I tre "valori irrinunziabili" dei cattolici

 

      Mercoledì scorso 25 maggio ricevo  questa posta elettronica firmata:

“Sono parroco nell’hinterland milanese e ho letto con amarezza e sconcerto la tua intervista a “il sussidiario.net”. Ne ho parlato anche con altri confratelli e non ci spieghiamo questa tua caduta di stile, nonché l’appoggio a quella linea che tutta la Chiesa finalmente sta a poco a poco scaricando e criticando. Davvero senza parole, ci dispiace. Ti conoscevamo per una persona che, mettendosi in gioco e pagando anche personalmente, facevi ben altre battaglie rispetto a questa di appoggiare una parte politica che ultimamente ha calpestato il Vangelo in molti modi. Sinceramente: inspiegabile. E conoscendoti, non vogliamo ipotizzare altro”. Poi ho ricevuto alcune altre lamentele dello stesso tenore.

     Ho subito risposto: “Caro confratello,   grazie della lettera, ma sinceramente non capisco l’amarezza e lo sconcerto. Mi hanno chiesto con quali criteri andare a votare e ho ripetuto quanto hanno detto il Papa e la Cei più volte: il criterio base e decisivo dev’essere misurato sui princìpi irrinunciabili( o “valori non negoziabili”), la difesa della vita dalla nascita alla morte (aborto ed eutanasia soprattutto), la difesa del matrimonio monogamico tra uomo e donna (cioè la condanna del riconoscimento giuridico del matrimonio tra omosessuali e delle coppie di conviventi), la difesa del diritto della famiglia di scegliere come educare i propri figli (quindi la parità tra scuola pubblica e scuola privata paritaria)

      Credo che su queste cose siamo d’accordo o no? Nota che sono princìpi irrinunciabili non solo per i cattolici italiani ma di tutto il mondo. Tu ricordi le grandi manifestazioni dei cattolici spagnoli, con vescovi e cardinali in prima fila, contro le leggi varate da Zapatero sull’aborto, il riconoscimento giuridico del matrimonio tra i gay e le coppie di fatto, il “divorzio breve”(in 15 giorni), l’eutanasia?  Perché poi la Chiesa abbia preso questa posizione, non oggi ma da sempre (ricordi la Humanae Vitae di Paolo VI condannata anche da molti cattolici nel 1968?), è stato più volte spiegato da Papa Benedetto. La crisi dell’Occidente cristiano è anzitutto una “crisi antropologica”: cioè si perde il concetto di uomo creato da Dio, si vuole manipolare il Dna dell’uomo, si vuole creare l’uomo sano e senza difetti fisici, si distrugge il matrimonio e la famiglia monogamica, ecc. E questo porta alla barbarie, l’uomo padrone di se stesso, l’uomo che manipola la natura dell’uomo creato da Dio, ecc.

     Caro don, ho detto solo questo e ho escluso di voler scegliere una parte politica contro l’altra. Non è colpa mia se una parte sostiene questi criteri e l’altra vi si oppone con nuove leggi e nuovi programmi di governo anche comunale. Ogni votazione è sempre la scelta del meno peggio. Un nuovo De Gasperi ce lo sognamo!!! E’ vero che ci sono molti altri criteri di giudizio per le votazioni, ma credo che quelli “irrinunziabili” siano quelli indicati dalla Chiesa. Mi scuso di questa lunga risposta e mi spiace dare un’idea sbagliata di me stesso. Ho sempre sostenuto quello che dice la Chiesa, anche quando andava contro corrente, ad esempio la Humanae Vitae e nei casi di Vietnam e altri simili. Ma la storia ha poi dimostrato che Paolo Vi aveva ragione e non solo in quel caso! Ti saluto cordialmente, ricordiamoci nelle preghiere, è molto più quello che ci unisce di quello che, eventualmente, ci divide! Tuo padre Piero Gheddo.

 

       Ecco il testo della mia intervista al quotidiano on line “ilsussidiario.net” (poi ripresa da “Il Giornale”):    

Nella scelta su chi votare, per il cattolico il criterio non è la simpatia personale, ma le proposte che vengono portate avanti dai candidati sui temi che la Chiesa oggi ritiene decisivi, in Italia come in tutto il mondo.

A cosa si riferisce?

