Dalla foresta amazzonica a Dio

                  

 

       Ieri, terza domenica di Quaresima (Anno A), ho celebrato la S. Messa nell’ospedale delle Missionarie Cabriniane a Milano (Columbus), commentando il Vangelo dell’incontro di Gesù con la samaritana (Giov. 4, 5-15), una donna che portava nel suo cuore la sete di Dio. Gesù leggeva in profondità nel cuore umano e conosceva la sua vita disordinata, ma vedeva in lei la sete di Dio, il desiderio di purezza, di perdono, di incontrare Dio. Le chiede da bere, poi le parla dell’acqua spirituale che disseta per sempre e quella donna gli chiede di darla anche a lei.

     La samaritana sentiva nel profondo questa sete di Dio, che non riusciva ad emergere per una vita superficiale e le molte emergenze quotidiane. Basta una parola di Gesù per portare alla superficie questa sete di Dio. L’incontro col Signore cambia la vita di questa donna.

     Anche noi incontriamo spesso Gesù nella Messa, nella Comunione, nelle preghiere. Ma non abbiamo ci siamo ancora convertiti, la Quaresima è il tempo opportuno per risvegliare in noi il senso di Dio, di conoscere il suo amore e il suo perdono. Noi crediamo di conoscere Dio, ma non lo conosciamo, non lo contempliamo nel suo immenso amore per noi, non sentiamo ancora profondamente la sete di Dio, il desiderio di conoscere Dio.

 

     1) Lasciatemi raccontare una parabola moderna. Nel 1966 ho fatto un viaggio avventuroso in Amazzonia con un missionario del Pime, padre Giorgio Basile. Su un barcone a motore siamo partiti da Oyapoque ai confini con la Guyana francese per risalire la corrente di tre fiumi, Oyapoque, Uaçà e Cumarumà, per visitare diversi villaggi di indios cattolici o catecumeni. Un viaggio durato undici giorni, poi è venuto a prenderci il piccolo aereo della missione nell’ultimo villaggio. Ci siamo fermati in tre villaggi, dove erano venuti gli indios anche da regioni vicine per incontrarci.

     All’inizio non volevo partire perché mi pareva di perdere tempo. Infatti il primo giorno su quel barcone che avanzava lento contro-corrente, mi sono un po’ pentito. Il padre Giorgio, uomo spirituale e abituato a quei viaggi, mi dice detto: “Questo è un viaggio spirituale, dobbiamo pregare e meditare”. Così è stato. Pregando, distaccandomi dal mondo e avanzando nell’esplorazione di quel mondo di foresta e di acque, ho pensato: se è così bella la natura, pensa Piero come dev’essere bello Dio!

     Erano scene da diluvio universale come nel Genesi quando Dio creò il cielo e la terra. La foresta amazzonica, vista dall’aereo, è un tappeto granuloso di verde cupo, solcato dai nastri grigio-azzurri dei fiumi. Vista dal fiume presenta molti aspetti interessanti, stupefacenti, avventurosi: la massa di alberi che s’intrecciano e non lasciano passaggi, le giravolte di fiumi e gli “igarapé” (i loro affluenti), la fauna sempre nuova e varia degli animali che incontrate, le “garças”, uccelli acquatici come i nostri aironi che volano maestosi, i “botos”, delfini d’acqua dolce che saltano dietro alla scia del barcone, i “jacaré” (caimani), i voraci “piranhas” e i molti pesci che si pescano dal barcone per mangiarli poco dopo. Foreste e fiumi, fiumi e foreste, panorami sempre diversi che rivelano la bellezza della natura.

     L’Amazzonia brasiliana, estesa 14 volte la nostra Italia, è un continente ancora quasi inesplorato. Perchè ricordo spesso questo viaggio? Perché l’uomo, che non ha ancora finito di esplorare l’universo creato, è chiamato a vivere un’altra avventura: l’esplorazione del mistero e dell’amore di Dio! Se è così appassionante l’esplorazione dei fiumi amazzonici che riservano sorprese ad ogni svolta, molto più l’amore di Dio, di Gesù Cristo che s’è fatto uomo per amarci e per salvarci. A volte dico a  me stesso: “Piero, la vita cristiana è sentire il desiderio di conoscere Dio, di amare Dio, di raggiungere la visione di DIO nel beato Paradiso”.

