarono rifugio in una tempesta del mare circostante.

      Non è facile visitare il Monte Athos, ci vogliono permessi speciali, perché questa repubblica dei monaci, anche se territorialmente appartiene alla Grecia che vi mantiene un governatore (nominato dal Ministro degli Esteri greco), è riconosciuta come una “entità teocratica indipendente”, che dipende direttamente dal Patriarca di Costantinopoli; e la Grecia difende rigorosamente questa indipendenza e i confini del territorio monastico.

 

      Prima di andarci con due sacerdoti spagnoli incontrati ad Atene, pensavo ad un  monastero più o meno come i nostri. Invece no, è una vera “repubblica teocratica”. Un vasto territorio lungo la piccola penisola (45 km e il confine con la Grecia all’inizio), con boschi, campi coltivati, strade, montagne, mercato, villaggi dove abitano monaci ma anche laici che servono i monaci, con la famiglia e le donne a pochi chilometri in Grecia. La penisola ai confini con la Grecia è montuosa e boscosa, piena di dirupi. Più avanti degrada verso il mare ed è quasi deserto.

 

     Al centro la “Meghisti Làvra” (la grande làvra), il monastero fondato da Sant’Anastasio nel 963. “Làvra” significa “cammino stretto” e include le celle monastiche, la chiesa, il forno, i magazzini, la foresteria e altri servizi. I monasteri cenobitici (il cenobio è dove i monaci vivono una vita comunitaria) sono venti, Poi ci sono anche i monaci che vivono individualmente e provvedono col lavoro alle personali necessità, partecipano alla liturgia del monastero da cui dipendono e mangiano con i monaci nelle grandi feste liturgiche. Ci sono monaci che vivono in grotte isolate, altri su cocuzzoli di montagne di difficile accesso e ogni tanto vengono riforniti di cibo dal basso con una cesta.

 

     Alla repubblica monastica si accede solo per mare e, a parte il viaggio in pullman che conduce dal porticciolo alla grande Làvra e per qualche trasferimento più lungo, per visitare il territorio si fanno ore a piedi, fra boschi, colline e monti, sempre in un paesaggio incantevole, col mare azzurro cupo che a volte si vede dalle due parti della stretta penisola. I permessi di residenza sono di 3-4 giorni, ma estensibili, e si è ospiti nella foresteria di un monastero. La grande Làvra, sospesa fra cielo, terra e mare, è il luogo principale di questo “monte santo” consacrato a Maria e alla contemplazione di Dio e della natura. Ricordo di aver vissuto tre giorni in un’atmosfera satura di preghiere, canti, fatiche e rinunzie, ma con l’animo allegro perché ti trovi a contatto con la natura e soprattutto con Dio. Tutto traspira Dio, tutto parla di Dio, che si rivela riempiendo il cuore di gioia. Se si visita il Monte Athos, bisogna andarci con l’animo aperto alla contemplazione, altrimenti non si resiste.

 

    I monaci vengono da varie parti del mondo ortodosso, dalla Russia e persino dai greci nelle Americhe, e nella loro vita percorrono la “Scala del Paradiso”, descritta da San Giovanni Climaco (sec. VII), che è il loro modello: combattere le proprie passioni e raggiungere l’”apathìa”, l’indifferenza spirituale, per entrare nella “vita evangelica”. Nel refettorio della grande Làvra, a destra sono affrescati gli angeli che aiutano e confortano i monaci che salgono la difficile scala verso Cristo; a sinistra i demoni tentatori che divorano i monaci che precipitano dalla scala perché incapaci di vincere le tentazioni.   

     Ripensando a quella breve esperienza e ai brevi dialoghi (si parlava francese) con un giovane monaco che ci accompagnava nelle visite (tra i monaci ci sono laureati, medici, ingegneri), mi è sembrato di capire la differenza tra l’Occidente e l’Oriente cristiano (una delle tante). Noi privilegiamo, nella formazione dei preti e anche nella predicazione, lo studio speculativo e teoretico della teologia, pensando forse che conoscere in modo approfondito equivale a vivere; là nell’Athos non fanno tanti ragionamenti e distinzioni, tutto è volto alla ricerca di Dio, al percorrere un cammino spirituale che ti conduce a Dio. Noi vogliamo conoscere Dio, loro tendono ad incontrarlo per lasciarsi trasfigurare da Lui.

 

     Il Monte Athos, come tutti i conventi di clausura, è un luogo simbolico del cristianesimo, che è radicato sulla terra ma tende al cielo. E’ una scala verso il Paradiso, la Gerusalemme del cielo trasformatasi in monastero, anticipazione dei “cieli nuovi e terra nuova” del Regno di Dio. Simboleggia anche, per noi Chiesa latino-occidentale, la ricchezza liturgica e spirituale dell’Oriente cristiano. E ci invita a pregare per l’unità delle Chiese cristiane, poichè solo così Cristo potrà essere testimoniato e annunziato in modo credibile a tutti i popoli e le culture del mondo.