Parlo di quei “valori  non negoziabili” indicati più volte da Papa Benedetto XVI e dalla Conferenza Episcopale Italiana come prioritari: la difesa della vita dal concepimento fino alla morte naturale, la difesa della famiglia e del matrimonio tra uomo e donna, la difesa della libertà di educazione e della libertà religiosa. Non sono temi che la Chiesa sceglie a caso, c’è una ragione precisa.

Quale?
L’Occidente cristiano sta attraversando una “crisi antropologica” che riguarda lo stesso concetto di uomo. Se ci si dimentica infatti che l’uomo è una creatura di Dio si può arrivare fino a mettere le mani sulla vita e sulla morte, scivolando verso quella barbarie inseguita da Hitler e da altri come lui. È questo il punto più importante, tutto il resto, anche se condivisibile, viene dopo.

Cosa intende dire?

 



L’ingiustizia sociale non è stata di certo sconfitta, se però chi si batte per questo sostiene l’aborto, l’eutanasia e l’equiparazione delle coppie gay o delle coppie conviventi al matrimonio tra uomo e donna, non andiamo più d’accordo. Da cattolico non potrei mai votare infatti per un candidato che porti avanti queste idee, anche se ha in mente molti  progetti meritevoli. La libertà di educare, poi, non è certo un tema minore. Le famiglie devono poter scegliere alla pari tra scuole paritarie e scuole pubbliche, come già avviene in Lombardia nel campo sanitario. Tra l’altro, grazie alle private paritarie, anche se nessuno lo dice, lo Stato risparmia parecchi miliardi di euro l’anno. Non è allo Stato, o al Comune, che spetta la regia di tutto, ma il controllo, per evitare che qualcuno faccia il furbo. Il primato resta quello dell’individuo e della famiglia, come dice la Dottrina sociale cattolica.
                                                                                         Piero Gheddo

Rosetta e Giovanni: mancano i documenti

 

     Per i lettori di questo Blog che non ricevono il bollettino degli “Amici di Rosetta e Giovanni”, pubblico questa lettera che abbiano scritto, mons. Tonino  Guasco e il sottoscritto per informare sullo stato della causa di beatificazione dei miei genitori. Chi desidera ricevere in omaggio il bollettino, mi scriva e glie lo farò mandare dalla diocesi di Vercelli che lo pubblica.

 

     Cari amici di Rosetta e Giovanni, dobbiamo darvi una notizia che può sembrare negativa ma che, ricevuta e letta con fede, ha anche aspetti positivi. La Congregazione dei Santi non ha giudicato sufficienti i documenti inviati dal Tribunale diocesano di Vercelli sull’eroicità delle virtù dei due Servi di Dio Rosetta Franzi e Giovanni Gheddo e sulla loro fama di santità, scritti durante le loro vita e subito dopo la loro morte. La Causa di Beatificazione non può andare avanti, non perché ci siano fatti contrari alle virtù dei due coniugi, ma semplicemente perché la documentazione scritta al tempo dei due coniugi, che è stata raccolta, è insufficiente.

     Però Rosetta e Giovanni, come “Servi di Dio”, possono essere pregati, imitati, venerati e naturalmente imitati. Quindi la nostra “Lettera agli Amici di Rosetta e Giovanni” continua le sue pubblicazioni, perché l’arcivescovo di Vercelli, mons. Enrico Masseroni, la giudica “un ottimo strumento di pastorale familiare, di cui oggi c’è un gran bisogno nella nostra Italia. I tuoi genitori, già così come Servi di Dio, sono di grande esempio per le nostre famiglie”. Anche il card. Ennio Antonelli, Presidente del “Pontificio Consiglio per la Famiglia Giovanni Paolo II”, espressamente interrogato sulla situazione che si è creata, ha esortato a continuare a presentare Rosetta e Giovanni con la “Lettera agli Amici”, esprimendo il suo consenso e compiacimento a questo nostro bollettino.

 

     Perché la documentazione presentata è insufficiente? Perchè quando una Causa di Beatificazione inizia più di 30 anni dopo la morte del Servo o dei Servi di Dio, le testimonianze orali sulla loro fama di santità e sulle loro virtù (come quelle raccolte dal Tribunale diocesano di Vercelli) sono importanti, ma debbono essere sostenute da un certo numero di documenti scritti nel tempo delle loro vite o subito dopo la  loro morte, sulle loro “virtù eroiche” e sulla “fama di santità”. Di Giovanni Gheddo esistono le sue lettere dalla Russia ai figli ma non bastano ancora; di mamma Rosetta non ci sono documenti scritti dei suoi tempi sulle sue virtù eroiche e sulla fama di santità.   