 

     Cari amici, noi tutti siamo orfani di Dio, la Quaresima è il tempo opportuno per conoscere Dio, con la preghiera, la mortificazione, la generosità per le opere di carità. Quanto più ci distacchiamo da noi stessi, tanto più ci avviciniamo a Dio e ci innamoriamo di Dio. Viviamo tutti una vita superficiale, il mondo moderno ci travolge con tutte le sue occasioni, informazioni, emergenze. Dobbiamo dare tempo a Dio, al suo amore, rinunziare a qualcosa per questa meravigliosa esplorazione dell’amore e del mistero di Dio, molto più avventurosa che esplorare la foresta amazzonica.

 

     2) La seconda riflessione è questa: Gesù incontra quella donna e si mette in una posizione di inferiorità, di umiltà, le chiede da bere, per poi portare il discorso sull’acqua della vita, sulla ricerca del volto di Dio. Io prete mi chiedo se la Chiesa che vuol evangelizzare l’umanità, cioè noi stessi che rappr4esentiamo la Chiesa, diamo ai non credenti questa immagine di umiltà, di ascolto, oppure l’immagine di sapere già tutto e di non aver bisogno di nient’altro.

      Anni fa in Sri Lanka, paese buddhista, ho chiesto ad un prete singalese se la Chiesa locale fa l’annunzio esplicito della salvezza in Cristo. Mi ha risposto: in questo paese l’annunzio di Cristo viene dopo. Prima dobbiamo farci accettare, metterci alla pari con gli altri, mostrare di aver bisogno degli altri. Ed è vero.

 

      Ma questo, cari amici, vale anche per noi come cristiani. Pensate a quante persone avviciniamo, che hanno bisogno di Dio, di Gesù Cristo. Dobbiamo uscire da noi stessi, interessarci all’altro, partecipare ai suoi problemi, alle sue sofferenze, non essere chiusi. Tutti siamo chiamati ad essere evangelizzatori, tutti possiamo dire una buona parola. La secolarizzazione ci impedisce di esprimere il sentimento religioso che tutti portano nel cuore. A Gesù è bastato un cenno sull’acqua spirituale, per toccare il cuore della donna. Anche noi dobbiamo essere capaci di dire una buona parola, richiamandoci alla fede, all’amore di Dio.

     Io come prete medito spesso quelle parole di Gesù: “Voi siete la luce del mondo, voi siete il lievito che deve fermentare la pasta”. Chissà quante persone hanno bisogno di Dio! Incontrando me che sono prete, da questo incontro può scoccare una scintilla che li porta a Dio, oppure un cattivo esempio che li allontana da Dio. Io prete, io cristiano conosciuto come tale, ho una responsabilità. Di dare buon esempio, di dire una buona parola. Signore, rendimi un’immagine credibile di Te.

                                                                                Piero Gheddo

Gheddafi dittatore controverso

 

 

                                                                                   

    La soluzione della guerra in Libia ormai pare chiara. Il paese rimarrà diviso in due fra Cirenaica “liberata” e Tripolitania ancora sotto il dominio di Muhammar Gheddafi, personaggio controverso, ma naturalmente amato dalle “kabile” (tribù) dell’ovest libico a cui appartiene. Consenso e opposizione a Gheddafi dipendono da schieramenti di tribù locali, nessuna delle quali esprime sentimenti democratici. Il vescovo di Tripoli, il francescano mons. Giovanni Martinelli, cittadino libico perchè nato in Libia da coloni italiani, intervistato martedì scorso al TG2, con tono angosciato ha lamentato i bombardamenti sulla Libia e ha aggiunto: “Fino a quando si vuol bombardare? Fin dove? Gheddafi non cede, questo è sicuro. C’erano in corso mediazioni fra gli avversari. Perché l’Italia non ha fatto lei questa mediazione?”.