    “Quale Cristo annunziamo ai non cristiani?” si chiedeva il beato padre Paolo Manna, uno dei massimi profeti dell’ecumenismo cattolico nel Novecento. E aggiungeva: “I non cristiani ci dicono: vi ascolteremo quando vi sarete messi d’accordo”. Era uno dei rovelli della sua anima di missionario e dovrebbe diventare  anche il nostro.                                   

 Piero Gheddo                                                                                                                        

E' possibile una "morale laica" senza Dio?

 

  

     Nell’ “anno sacerdotale” che stiamo vivendo, mi capita di discutere sull’importanza del sacerdote nella comunità cristiana e umana, con un amico che mi dice: “Tu affermi che una morale laica, cioè senza Dio, non può esistere, perché è inutile appellarsi solo alla coscienza in quanto la coscienza personale può essere fallace. Però non puoi negare che esistono degli atei che sono esempi di moralità e insegnano una morale prescindendo dall’esistenza di Dio”. E’ un nodo da approfondire.

      Vittorio Messori ha scritto (in “Tempi” 17 febbraio 2010): “Norberto Bobbio, di cui sono stato discepolo – parlo quindi di quello che è considerato un guru, un “papa laico”, non certo un clericale – ci diceva spesso, nelle aule dell’università torinese: «La morale razionale che noi laici proponiamo è l’unica che abbiamo, ma in realtà è irragionevole». È semplice: perché si dovrebbe fare il bene piuttosto che il male, se facendo il male mi verrà un vantaggio e nessun svantaggio? Non c’è alcuna risposta ragionevole a questa domanda. Se manca il chiodo a cui appendere l’etica, allora nessuna etica è razionalmente possibile. Quel chiodo non può che venire da un Legislatore fuori di noi, che per il credente è Dio”.


     E’ verissimo che esistono dei non cristiani, non credenti, laici, atei (chiamiamoli come vogliamo), non solo nei paesi cristiani ma anche in quelli non cristiani, che sono migliori di noi credenti in Cristo. Vivono la “legge naturale”, che Dio ha messo nel cuore di ogni uomo, sono docili alla voce dello Spirito “che soffia dove vuole”, più di molti battezzati credenti e magari anche praticanti. Ma questo non vuol dire nulla. Qui si parla di una legge morale codificata e valida per tutti e in tutti i tempi, non della situazione personale di alcune o molte persone.

     In genere si pensa che basta appellarsi alla coscienza per avere sufficienti motivazioni per la moralità. La Chiesa dice che bisogna agire secondo coscienza, ma la coscienza illuminata dalla Fede e dalla Parola di Dio, non la coscienza personale di ciascuno e stop. L’uomo non può essere norma e giudice di se stesso, sopra di lui c’è il Creatore. La “morale laica” non ha altro chiodo a cui attaccarsi che la coscienza personale e il consenso popolare a una certa norma o comportamento. Ma questo non regge alle verifiche della storia. Tutti i filosofi greci, da Aristotele a Platone, che sono considerati il punto più alto del pensiero non cristiano, non solo accettavano la schiavitù ma la difendevano a spada tratta. C’è voluto il cristianesimo affinchè la schiavitù, a poco a poco (i cambiamenti culturali non avvengono mai da un giorno all’altro), venisse abolita.

 

    Nel nostro Occidente evoluto e illuminista, cito un caso su tanti, i “duelli per motivi di onore” erano obbligatori per gli appartenenti all’esercito dei Savoia ancora in tutto l’Ottocento. Chi non accettava di battersi per difendere il proprio onore veniva degradato, punito e licenziato. La Chiesa che condannava i duelli era accusata di appoggiare la vigliaccheria dei deboli! Ancora Benito Mussolini all’inizio del 1900, per la coscienza sbagliata dell’onore comunissima a quel tempo, quanti duelli ha fatto? Eppure la “morale laica” di un secolo fa considerava battersi in duello un gesto virtuoso e onorabile! Insomma, se la coscienza non è illuminata dalla fede, dove può portare?

 

     Per non parlare del mondo non cristiano. In Giappone mi hanno detto che il senso comune considera la vendetta un gesto sacro e doveroso per tutti. Il precetto del perdono delle offese ricevute è uno dei principali ostacoli perchè un giapponese si converta a Cristo. O ancora la “coscienza” islamica, diversissima dalla nostra in tanti aspetti, come sappiamo. O in India la divisione della società in caste per motivi religiosi e credenze tradizionali, rimessa in discussione dall’influsso delle nazioni e delle missioni cristiane, abolita dalla Costituzione indiana (1948) e dalle leggi, ma ancora comunemente osservata specie nell’India rurale.

     Dio Padre, che ha creato l’uomo dal nulla e si è rivelato gradualmente nella storia da Abramo a Cristo, è il Legislatore e ha fissato le norme della morale, che sola può salvare l’uomo e assicurare sviluppo e rispetto delle persone, giustizia e pace fra i popoli.