    D’altra parte, Rosetta Franzi è morta nel 1934 a quasi 32 anni, con tre bambini piccoli (5, 4 e 3 anni), due aborti spontanei e la santa morte per polmonite e per parto di due gemelli immaturi di sette mesi, morti con lei. Cosa poteva scrivere una giovane mammina come lei? O forse può anche aver scritto, ma a distanza di così tanto tempo non si è conservato nulla, anche perché a quei tempi non veniva in mente a nessuno di poter iniziare una causa di beatificazione di due coniugi di paese, pur ritenuti santi da quanti oggi ricordano e sono stati interrogati per il Tribunale diocesano. Ma il ricordo, in persone sopra gli 80 anni, non basta! Ci vorrebbero prove scritte nei loro tempi, che non ci sono o non si trovano.

     La “fama di santità” di Rosetta e Giovanni, oggi esiste e lo dimostrano le lettere che pubblichiamo su questo bollettino, che mandiamo in omaggio esattamente a 8.750 indirizzi di amici devoti, le numerose visite alla tomba di Rosetta nel Cimitero di Tronzano vercellese e le conferenze che si tengono specialmente in parrocchie sui due coniugi dell’Azione Cattolica. Ma è una fama di santità nata dopo la pubblicazione dei volumi e del DVD su Rosetta e Giovanni, cioè dal 2003 ad oggi.     

     Non c’è documentazione scritta che questa “fama di santità” esistesse già prima. Io ricordo molto bene che quand’ero giovane sacerdote i tronzanesi adulti, come anche vari preti della diocesi e il vescovo ausiliare di Vercelli mons. Giovanni Picco, mi dicevano e ripetevano che mamma e papà erano dei santi! Anzi mons, Picco, che era stato assistente diocesano dell’Azione cattolica, due volte mi aveva esortato a raccogliere testimonianze sulla santità di Rosetta e Giovanni. Cosa che io, giovane sacerdote tutto proteso verso le missioni, non avevo fatto, anche perché non ne capivo il motivo. Che fossero stati dei santi lo sapevano e lo dicevano tutti! Ma, ripeto, il ricordo non solo mio ma di parecchi altri, non basta. E poi, nel trasloco dei miei fratelli con zia Adelaide, dopo la morte della nonna Anna, da Tronzano a Torino (ottobre 1949) si sono perse quasi tutte le carte di famiglia, tra le quali ricordo bene il diario di papà (scritto a matita, ma allora non c’erano le penne biro!) e le lettere tra Rosetta e Giovanni da fidanzati. Non importa. Accettiamo con fede le regole che la Chiesa, nella sua saggezza ed esperienza secolari, si è data e continuiamo a pregare ed a testimoniare la nostra devozione e le grazie ricevute. 

    Cari Amici di Rosetta e Giovanni, l’arcivescovo di Vercelli incoraggia a continuare con il nostro bollettino e noi prendiamo questa difficoltà come una prova che il Signore ci manda. Una cara amica suora di clausura, che mi ha chiesto notizie e le ho spiegato la situazione, mi ha detto: “Non si preoccupi, il Signore può fare tutto quel che vuole. Continuiamo a pregare e far pregare, il Signore ci penserà Lui a far andare avanti la Causa”. Gesù dice ai suoi discepoli (Marco, 10, 27): “Per gli uomini è una cosa impossibile, ma per Dio no. Tutto è possibile a Dio”.

     Anche perchè Rosetta e Giovanni, essendo “servi di Dio”, cioè riconosciuti di virtù eroiche dall’arcivescovo di Vercelli e dal suo Tribunale diocesano, già possono essere pregati, venerati, imitati, fatti conoscere. Quindi continuiamo sperando nel Signore, che può fare tutto quel che vuole!