    Dittatore dal 1969, Gheddafi all’inizio ha seguito Nasser nella linea anti-occidentale e anti-italiana, fino a finanziare il terrorismo di matrice islamica, le moschee e madrasse islamiche d’ispirazione estremista in tutto il mondo. Ha espulso dalla Libia i 25.000 italiani e altri che tenevano in piedi l’economia e i servizi pubblici, riducendo il suo popolo alla miseria. Nel 1986, Reagan bombardò le sei tende, all’interno di caserme, in una delle quali viveva il premier libico, che scampò per miracolo. Isolato fra Egitto e Tunisia filo-occidentali, capì che la linea rivoluzionaria era fallimentare, a poco a poco ha cambiato politica: ha continuato a fare discorsi rivoluzionari e anti-occidentali, ma in pratica, specie dopo che nel 1998 venne tolto l’embargo economico e nel 2004 l’embargo sulla vendita di armi alla Libia, ha iniziato un cammino di avvicinamento all’Occidente e, quel che più importa, di faticosa educazione del suo popolo con la scuola e al rispetto dei diritti dell’uomo e della donna. I proventi del petrolio li ha usati per sviluppare la Libia: strade, scuole, ospedali, università, case popolari a bassissimo prezzo, inizio di industrializzazione, sviluppo agricolo con l’acqua tirata su nel deserto ad una profondità di 800-1.000 metri! Due acquedotti (costruiti dai sud-coreani) portano l’acqua dal deserto alla costa, 900 km. a nord.

     Il regime di Gheddafi è sostenuto dalle tribù della Tripolitania, combattuto da quelle della Cirenaica, la regione che si è ribellata per prima e facilmente ha conquistato il potere a Bengasi e in altre città. Non è stata una rivolta causata dalla miseria, come quelle di Egitto e Tunisia, ma guidata da rivalità tribali e dall’oppressione di una dittatura che non lascia spazi di crescita politica e di coinvolgimento popolare nella guida del paese.

     Ma non possiamo dimenticare quel il dittatore ha fatto:  ha mandato le bambine a scuola e le ragazze all’Università, ha controllato e tenuto a freno l’estremismo islamico, ha abolito la poligamia e fatto leggi sul matrimonio favorevoli alla donna. Persegue in Libia una politica di libertà religiosa. I 100.000 cristiani (nessun libico, tutti stranieri), pur con molti limiti, godono di libertà di culto e di riunione. La Caritas libica è un organismo stimato e richiesto di interventi. Due fatti eccezionali. Nel 1986 ha scritto a Giovanni Paolo II chiedendo suore italiane per i suoi ospedali. Costruiva ospedali e dispensari, ma non aveva ancora infermiere libiche. La richiesta veniva dal buon esempio delle due  francescane infermiere italiane che hanno assistito il padre di Gheddafi fino alla morte. Oggi in Libia ci sono circa 80 suore cattoliche (soprattutto indiane e filippine, ma anche italiane) e 10.000 infermiere cattoliche filippine e indiane, oltre a molti medici filippini, indiani, libanesi, italiani. Il vescovo Martinelli mi diceva: “La presenza di queste donne cristiane, professionalmente preparate, gentili, attente alle necessità del malato che curano con amore, stanno cambiando l’immagine del cristianesimo fra i musulmani”.

     Secondo fatto. Sono stato nel deserto a 900-1000 km. da Tripoli, dove sta fiorendo una regione ex-desertica per l’acqua tirata su dalle profondità della terra. Un lago di 35 km. di lunghezza e campagne coltivate e cittadine, dove vent’anni fa non c’era nulla. La città di Sebha capitale della regione ha 80.000 abitanti, dove vive un sacerdote medico italiano, don Giovanni Bressan (di Padova) che è stato uno dei fondatori dell’ospedale centrale. Don Bressan ha riunito i molti africani profughi dai paesi a sud del deserto (Nigeria, Camerun, Ciad, ecc.) fondando per essi una parrocchia, una scuola, un centro di riunioni e di gioco. Gli africani lavorano e sono pagati, per tre o più anni rimangono nel sud, poi hanno soldi a sufficienza per tentare il passaggio in Italia! Fanno tutti i lavori e sono ammirati perché lavoratori onesti e forti. Don Vanni (Giovanni) riesce a fermare alcune famiglie, le altre vogliono venire in Italia, in Europa. Il cammino della Libia verso la piena integrazione nel mondo moderno e nella Carta dei diritti dell’uomo e della donna, era cominciato. Non difendo Gheddafi e la sua dittatura, credo però di poter testimoniare anche aspetti del suo operato, del tutto ignorati in questi giorni.  