                                                                Piero Gheddo

 

Indro Montanelli: "All'uomo interessa l'uomo"

                  

    Diversi lettori mi hanno telefonato o scritto a proposito del Blog del 15 maggio. Amici sacerdoti soprattutto, uno dei quali scrive: “Tu dici che nell’omelia domenicale bisogna dare testimonianza della propria fede, fino a commuovere chi ci ascolta. Ho sempre saputo che l’omelia domenicale serve per spiegare le letture della Sacra Scrittura e per presentare le verità della nostra fede. Oggi c’è un’ignoranza spaventosa circa le verità di fede. Mi pare che prima di applicare la fede alle situazioni concrete e alla vita, bisogna spiegare bene in cosa crediamo e cosa dice la Parola di Dio”.

     L’omelia domenicale deve durare 10-12 minuti al massimo: se supera questo tempo il predicatore deve sapere che distrugge quel che di buono ha detto (a parte casi eccezionali).

    L’amico giornalista Giorgio Torelli mi dice che ogni tanto, alla Messa domenicale, visita diverse chiese di Milano, proprio per sentire cosa dicono i sacerdoti. Il giudizio che dà non è complessivamente positivo dal punto di vista della comunicazione. Gli dà fastidio che, dopo aver letto il Vangelo (chi viene in chiesa lo conosce quasi a memoria), spesso il prete lo racconta di nuovo con parole sue, dando varie spiegazioni storiche, esegetiche, dottrinali. Una volta, mi dice, nel Vangelo si legge la parabola del buon samaritano. Poi il prete racconta la stessa parabola appena letta, spiegando chi erano i samaritani, i leviti, i sacerdoti del tempio, perchè la strada da Gerusalemme a Gerico era favorevole agli agguati dei briganti, perché gli ebrei non si fermavano a soccorrere un samaritano, cose che non interessavano nessuno o quasi. Insomma, quando giunge a dare alcune esortazioni pratiche per la vita dei fedeli, cioè a incarnare il Vangelo nella vita, la gente non ascoltava più, aspettava solo che finisse di parlare.

     Oggi la televisione abitua a sentire di vita comune. “All’uomo interessa l’uomo” diceva Montanelli ai suoi redattori e lui certo sapeva farsi leggere! Gesù sapeva farsi ascoltare, naturalmente perché compiva miracoli, aveva un enorme fascino personale e diceva verità straordinarie (pensiamo alle Beatitudini!), ma credo anche perchè parlava in parabole, cioè raccontava fatti concreti che allora tutti capivano. La parabola del buon Samaritano, in quel mondo bloccato dal fariseismo, era una novità assoluta, oggi è un fatto talmente risaputo (da chi viene in chiesa) che dà persino fastidio rileggerlo e poi sentirlo raccontare di nuovo.

     Mi permetto di raccontare una mia piccola esperienza. Quando ho commentato il Vangelo della domenica per due anni (1994-1996 – Anno A e B) alla TV di Rai Uno tutti i sabati sera dalle 19,30 alle 19,45, dopo la lettura del brano evangelico incominciavo raccontando un fatto, un’esperienza di vita missionaria, cioè un fatto reale dei nostri giorni che incarnava il contenuto dottrinale e morale del Vangelo appena letto. Parlando una decina di minuti, applicavo quel Vangelo alla nostra vita quotidiana. Alla Rai mi dicevano che gli ascolti erano cresciuti da una media di 700-800.000 a circa due milioni e ricevevo in media più di venti lettere al giorno.  (In seguito, hanno spostato l’orario del Vangelo domenicale dalle 19,30 alle 17 e gli ascolti sono molto diminuiti).

    Qualcuno però mi scriveva o diceva che era troppo facile per me, che ho visitato le missioni in tutto il mondo, trovare fatti originali, interessanti da raccontare. Certo, mi è stato utile il giornalismo perché ho sempre scritto tutti gli incontri e le interviste, ma sono convinto che qualsiasi prete, se scrive e ricorda i fatti importanti e degni di memoria della sua vita sacerdotale e pastorale, accumula un notevole materiale predicabile, cioè esperienze di vita pastorale da tradurre in parabole, che applicano il Vangelo alla vita di tutti i giorni.

    L’importante, secondo la mia esperienza, è trasmettere la fede nella vita, quindi anche commuoversi e commuovere, non fare una mini-lezione di teologia o di esegesi biblica. 

 

        Il grande mistico don Divo Barsotti (1914-2006), interrogato sulle omelie d’oggi, affermava (“Il Focolare, Mensile dell’Opera della Divina Provvidenza Madonnina del Grappa”, Firenze, aprile 1999, pag. 6): Gran parte della predicazione cristiana non ha più successo perchè è diventata come la dottrina: non è più una testimonianza di vita. Negli Apostoli, ma anche nei grandi santi sacerdoti che ha avuto la Chiesa, la parola non era soltanto la trasmissione di una dottrina concettuale, era una vita nuova che il sacerdote e il cristianesimo portano nel mondo. Troppo spesso siamo dei ripetitori di luoghi comuni o anche di cose grandi (poche), ma ripetere soltanto non basta all’efficacia del ministero. Quello che si impone oggi per il sacerdote non è di rendersi uguale agli altri, perché così perdiamo di credibilità e di efficacia, è invece di diventare credibile con la sua vita”.