 

         Mons. Tonino Guasco,                                                   Padre Piero Gheddo,

   Attore della Causa di Beatificazione                           figlio di Rosetta e Giovanni

   di Rosetta Franzi e Giovanni Gheddo                               e missionario del Pime

                                       

 

 

 

 

 

 

Le care amiche suore di clausura

 

    Come forse i lettori sanno, dal 1980 mando in omaggio tutti i miei libri (e anche altri del Pime) ai conventi delle suore di clausura in Italia (550 all’inizio, 530 oggi), accompagnando l’invio con una lunga lettera in cui rifletto sul tema missionario e chiedo preghiere per i missionari, quelle giovani  Chiese e i loro popoli. Quand’ero direttore di ”Mondo e Missione” mandavo pure la rivista che dirigevo, cercando e trovando i benefattori che coprivano le spese. Poi ho sperimentato che la Provvidenza manda tutto il necessario e più del necessario. Mi hanno invitato e ho visitato decine e decine di conventi di clausura, in alcuni più vicini torno spesso e il Signore mi da la consolazione di vedere quanto bene fa la lettura di libri e di una rivista dei missionari. Ricevo parecchie lettere dalle suore di clausura, che mi dimostrano come il bene seminato nella nostra vita, anche se non lo vediamo, con l’aiuto dello Spirito Santo porta sempre i suoi frutti. Ecco la lettera che ho ricevuto pochi giorni fa con gli auguri di Pasqua dalle suore della Visitazione di Treia (Macerata), che non ho mai potuto visitare. La riporto per stimolare nei lettori l’amore e l’aiuto alle care sorelle di clausura che con i loro sacrifici e le loro preghiere sostengono la Chiesa e tutti noi:

    “Carissimo padre, grazie del suo ultimo libro su padre Augusto  Colombo l’apostolo dei paria in India e della sua commovente lettera scritta mesi fa… Siamo rimaste solo in cinque e lei immagina tutto il da fare, insieme all’osservanza della Regola, alla celebrazione quotidiana dell’Ufficio divino, delle ore di orazione e riunioni comunitarie. Vogliamo però dirle quanto ci fa piacere ricevere le sue care lettere e ancor più le straordinarie vite dei missionari del PIME, che ci sono di sprone alla santità e alla preghiera. La storia di ogni missionario ci commuove e ci induce a meditare quanto zelo e amore di Dio e al loro popolo anima questi eroici seguaci di Cristo dimentichi di se stessi.

     “Caro padre Gheddo, lei ora è a Milano, ma a noi sembra di averla sempre vicino come una persona di famiglia, un caro fratello. Se possiamo godere del beneficio di queste letture, lo dobbiamo a lei, che non ci ha mai dimenticate, pur non essendoci mai incontrati. Anche nelle sue lettere, lei parla sempre di Dio e di persone che hanno amato Dio e la nostra vita è consacrata a questo Amore e alla preghiera per tutti i popoli. Le mandiamo il nostro grazie più profondo e affettuoso”.

 

                                                     Le Sorelle della Visitazione di Treia (Macerata)

 

La folle e scandalosa guerra contro la Libia

               

   

     Il silenzio della stampa e delle Tv italiane sulle denunzie e le proposte del vescovo di Tripoli, mons. Giovanni Martinelli, mi stupisce e scandalizza, perché sono stato in Libia nel 2007 e conosco Martinelli, nato in Libia da coloni italiani, vescovo da quarant’anni. Eppure lui parla e nessuno o pochissimi li ascoltano. Seguendo gli appelli del Papa per la pace in Libia (anche il giorno di Pasqua) da settimane e da mesi su “Asia News” e alla Radio Vaticana, il vescovo di Tripoli alza la voce e denunzia una guerra senza scopo che esaspera i conflitti, aumenta l’odio e la violenza, prepara un futuro certamente peggiore per tutti i libici. Tre giorni fa ha dichiarato: “Aprire al dialogo con tutte le parti è la cosa migliore da fare. Le bombe della Nato non servono a nulla e occorre considerare tutte le parti in campo, non solo i ribelli” ed ha chiesto “di offrire l’ipotesi di un dialogo fra la parti e la fine delle ostilità”. Ancora ieri il vescovo ha proposto “la tregua di una settimana, per rispetto della vita umana, della famiglia e della Libia. È  un atto di umanità e i libici sono sensibili a questi gesti, nonostante la rabbia provocata dalla guerra” ; e invitava i membri del “Gruppo di contatto” (riunito a Roma) “a considerare la possibilità di un governo di transizione presieduto anche da membri del regime, per evitare che si diffondano odio e diffidenza fra la popolazione”.