                                                                                        

                                                                                    Piero Gheddo

 

I missionari e l'Italia unita

 

 

     Le celebrazioni per i 150 anni dell’unità d’Italia sono state, anche per i circa 15.000 missionari italiani sparsi per il mondo, un momento forte per sentirci di “appartenere ad un popolo, di avere una storia e un destino comune, di non essere civilmente orfani”, come ha detto il card. Angelo Bagnasco nell’omelia alla Basilica di Santa Maria degli Angeli a Roma, dinnanzi alle massime autorità dello stato e del governo italiano.

     Montanelli ha definito i missionari “i più credibili rappresentanti dell’Italia in ogni paese del mondo” e nella ricorrenza dei 150 anni non possiamo dimenticare, proprio negli anni del Risorgimento italiano, la nascita del movimento missionario in Italia, simboleggiata dai quattro Istituti missionari italiani; il Pime (1850), i Comboniani (1867), i Saveriani (1898) e i missionari della Consolata (1901), con le loro congregazioni femminili, le riviste missionarie, le Pontificie opere missionarie, l’unione missionaria del Clero (1916) e, nell’ultimo dopoguerra, il volontariato cattolico internazionale, i sacerdoti “Fidei Donum” e tutte le altre iniziative che portano il nome di Cristo ai popoli e rappresentano degnamente l’Italia unita nel mondo. Nella vita missionaria sul campo, nessuno più ricorda la provenienza dal nord o dal sud Italia, tutti ci sentiamo italiani e nient’altro.

    Ho incontrato missionari e suore italiani nei luoghi in cui Cristo è ancora in viaggio, alle frontiere del Vangelo dove nasce la Chiesa e la carità cristiana è il miracolo quotidiano che commuove e converte i cuori: in Swaziland, Namibia, Costa dei Somali, Mali, Somalia, Eritrea, Ciad, Sudan, Papua Nuova Guinea, Laos e Cambogia, Borneo e Timor Est e tanti altri paesi anche i più piccoli e poveri, nei quali nessun italiano va come turista, come Haiti e Bangladesh.

     I missionari sentono fortemente l’appartenenza alla patria italiana, ne ascoltano la radio e pregano per il nostro popolo. Sulla scena del mondo globalizzati, essi rappresentano al meglio i valori profondi di solidarietà e gratuità così radicati nella nostra terra e nella nostra storia. Nelle celebrazioni di questa ricorrenza patriottica, si sono giustamente ricordati i milioni di migranti italiani: come non ricordare i missionari che continuano ancor oggi, ogni anno, a dare la vita per i popoli di cui sono diventati fratelli e sorelle, fino ad essere ricordati come “padri della patria” in terre lontane?

     Ne ricordo due soli, eroi ignorati in patria, ma ricordati e ancora celebrati nei loro paesi d’adozione. Due esempi su migliaia di altri. Il vescovo di Bissau, il francescano veronese mons. Settimio Ferrazzetta (1924-1999), pregato come autentico “Padre della Patria” in Guinea Bissau. Durante la guerra civile del 1998 era ammalato di cuore in Italia, ma capiva che poteva ancora influire sui due protagonisti della guerra, il presidente Nino e il capo delle forze armate Ansumane Mané. Nonostante il parere contrario dei medici, il vescovo Settimio è tornato in Guinea Bissau ed è riuscito ad incontrare i due contendenti attraversando anche un fiume in secca, con la melma che gli arrivava al ginocchio, sostenuto da due giovanotti neri. Una grande fatica che il suo cuore non ha più sopportato ed è morto in Guinea dopo aver riportato la pace nel paese. Ha dato davvero la vita per il popolo guineano, tutti  lo sanno! Il presidente Nino ha poi consegnato una medaglia d’oro al fratello del vescovo Settimio, nominato “Padre della Patria”.