                                                                                                Piero Gheddo

 

Hanno ottenuto un figlio pregando padre Vismara

 

     Il 16 maggio scorso si è svolto nella casa del Pime a Mascalucia (Catania) un incontro tra circa 160 partecipanti all’associazione “Famiglie missionarie Aquila e Priscilla”, nata tre anni fa per iniziativa di Padre Adriano Cadei  e Padre Bruno Piccolo, centrata sulla figura del Venerabile padre Clemente Vismara (1897-1988), per 65 anni missionario in Birmania, la cui beatificazione è prevista nei prossimi anni. Clemente è invocato “Protettore dei bambini” perché ha sempre raccolto nella sua missione di Mong-Lin e poi Mong-Ping, nella diocesi di Kengtung fra le tribù dei monti birmani, migliaia di bambini e bambine allevandoli con l’aiuto delle suore di Maria Bambina fino all’età del matrimonio e dando loro istruzione, un mestiere ed educandoli alla fede e alla vita cristiana. Viveva con 200-250 orfani, bambini abbandonati, handicappati, figli di lebbrosi o di fumatori d’oppio, gemelli condannati all’eliminazione. Dalla sua cura dei piccoli sono  venuti fra l’altro una decina di sacerdoti e molte più suore, oltre a molti professionisti e personalità della società civile.

     L’incontro del 16 maggio è iniziato al mattino con la conferenza di padre Piero Gheddo su “Come padre Clemente educava i suoi ragazzi”, cioè i suoi criteri educativi che possono insegnare molto alle famiglie e alle scuole italiane oggi; e le testimonianze di cinque coppie di giovani sposi che hanno ottenuto il loro primo figlio pregando padre Clemente, mentre non riuscivano ad ottenerlo in altro modo. Infine la proiezione di un “diaporama” (diapositive musicate e commentate)  sul viaggio in Birmania di padre Adriano Cadei, anche lui missionario in Birmania  (ora a Mascalucia), e del dott. Sebastiano Percolla che assieme alla moglie Concetta ed alla figlia Roberta hanno ripercorso i luoghi in cui è vissuto padre Clemente . Dopo il pranzo in comune, alle 16  la Santa Messa solenne con omelia sull’Ascensione di Gesù e la preghiera comunitaria per tutti i bambini delle famiglie che partecipano ad “Aquila e Priscilla”, con l’elenco dei loro nomi, i cui genitori hanno chiesto di ricordarli al Signore.

     Il fatto che merita di essere segnalato è che la devozione a padre Clemente, diffusa da “Aquila e Priscilla” anche con il loro bollettino mensile (omonimo) inviato da tre anni on line specialmente alle famiglie, ha portato ad una moltiplicazione delle preghiere per i bambini. Commoventi le testimonianze portate all’incontro di Mascalucia da cinque giovani coppie che hanno ottenuto il loro primo figlio attraverso la preghiera in comune fra marito e moglie a padre Clemente. E hanno portato con sé i piccoli, mentre altri sono già in arrivo. Una signora ha detto fra le lacrime, ed è stata molto applaudita, che era incinta e i medici le consigliavano di abortire perché il bambino non poteva nascere bene. Lei e il marito l’hanno voluto ad ogni costo e oggi hanno un bel bambino che è la gioia di tutta la famiglia. Un’altra signora dice: “Avevo già 45 anni quando donai una foto di padre Clemente ad una mia conoscente che non era riuscita ad avere una gravidanza. Ne tenni una per me e pregavo per lei affinchè fosse esaudito il suo desiderio. Dopo qualche mese ho avvertito che qualcosa cambiava in me. Ho pensato: è la menopausa che arriva. Ho fatto gli esami e quasi non credevo quando mi dicono: lei è incinta! Il bambino è nato bene e non sappiamo come ringraziare il Signore che ce l’ha dato. Anche la mia conoscente ebbe la grazia della gravidanza e della maternità”.

    Le famiglie che hanno ottenuto il loro figlio pregando padre Clemente sono molto più numerose. Di due altre non presenti sono state lette le testimonianze scritte.  Le famiglie presenti a Mascalucia hanno pregato affinchè padre Clemente Vismara venga presto proclamato beato e presentato a tutta la Chiesa come un missionario modello e protettore dei bambini. 