      Insomma, nonostante gli appelli di Benedetto XVI e le angosciate parole del vescovo di Tripoli, quello che era un “intervento umanitario” per salvare i libici dalle violenze di Gheddafi è ormai diventato una guerra, nella quale l’Occidente si è  schierato con la Cirenaica contro la Tripolitania. “Tutti parlano di aiutare i ribelli – afferma mons. Martinelli – i giornali scrivono sulla difficile situazione umanitaria nelle città della Cirenaica, che è drammatica, ma nessuno parla della popolazione di Tripoli, ugualmente stremata dalla guerra e dai bombardamenti Nato”. La guerra in Libia diventa sempre più incomprensibile anche agli italiani e ai popoli occidentali, perché non tiene conto di tre fattori. Ecco in breve:

 

      1)   La Libia non è la Tunisia né l’Egitto, che hanno uno stato unitario e una robusta classe intellettuale e media. Si legga “Gheddafi” di Angelo Del Boca, studioso serio e profondo (Laterza 2011), per capire come la Libia non ha questa società moderna matura ed è divisa fin dal tempo dell’Impero ottomano in due regioni, la Tripolitania e la Cirenaica, e basata sulle tribù, sui clan familiari e le confraternite islamiche. Nella guerra civile libica, l’Occidente che si schiera apertamente  con una delle due parti, invece di tentare di avviarle al dialogo e ad un governo condiviso, sta affondando il paese in una interminabile sequela di guerriglie, vendette, terrorismi, lotte tribali. Chi vive sul posto come il vescovo Martinelli, profondamente innamorato del popolo libico, queste cose le conosce da una vita e quando parla andrebbe ascoltato. Per telefono dice: “Non se c’è qualche altro italiano che conosce la Libia ed è innamorato di tutto il popolo libico come me, eppure io parlo e nessuno mi ascolta”.

 

      2)  Gheddafi è un dittatore e questa parola dice tutto. Però nel mondo islamico credo che nessun altro come lui stava avviando il suo popolo al mondo moderno.  Dagli anni novanta ad oggi a usato le immense risorse del petrolio per fare  scuole, ospedali, università, dispensari medici nei villaggi, strade lastricate anche nel deserto, case popolari a bassissimo prezzo per tutti; ha fatto molto per la liberazione delle donne, mandando le bambine a scuola e le ragazze all’università (all’inizio il mondo universitario non le voleva!), varando leggi favorevoli alla donna nel matrimonio, abolendo nei villaggi le alte mura che delimitavano il cortile in cui stavano le donne, ecc. Ha tirato su l’acqua da 800-1000 metri nel deserto, portandola in Tripolitania e in Cirenaica con due canali sotterranei (di 800-900 chilometri) in cilindri di cemento (alti più d’un uomo). Oggi in Libia c’è acqua corrente per tutti. Potrei continuare. Gheddafi è un dittatore e per reprimere la rivolta ha usato mezzi che usano in situazioni simili in Siria e in Yemen. Giusto fermarlo, ma presentarlo all’Occidente come un dittatore sanguinario paragonabile a Hitler e volerlo ad ogni costo eliminare, significa suscitare altro odio non contro un uomo, ma contro tutti coloro che sono dalla sua parte, cioè circa lametà della Libia.

 

      3)  Gheddafi non ha dato la libertà politica e di stampa, è vero. Ma ha iniziato ad educare il popolo libico controllando le moschee, le scuole coraniche, gli imam e le istituzioni islamiche, che in molti altri paesi islamici (ad esempio in Indonesia, visitata di recente) sfuggono totalmente al potere statale, diffondono l’ideologia anti-occidentale e venerano “i martiri dell’islam”, cioè i kamikaze terroristi che conosciamo. In Libia assolutamente non è così. A Tripoli c’è un comitato di saggi dell’islam che prepara l’istruzione religiosa del venerdì e la diffonde con molto anticipo in tutte le moschee della Libia. L’imam locale deve leggere quel testo. Se toglie o aggiunge qualcosa, a dirigere quella moschea viene nominato un altro.