     Il secondo caso è quello di padre Clemente Vismara (1897-1988), che se Dio vuole sarà beatificato il giugno prossimo nel Duomo di Milano: 65 anni di missione in Birmania (Myanmar), missionario simbolico del riscatto dei tribali birmani, le etnie minoritarie sempre disprezzate e oppresse. La missione li ha elevati con la scuola e il Vangelo e tante altre opere sanitarie e di sviluppo. Clemente Vismara, eroe della prima guerra mondiale con tre medaglie al valore guadagnate sul campo, quando compiva i 60 anni in Myanmar la Conferenza episcopale l’ha nominato “Patriarca della Birmania” e come tale è ancora venerato e pregato. Sarà anche il primo Beato di quel bellissimo paese ancora in attesa di essere liberato dalla dittatura.

                                                                                  Piero Gheddo                                                                

                                                                                                                                                      

I musulmani che pregano per strada

 

 

     Leggo su “Asia News” un notizia sorprendente (15 marzo). In Francia un’organizzazione islamica ha chiesto alla Chiesa francese di poter pregare nelle chiese non utilizzate. In Francia i musulmani sono circa quattro milioni (alcuni dicono cinque) e ormai da molti anni per la preghiera del venerdì occupano le strade di varie città bloccando il traffico. Occupazione illegale che il governo finora tollera, ma che suscita nei francesi un forte sentimento anti-islamico. La Chiesa francese non ha ancora risposto, ma Asia News ha chiesto il parere al padre Samir Khalil Samir, che è assolutamente negativo.

     Anche in Italia i nostri musulmani (da un milione a uno e mezzo) hanno preso questa abitudine ed è interessante conoscere cosa ne pensa il gesuita egiziano (professore all’Università cattolica di Beirut). Sintetizzo per gli amici lettori il suo lungo articolo, che si sviluppa in tre punti:

       1)  La causa della richiesta è la mancanza di spazio nelle moschee, che  a Parigi sono 75 e assolutamente non bastano. Ma anche col doppio di spazio non basterebbero. Sta alla comunità musulmana risolvere il problema. Lo Stato e la Chiesa non c’entrano. Se non si vogliono suscitare reazioni negative nei francesi, bisogna riconsiderare anche la pratica piuttosto generalizzata dei sindaci di concedere dei terreni in enfiteusi (il più sovente per un euro all’anno) per la costruzione delle moschee, che poi vengono costruite con aiuti dall’estero.

      2)  Secondo problema: bloccare le strade (in genere vicino alle moschee) per la preghiera e deviare il traffico. In Francia, questa situazione è riconosciuta come totalmente inaccettabile da tutte le persone ragionevoli, indipendentemente dal principio di laicità. Lo diventa ancora di più se si tiene conto del fatto che questa eccezione non ha più nulla di eccezionale, dal momento che si ripete ogni venerdì.  E dal momento che non si applica che a una religione precisa, l’islam. L’impressione di molti è che si tratti di una “invasione” di territorio, una specie di “conquista” del territorio nazionale da parte dei “musulmani”. Non ci sono motivi per giustificare queste occupazioni. I musulmani sono in parte responsabili dell’islamofobia che tende ad allargarsi in tutta l’Europa. E sta ai musulmani stessi risolvere il problema.

La stessa cosa avviene non solo in Francia, ma anche nei paesi islamici, il venerdì a mezzogiorno quando è l’ora della preghiera. Il problema non è solo dell’Occidente, ma dell’islam. Se i cristiani dovessero riunirsi tutti a mezzogiorno di domenica per pregare, le strade delle città sarebbero completamente bloccate. Nessuna chiesa potrebbe contenerli. Ma la Chiesa ha istituito anche la S. Messa del sabato sera, valida per la celebrazione della domenica, quando di S. Messe ce ne sono molte. E’ un problema interno alla comunità, che, se è viva, deve trovare delle soluzioni  per adattarsi al mondo, e non chiedere al mondo di adattarsi a lei!