                                                                                 Piero Gheddo

Le meraviglie dello Spirito Santo

 

      Caro don Piero, le scrivo per renderla partecipe della mia gioia, che mi sta dando il Signore, per le grazie copiose che mi elargisce. Dopo un periodo di preparazione chiamato “Seminario di Vita Nuova”,  il 25 aprile scorso ho ricevuto l'”effusione” dello Spirito Santo. E’ stata una giornata intensa, forte, dove ho sperimentato la grandezza del Signore e per la prima volta ho sentito in me una calma, una serenità indescrivibile. Erano spariti da me l’ansia, il nervosismo, l’agitazione lasciando il posto alla calma, alla gioia. Per completare il tutto, i giorni 29 e 30 aprile e 1 e 2 maggio sono stata a Rimini alla XXXIIII Convocazione dello Spirito Santo. Sono state giornate intense, forti, dove si è “toccato con mano” la presenza del Signore. Dove il pianto e il riso si intrecciavano in un’unica lode al Signore. Una giornata è stata dedicata interamente ai sacerdoti, abbiamo pregato con loro e per loro ed infine  invocato lo Spirito Santo su di loro. E’ stato un momento veramente intenso ed emozionante. Poi le varie testimonianze di persone che, dopo aver “toccato il fondo” nella loro vita, hanno incontrato, sul loro cammino di disperazione, qualcuno che ha parlato loro di Gesù, di Gesù risorto, di Gesù vivo, di un sepolcro vuoto, e attraverso tutto questo, la svolta della vita, la conversione.

     Io ha avuto la grazia del Signore di essere stata abbastanza vicina a Lui con alti e bassi, momenti di freddezza e momenti di tiepidezza, ma oggi, dopo aver tante volte visto il “bicchiere mezzo pieno” e spesso “mezzo vuoto”, ora vorrei gridare al mondo, come ho gridato che “Gesù è risorto”, è “veramente risorto”, vorrei gridare che il mio bicchiere non è “mezzo pieno” ma è completamente “pieno”, pieno delle grazie del Signore. La mia vita sta veramente cambiando, e con l’aiuto del Signore, spero di continuare in questo cammino in salita, che mi dà gioia, trepidazione, serenità. Non da sola, ma con Gesù, Maria, la Mamma celeste, portando con me chi mi sta accanto, chi più ha bisogno di questa serenità, di questa gioia, che solo stando attaccati al Signore e alla sua Chiesa è possibile sentire e sperimentare.

    Le chiedo, in conclusione di questo mio scritto, una preghiera di ringraziamento al Signore per queste grazie che mi sta elargendo e che mi aiuti a trasmettere a chi mi sta accanto la percezione che non sono io che sono così, ma è Cristo in me che mi rende felice, gioiosa, serena e che attraverso di me vedano la grandezza e la potenza di Cristo salvatore, e possano credere che “CRISTO VIVE, CRISTO E’ RISORTO, E’ VERAMENTE RISORTO! Alleluja!!!

     Inoltre, tra le varie emozioni di queste giornate, ho potuto assistere anche a delle guarigioni da varie infermità: una signora ha portato sul palco la sua carrozzella ed è corsa lungo tutto il palco senza l’aiuto di nessuno, un’altra ha lasciato le sue stampelle, tre persone hanno lasciato le protesi acustiche, senza contare quante confessioni!  I sacerdoti presenti spesso venivano esortati dal palco per la costante richiesta di confessioni.

     Il tema principale di queste giornate: “E’ lo Spirito che dà testimonianza, perchè è la verità” (1 Gv 5, 6b). Poi c’è stata la sessione dedicata alla potenza di Dio che consola, libera e guarisce, la sessione dedicata alla diffusione delle “Ragioni dello Spirito” per la promozione di una cultura della Pentecoste nel mondo, una sessione dedicata alla Misericordia di Dio che perdona e riconcilia, seguita dalla sessione dedicata ai sacerdoti e la festa sacerdotale “d’ora in poi sarai pescatore di uomini” (Lc 5, 10b), poi una riflessione sul tema “Il fare è cieco senza il sapere e il sapere è sterile senza l’amore…. C’è sempre bisogno di spingersi più in là: lo richiede la carità nella verità” (Benedetto XVI, Caritas in Veritate, nn. 29-30) ed altro ancora. So di essere stata un po’ lunga, ma non potevo risolvere tutto in poche righe. E debbo frenare il mio impulso di scrivere ancora. Mi perdoni. Un abbraccio fraterno nel Signore,  Ardea Zoli – Trieste.

Cara signora Ardea,

                                      grazie della sua lettera che è molto bella. Si vede proprio che questa esperienza è stata per lei veramente entusiasmante e spiritualmente gratificante. Sono stato anch’io due volte con  i Pentecostali o come si chiamano oggi. A Brescia una quindicina di anni fa ho tenuto loro un ritiro spirituale con due meditazioni e la Santa Messa e a Roma in tempi più recenti al Santuario del Divino Amore hanno avuto un loro convegno nazionale di alcuni giorni su fede e mass media e ho parlato sul giornalismo cattolico.

    Debbo dire che ambedue le volte i partecipanti a questi incontri mi sono piaciuti e mi hanno confermato in quanto ho sempre pensato. Che i cosiddetti “movimenti” (Focolari, CL, Neo-catecumenali, Cursillos, movimenti familiari, Pentecostali e altri) sono un’opera dello Spirito. Ciascuno di essi, secondo il proprio carisma, e tutti assieme stanno rinnovando la Chiesa, non solo nei nostri paesi di antica cristianità, ma ho visto anche nelle missioni, nelle giovani Chiese (cito solo Vietnam e Corea del sud e l’influsso notevole che ha avuto la Legio Mariae nella Cina). Il loro limite è quello di assolutizzare un modo di essere cristiani, mentre sono solo vie diverse per giungere alla stessa meta che è di amare e imitare Cristo, di vivere in unione con Lui.