     3)  Mettere a disposizione le chiese vuote per le preghiere del venerdì. Proposta sorprendente. Le “chiese vuote” sono luoghi consacrati e non verrebbe in mente a un cristiano di utilizzarli per qualche cosa che non siano le funzioni sacre, o per la musica sacra – un’eccezione sempre possibile. Impensabile utilizzarle per celebrare un culto non cristiano. Inoltre, queste “chiese vuote” non sono destinate a restare vuote, ma al contrario a essere occupate non appena possibile da una comunità cristiana o da una comunità monastica, come accade sempre di più ovunque in Europa. Ora sembra difficile che un tale locale, una volta trasformato più o meno in moschea, possa essere “ripreso” e trasformato di nuovo in chiesa. Immaginiamo pr un attimo il contrario. Se in un Paese musulmano (l’Egitto o l’Algeria, per esempio) i cristiani autoctoni (in Egitto) o emigrati (in Algeria) chiedessero ai musulmani di cedere loro una moschea, dal momento che ne hanno tante, o di prestarla per la domenica, o solamente per le grandi feste cristiane: quale sarebbe la reazione dei musulmani?

      Padre Samir conclude dicendo che in Europa deve stabilirsi fra cristiani e musulmani un rapporto basato sulla cooperazione, l’amicizia e la stima reciproca. Le due comunità religiose debbono fare dei passi in questa direzione. L’islam però, pone un problema all’Europa: non è vissuto semplicemente come una religione, ma anche come una cultura e una politica che penetrano in tutti i settori della vita quotidiana. Di conseguenza, ci può essere un conflitto di culture. L’Europa ha lavorato, per secoli, a separare religione e società, e tutto è segnato da una cultura cristiana secolarizzata. La comunità musulmana deve fare uno sforzo serio per accettare che il fenomeno religioso resti, per quanto è possibile, un affare privato. Più l’islam andrà in questa direzione, meno opposizioni troverà. Il che non significa affatto essere meno musulmani, ma esserlo in maniera diversa, più interiore. E poi aggiunge che il grosso sforzo da fare è nella formazione di imam francesi, che siano integrati nella cultura e nella mentalità francese, (o più largamente europea). Fino a che l’islam sarà culturalmente “arabo”, finché i musulmani pensano che per essere un vero musulmano bisogna riavvicinarsi alla cultura araba originaria, ci sarà malessere. Questa è la vocazione dei musulmani europei: creare un’interpretazione occidentale (francese, europea…) dell’islam, che armonizzi la fede e la spiritualità musulmane con la modernità occidentale, e cioè con la laicità e i diritti dell’uomo.

 

                                                                                                            Piero Gheddo

Kushpur il villaggio del martire Shahbaz Bhatti

 

                  

       Dopo l’uccisione del governatore del  Punjab, Salman Tasser, nel gennaio scorso, il 2 marzo scorso è stato ucciso a Islamabad, capitale del Pakistan, il ministro (da tre anni) per le minoranze religiose, il cattolico Shahbaz Bhatti, 43 anni, ambedue impegnati per abolire la “legge contro la bestemmia”, che ha portato alla condanna a  morte di Asia Bibi, una giovane mamma cattolica, per aver offeso il profeta Maometto. Ma ormai è assodato che con quella legge qualunque cristiano (o indù) che dà fastidio può essere condannato a morte se due testimoni confermano l’accusa pretestuosa.

      La stampa di tutto il mondo ha dato risalto a queste due uccisioni e le pressioni esercitate sul governo pakistano per abolire la legge assassina si sono moltiplicate. Ma ormai è chiaro a tutti che “chi tocca la legge antiblasfemia muore”. Il Pakistan  si merita la definizione di “stato canaglia”, poiché la persecuzione contro i cristiani non è un problema di oggi. Quando sono stato in Pakistan nel 1982, avevo visto in due città (Islamabad e Karachi) gruppi di famiglie cristiane che abitavano in baracche e casupole di periferia mandate via senza alcun risarcimento, che si erano rifugiate nella cattedrale cattolica e nei cortili del centro cattolico in città. E mi dicevano che questo non riguardava tutti gli abitanti di una certa periferia, ma solo quelli del quartiere cristiano.

     Negli ambienti rurali, i rapporti fra musulmani e cristiano non erano ancora conflittuali, ma c’erano già i segni perché lo diventassero. Sono stato alcuni giorni a Kushpur, il paese natale di Shahbaz Bhatti. Quella visita mi ha impressionato e l’ho sempre ricordata perché mi aveva fatto capire da dove nasce, anche a livello di popolo, lo spirito anti-cristiano che ha portato alla legge contro la bestemmia. Kushpur si trova nella pianura del Punjab, tra Lahore e Faisalabad, un paese del tutto cattolico con 5.000 abitanti, fondato dai missionari cappuccini belgi che all’inizio del Novecento avevano comperato un vasto territorio forestale per raccogliere le famiglie cristiane disperse nel mare islamico circostante. Da Kushpur ha origine, nei tempi moderni, la cristianità pakistana attuale, cioè cristiani poveri e paria della società, venuti a disboscare la foreste e farsi il proprio villaggio, che poi si diffondono in tutto il paese.

     Nel 1982 la differenza tra Kuspur e i villaggi musulmani vicini era scioccante per vari motivi: la pulizia delle strade e delle case, la libertà delle donne che sorridono, si fermano, parlano, si lasciano persino fotografare (questo era considerato un crimine altrove), la vivacità dei ragazzi e ragazze nel gioco, l’unità delle famiglie (rigorosamente monogamiche) che ha permesso la fondazione di organismi cooperativistici per lo scavo dei pozzi, la canalizzazione dell’acqua, l’acquisto di trattori e altre macchine agricole, la commercializzazione dei prodotti delle terre, ecc. Soprattutto la presenza in Kushpur delle scuole anche medie. Nei villaggi musulmani vicini e lontani (ne ho visitati alcuni in varie regioni) era tutto il contrario di quanto ho detto. Le donne ad esempio, non si vedevano per le strade, la sporcizia regnava sovrana, ecc. Un missionario domenicano toscano, padre Schiavone incontrato a Faisalabad, mi diceva: “Kushpur, che in lingua punjabi significa “villaggio della felicità”, con la sua tradizione ed educazione cristiana, è un esempio concreto e ben visibile della differenza cha passa tra cristianesimo e islam e questo dà fastidio a molti”.

     Sempre a Khushpur, il parroco locale don Anthony Rufin, mi diceva: “La fama che hanno i nostri cristiani presso i musulmani è di essere gente di cui ci si può fidare perché sono onesti. A Kushpur siamo riusciti a creare un certo benessere diffuso, a livello pakistano, ma negli altri villaggi ci sono casi di vera miseria e molti altri di pura sopravivenza. Nei villaggi islamici ci sono tante lotte e tante divisioni, clan familiari, invidie, vendette”. E raccontava che venivano anche da lontano gruppi di musulmani a vedere il villaggio cattolico, si scandalizzavano per le donne non velate e sorridenti, le ragazze che andavano a scuola e dicevano agli uomini che lavoravano la terra: “Ma voi, siete così stupidi che lavorate quando avete la moglie e i figli? Sono loco che debbono lavorare per voi”. A Kushpur le donne avevano una loro cooperativa (“Santa Caterina da Siena”), che si interessava di problemi femminili e dell’infanzia prendendo iniziative. Tutto questo, e molto altro, può far capire  perché i cristiani, in Pakistan come in altri paesi islamici, danno fastidio.