     A volte si sente dire: “Questo movimento è la via migliore per vivere autenticamente il Vangelo”. Comprensibile (per l’ingenuo entusiasmo), ma sbagliato dire o pensare così. Ciascun movimento attira alcune persone e altre no, altri ne attirano altre. Ecco perché lo Spirito suscita “vie diverse”, senza che nessuna di esse diventi unica, poiché il mistero e l’esempio di Cristo non potremo mai esaurirli nella nostra comprensione e imitazione. di uomini. Lo stesso si può dire dei movimenti riguardo alla Chiesa. Il movimento non è la Chiesa, è un ramo dell’albero che è la Chiesa, rappresentata dai vescovi uniti al Papa, dalle diocesi e parrocchie. Se un movimento (o un credente) si stacca dalla Chiesa anche solo con la disaffezione, non può più essere con Cristo e di Cristo.

     Grazie ancora. Lei preghi per me e io prego per lei. Dio la benedica. Un caro saluto dal suo padre Piero Gheddo.                                                                                                                  

Nell'omelia comunicare l'esperienza della fede

 

 

 

     Monsignor Mariano Crociata, segretario della Conferenza episcopale italiana (CEI), ha lamentato che le prediche delle Messe domenicali troppo spesso si trasformano per i fedeli in “una poltiglia insulsa, quasi una pietanza immangiabile o, comunque, ben poco nutriente”, nel corso di un intervento sulla Liturgia fatto a Roma (“L’Osservatore Romano”, 30 dicembre 2009).

      Cos’è la predica, l’omelia domenicale nelle nostre chiese? Anzitutto “comunicazione” del messaggio cristiano. Qual è la prima regola del comunicare? Ricordo quando volevo collaborare con i giornali laici (scrivevo già su “L’Italia”, oggi “Avvenire” e “L’Osservatore Romano”), il primo che nel 1958 mi ha invitato è stato il cattolico Edilio Rusconi, mitico direttore e fondatore di ”Oggi” per la Rizzoli (1946); poi si era messo in proprio e aveva fondato “Gente” (1958). Gli portavo articoli sui missionari e i popoli non cristiani, li pubblicava volentieri e una volta mi dice: “Tu scrivi cose interessanti, ma non hai ancora capito la prima regola del giornalismo”. Quale? “Il giornalista deve farsi leggere. Se non ti leggono è inutile che tu scrivi. All’inizio dell’articolo devi dare la notizia, il fatto, agganciare l’attenzione del lettore distratto del  nostro tempo. Tu invece parli come il prete parla dal pulpito: parti dalle idee generali, dai principi e poi scendi e fai il tuo racconto. Sbagliato, devi capovolgere l’impostazione”.

 

     La predica è insegnamento di una dottrina o comunicazione di un’esperienza? E’ ambedue le cose, ma credo che, specialmente nel nostro tempo, per farsi ascoltare è molto valida la seconda ipotesi, non certo in senso assoluto (la dottrina è indispensabile), ma in senso relativo. In genere, il breve tempo dell’omelia (10-12 minuti al massimo) non permette di sviluppare un insegnamento compiuto, ma consente di provocare chi ascolta, far riflettere sulla propria vita confrontandoci col modello di Cristo. Il Vangelo è sempre provocatorio, indica che Gesù non è solo da pregare, ammirare, studiare, approfondire, ma soprattutto da amare e imitare. Il grande predicatore televisivo mons. Fulton Sheen, vescovo ausiliare di New York che negli anni cinquanta e sessanta spopolava alla televisione americana, diceva: “Se quando parlo a milioni di ascoltatori non arrivo a commuovermi ed a commuovere chi ascolta, ho fatto un buco nell’acqua. Di parole se ne dicono e se ne sentono tante. Nei pochi minuti che ho a disposizione debbo toccare il cuore dello spettatore medio, orientandolo a convertire la sua vita al modello di Cristo”.

 

    La predica deve comunicare la fede, l’esperienza che la fede porta ad una vita più umana, più serena, più pacifica, piena di gioia; deve provocarci e farci riflettere su quanto siamo distanti, noi cristiani, dal modello divino-umano di Gesù Cristo.

     Nel settembre 2002 ho pranzato, nel “Convento della Pace” di Assisi, col superiore provinciale dei francescani conventuali giapponesi, padre Pietro Sonoda, col quale ho avuto una interessante conversazione sul primo annunzio di Cristo in Giappone, reso difficile dalle differenze fra cultura occidentale e cultura giapponese.  

    Padre Pietro è vissuto otto anni in Italia, parla bene italiano. Mi dice: “Uno degli ostacoli all’annunzio del Vangelo in Giappone è che il giapponese è un uomo molto concreto, pratico, non ama e non capisce il linguaggio filosofico, astratto, staccato dalla vita. Ma nella Chiesa noi usiamo questo linguaggio: tutto è dogma, verità schematica, belle riflessioni teologiche. In Giappone il Vangelo è uno dei libri più letti, ma appunto perchè il Vangelo racconta fatti e parabole, dà notizie. I documenti della Chiesa, sono basati su ragionamenti non su fatti concreti. Quando vengo in Italia e sento le omelie che i preti fanno alla Messa domenicale, penso: se parlassero così in Giappone, nessuno li ascolterebbe”.

     Dico a padre Sonoda che non si preoccupi, forse anche buona parte dei fedeli italiani che vengono in chiesa molto spesso non sentono o non ascoltano o non capiscono quel che il sacerdote dice nella sua omelia. 

 

     Oggi è difficile farsi leggere in libri e giornali, ma difficilissimo farsi ascoltare dal pulpito. Credo che chi parla in chiesa debba anzitutto preoccuparsi di farsi ascoltare e capire, debba interessare chi ascolta. Se non ti fai leggere – mi diceva Edilio Rusconi – perchè scrivi? Ogni predicatore deve dirsi: se non mi sentono o non mi ascoltano o non mi capiscono, perchè parlo?

    Il grande Paolo VI ha una bellissima frase nella “Evangelii nuntiandi” (1975, n. 41): “L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri o se ascolta i maestri, lo fa perché sono dei testimoni”. Ma se un predicatore si ferma solo all’insegnamento della dottrina e non comunica un’esperienza e non scende alla vita quotidiana, che testimonianza dà in quei pochi minuti?

                                                                                                  Piero Gheddo

"Se vincete vi meniamo!"

  

     Ogni giorno che passa ci porta nuove prove della decadenza dello spirito cristiano nel popolo italiano; o almeno dell’emergere di uno spirito certamente non evangelico nel  nostro popolo.

    Domenica 2 maggio ho assistito (per TV) alla partita di calcio Lazio-Inter. Negli anni giovanili, e non solo, ho giocato al calcio facendo anche parte della squadra dell’Università Urbaniana (che le aveva suonate ad altre Università ecclesiastiche romane). Ancora mi appassiona assistere a qualche bella partita, senza essere tifoso di una squadra particolare, ma per il divertimento di vedere la tecnica individuale, gli schemi di gioco, l’armonia o la forza di una squadra o dell’altra. In campo internazionale, naturalmente, tengo per l’Italia o una qualsiasi squadra italiana. In Italia invece vorrei che vincessero il campionato non le solite tre, Inter-Juve-Milan, ma quelle che l’hanno vinto poche volte o mai. Quest’anno, ad esempio mi auguro che vinca la Roma.

     Perché questa premessa? Perché domenica scorsa mi ha molto scandalizzato vedere i tifosi della Lazio sostenere l’Inter contro la loro squadra del cuore, con l’unico scopo di impedire alla “nemica” Roma di vincere il Campionato nazionale! Mi ha fatto male perché ha perso lo sport e perché queste sono espressioni di inimicizia radicale, quasi di odio tra tifosi e tifoserie, in una città dove il Papa continua a parlare di pace, di perdono, di amore fra i diversi e il nostro Presidente della Repubblica insiste nel dire che il popolo italiano ha bisogno di unità, di superare gli egoismi e le divisioni, non solo nella politica ma in tutti i settori di vita. Mi ha fatto male pensare che nel popolo romano, certamente religioso e molto religioso, la fede non diventa vita, non orienta a sentimenti e comportamenti che sarebbero positivi per tutti.

      Da “ingenuo” missionario penso questo:  a Roma ci sono due squadre che hanno storia, tecniche e caratteristiche diverse, ma come sarebbe bello che tutti sostenessero, dopo la propria, anche l’altra squadra cittadina, per amore e in nome della propria città. Capisco che nei “derby” le tifoserie si dividono, ma assistere allo spettacolo degli striscioni di tifosi laziali che dicono ai giocatori della loro squadra: “Se vincete vi meniamo” è non solo triste perché svilisce lo sport, ma deprimente perché un missionario ingenuo pensa: “Ma siamo in un paese cristiano o pagano?”.

                                                                      Piero Gheddo

 

Perchè non la "Dottrina sociale della Chiesa"?

 

 

      Augusto Del Noce (1910-1989), politologo, filosofo e politico di ispirazione cattolica, docente di “Storia delle dottrine politiche” all’Università La Sapienza di Roma, negli anni Sessanta e Settanta del Novecento dimostrò errate le correnti di pensiero che sostengono su basi razionali la possibilità della liberazione dell’uomo senza Cristo (“solo il Redentore può emancipare”). Dopo il Concilio Vaticano II combatté in modo rigoroso e tenace i teologi e i gruppi cattolici che praticavano il dialogo tra credenti e marxisti. Negli anni Ottanta predisse la fine del “Socialismo reale” e scrisse: “Il comunismo come sistema di potere crollerà, perché non è umanamente possibile che sopravviva ancora a lungo, essendo contrario alla natura umana; ma i comunisti non torneranno alla fede cristiana, diventeranno borghesi materialisti e radicali anticlericali”.