                                                                                         Piero Gheddo

Afghanistan: perchè dobbiamo restare

 

 

     Il tenente alpino Massimo Ranzani è la 37sima vittima del terrorismo talebano, morto anche lui per sottrarre il popolo afghano dal regime dei “talebani”, che governerebbe di nuovo il paese se le forze della Nato si ritirassero. Leggo che l’Afghanistan sta diventando a poco a poco il nuovo Vietnam per le forze alleate occidentali, come il primo lo è stato (1963-1975) per i militari americani e di altri 32 paesi loro alleati in quella guerra. Avendo vissuto il primo Vietnam come giornalista ospite della Chiesa vietnamita, credo fra le due situazioni di guerra ci siano alcune  somiglianze,ma anche forti differenze. Sembrano simili perché anche i vietcong e i nord-vietnamiti tenevano in scacco il potente esercito americano con il terrorismo, come fanno oggi i talebani. Per il resto, tutto era ed è diverso. I comunisti vietnamiti avevano alle spalle Cina e Urss (e gran parte della stampa e dell’opinione pubblica in Occidente), che li sostenevano con armi e politicamente, come “guerra di liberazione” del Vietnam dallo straniero. Gli Stati Uniti intervennero militarmente nell’ottobre 1973 per volere del presidente Kennedy, dietro richiesta del legittimo governo sud-vietnamita (riconosciuto anche dal Vietnam del nord), per ostacolare la diffusione dei regimi comunisti nel mondo. Ma il ritiro americano nel marzo 1973 non ebbe alcun esito positivo per il Vietnam, perché aprì la porta alla dittatura comunista di tipo staliniano, che provocò la fuga di circa due milioni di “boat people” negli anni 1975-1984.

      La stessa sorte capiterebbe agli afghani se la Nato si ritirasse dall’Afghanistan. I talebani tornerebbero al potere per rifare del loro paese la centrale del “terrorismo di matrice islamica”. E poi, in Afghanistan le forze della Nato sono più favorite per una soluzione positiva di quelle Usa in Vietnam, per tre motivi. Primo, i talebani ricevono aiuti molto inferiori a quelli che Urss e Cina potevano dare ai comunisti vietnamiti; secondo, in campo internazionale nessuno appoggia apertamente i talebani, anzi Onu e governi di tutto il mondo, o almeno del mondo libero, li condannano; terzo, proprio in questi mesi le rivolte di giovani e di popolo in 15 paesi del Nord Africa e del Medio Oriente stanno cambiando l’islam e anche i governi fondamentalisti (Iran e Arabia Saudita) sono costretti a fare i conti con i loro popoli che non tollerano più l’islam politico.

    Però, si dice, la nostra Costituzione recita all’Art. 11: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. E’ vero che la Nato è andata in Afghanistan per portare la pace e aiutare il popolo a liberarsi da un governo talebano (già sperimentato). Però stanno rispondendo al nemico in una vera guerra.

     Cosa dire? Ritrovo un articolo del card. Joseph Ratzinger su “Vita e Pensiero” del settembre 2004, intitolato: “L’Occidente, l’islam e i fondamenti della pace”. Anzitutto ricorda che quando il 5 giugno 1944, “iniziò lo sbarco delle truppe alleate nella Francia occupata dalla Wermacht, l’evento rappresentò per il mondo intero, compresa una gran parte dei tedeschi, un segnale di speranza che in Europa presto sarebbero arrivate la pace e la libertà… Se mai si trova nella storia un bellum justum (guerra giusta), è qui che lo troviamo”.

     Subito dopo, il futuro Papa afferma “l’insostenibilità di un pacifismo assoluto” e si pone “con molto rigore… la domanda se oggi sia ancora possibile, e a quali condizioni, qualcosa di simile ad una guerra giusta, vale a dire un intervento militare posto al servizio della pace e, guidato dai suoi criteri morali, contro i regimi ingiusti. La pace e il diritto, la pace e la giustizia sono inseparabilmente connessi. Quando il diritto è distrutto, quando l’ingiustizia prende il potere, la pace è sempre minacciata ed è già, almeno in parte, compromessa”.

     Poi si riferisce alla situazione attuale: “Non è possibile  venire a capo del terrore, cioè della forza opposta al diritto e separata dalla morale, con il solo mezzo della forza. Certamente la difesa del diritto può e deve, in alcune circostanze, far ricorso a una forza commisurata. Un pacifismo assoluto, che neghi al diritto l’uso di qualunque mezzo coercitivo, si risolverebbe in una capitolazione davanti all’iniquità, ne sanzionerebbe la presa del potere e abbandonerebbe il mondo al diktat della violenza”.

                                                                        Piero Gheddo