      Come sacerdote non dovrei scrivere di problemi politici, ma sono anch’io coinvolto come cittadino nelle vicende politiche italiane. Del Noce mi è tornato in mente seguendo con interesse la crisi del centro-sinistra, che non riesce ad unirsi ed a fare una vera opposizione per costruire un’alternativa di governo al centro-destra. A sinistra molti si chiedono perché. Chi propone un Partito Democratico non centralizzato ma federale, chi di “radicarsi nel territorio” (parole magiche dopo le vittorie della “Lega Nord”). Insomma, si discute su come interessare e coinvolgere la gente, offrendole occasioni per partecipare attivamente e avere più voti.

 

     Ma il problema fondamentale della Sinistra penso sia un altro: i contenuti, i principi ideali da cui discendono i valori e ogni azione per conquistare i voti e il potere; cioè per migliorare la situazione della nostra Italia, che attraversa una grave crisi non solo economica, ma soprattutto crisi morale, di ideali, di modelli di vita da proporre ai giovani. Come italiano certo mi preoccupa la crisi economica e le troppe famiglie gettate sul lastrico dalla disoccupazione. Ma ancor più mi preoccupa la crisi morale, direi spirituale. C’è in giro troppo pessimismo, i giovani difficilmente si entusiasmano, i modelli di vita che propongono televisione, stampa e anche scuola e politica non vanno al di là di successo, carriera, visibilità mediatica, varie forme di trasgressione, divertimento, incarnati spesso in “personaggi negativi” che non contribuiscono a migliorare la situazione del paese.

        

      La maggioranza degli appartenenti al Partito Democratico (come i partiti alla sua sinistra) vengono dal PCI che aveva una chiara e forte ideologia, suscitava speranze di radicali cambiamenti. Ho conosciuto a Milano Mario Acquarone, che aveva frequentato la scuola dei quadri PCI a Praga e alle Frattocchie. Abbiamo fatto amicizia, è tornato alla fede ed è morto da una ventina d’anni. Lo ricordo con affetto. Mi raccontava dell’ammirevole organizzazione culturale del PCI che riusciva a influenzare profondamente la cultura italiana attraverso intellettuali, giornalisti, sindacati, associazioni professionali, scuole, università e una mirabile produzione di idee, proposte, strumenti adatti per ogni categoria di popolazione.

     Ma allora il PCI aveva degli ideali e dei contenuti. Oggi quali sono gli ideali del Partito Democratico, capaci di suscitare entusiasmo e adesione popolare? Tramontato il “Socialismo reale” e crollata la illusoria speranza di un cambiamento radicale in favore del popolo, come sembrava avvenisse in Cina con Mao Tze Tung, in Vietnam con Ho Chi Minh, a Cuba con Fidel Castro, in Africa con le “guerriglie di liberazione”, al Partito Democratico quali ideali, modelli e speranze sono rimasti?

 

     La profezia di Del Noce si sta realizzando? Perché il Partito Democratico non apre un dibattito interno per condannare e rifiutare radicalmente l’ideologia e i modelli del PCI (compreso l’ateismo, radice di tutti i mali) e trovare assieme alla società civile gli ideali e i modelli da incarnare nella politica per diventare alternativa di governo? Nel centro-sinistra sono confluiti comunisti, cattolici, socialisti, social-democratici, repubblicani, radicali e un PCI che ha cambiato molti nomi (PCI, PDS, DS, PD), ma non ha mai fatto un esame autocritico del suo passato, che pesa ancora.

      Non voglio dare giudizi né consigli ad alcuno. Le mie sono semplicemente riflessioni di un anziano prete e missionario, che soffre per una politica che non si sblocca dall’alternativa Berlusconi-Anti Berlusconi; e una Sinistra divisa e suddivisa in tanti partiti e correnti che non riesce a imboccare una via di ideali comuni per un’alternativa di governo. Perché la Sinistra non torna alle radici ideali “buone” del suo passato, quelle del socialismo umanitario, la giustizia sociale, la solidarietà ai poveri e tra i poveri, l’abitudine al risparmio e al sacrificio (nel 1977 Berlinguer scrisse un opuscolo sull’austerità della vita come via per uscire dalla crisi), la collaborazione per una società migliore?. Certo, per noi cattolici sarebbe sempre insufficiente (può esistere una società “buona” fondata solo su valori umani?); però sarebbe meglio di niente e forse risulterebbe anche più credibile per gli elettori.

      Perché la Sinistra non si confronta con l’ideale cristiano come proposto dai Papi e dalla “Dottrina sociale della Chiesa”, per giungere ad un diverso modo di concepire la lotta per la giustizia sociale e il riscatto degli ultimi? Mi rendo conto che è “ingenuo” dire questo, ma se la Sinistra rimane ferma ad un’ispirazione ideologica che ha fatto il suo tempo e non presenta ideali capaci di ridare una speranza di cambiamento e di entusiasmare i giovani, non può pensare di rimanere unita per tornare a governare col voto popolare.

                                                            Piero Gheddo