 

     Non solo. Nel 1986 Gheddafi ha scritto a Giovanni Paolo II chiedendo di mandargli suore infermiere per i suoi ospedali. Il Papa ne ha mandate un centinaio, anche italiane ma specialmente indiane e filippine. Oggi in Libia ci sono un’ottantina di suore e 10.000 infermiere soprattutto filippine, oltre a molti medici cattolici stranieri. Il vescovo Martinelli mi diceva: “Queste donne cattoliche, competenti, gentili, che trattano gli ammalati in modo umano, stanno cambiando la mentalità del popolo riguardo al cristianesimo”. E questo me lo diceva in base a molti elogi sentiti da musulmani sul come i cristiani formano le loro donne. La Libia finora era uno dei pochi paesi islamici in cui i cristiani (ci sono anche migliaia di copti egiziani) sono quasi totalmente liberi, eccetto naturalmente ci convertire i libici al cristianesimo. Insomma, a chi interessa questa guerra?

                                                                                     Piero Gheddo

Una vocazione missionaria sulle orme di Sandokan

                                                                               

   

    La mia vocazione missionaria è nata per ispirazione del buon Dio e si è precisata leggendo “Operarii autem pauci” del beato padre Paolo Manna e gli articoli poetici e avventurosi di padre Clemente Vismara, missionario in Birmania e prossimo Beato della Chiesa universale: sarà beatificato in Piazza Duomo a Milano la domenica 26 giugno 2011 (ore 10-12). Ma debbo dire che un influsso notevole hanno esercitato su di me i romanzi di Emilio Salgari. Quand’ero ragazzo, si leggeva molto anche perché non c’erano films né radio nè tanto meno televisione.

     I libri di Salgari e di Giulio Verne erano per me, come per tanti altri, la lettura preferita, portavano con la fantasia in mondi lontani e facevano sognare noi adolescenti, presentandoci popoli e paesi sconosciuti da esplorare. Gli eroi di quel tempo erano appunto gli esploratori, gli avventurieri, i personaggi (come Sandokan) che combattevano per la libertà e la giustizia. In  me, che vivevo un’intensa vita di preghiera ed ecclesiale, quelle letture aprivano orizzonti sconfinati e, avendo fin da bambino ricevuto da Dio il dono della vocazione sacerdotale, mi facevano sentire un po’ ristretta e soffocante la routine del prete in parrocchia. Tutto questo, mi portò ad innamorarmi della vita missionaria e ad entrare  nel Pime a 16 anni nel settembre 1945.

     Nella mia vita missionaria ho poi avuto la ventura di viaggiare in diversi paesi e territori nei quali  Salgari aveva ambientato le sue avventure: 

         Cartagena in Colombia (la prima città e diocesi spagnola del Sud America conservatasi intatta come nel ‘500) e le isole dei Caraibi, descritti da Salgari nei volumi del “Ciclo dei corsari delle Antille”: ricordo “Il Corsaro nero”, “La regina dei Caraibi” e ”Il figlio del  Corsaro rosso” .

         Mompracem e il Borneo, dove Salgari ambientò il “Ciclo dei pirati della Malesia”, di cui ricordo “Le tigri di Mompracem”, “Sandokan alla riscossa”, “Il re del mare”, “I pirati della Malesia”, “la rivincita di Yanez” e tanti altri.

         Il Bengala della dea Kalì e le foreste del Sunderbund dove si svolgono le vicende avventurose de “I misteri della giungla nera” e “Il bramino dell’Assam”. “Sunderbund” appariva a noi ragazzi un termine oscuro e affascinante per immaginare i “thug” della dea Kalì e la tigre reale del Bengala. Poi ho saputo che nella lingua bengalese “sunder” è un legno da costruzioni molto ricercato perché resiste all’umidità e non è intaccato dalle termiti; e “bund” significa semplicemente foresta. Ma ormai la magia delle pagine di Salgari era passata anche per me.

 

     Sono stato anche nel “Far West” americano (“Sulle frontiere del Far West”), in Sudan e nel deserto del Sahara (le avventure del Mahdi), ma soprattutto conosco gli ambienti salgariani ricordati e qualcuno potrebbe chiedersi come mai un missionario è andato a visitare quei luoghi. Come forse i miei lettori sanno, da cinquant’anni visito le missioni cattoliche in tutto il mondo, spesso invitato da vescovi o missionari che sono sul posto. Strano a dirsi, ma proprio dove Salgari immaginava e ambientava le sue avventure, il mio istituto missionario Pime di Milano (Pontificio istituto missioni estere) è presente o è stato presente in passato con i suoi missionari: appunto Borneo, Bengala e Cartagena regina dei Caraibi. Gli ultimi due ambienti visitati sono il Bengala nel 2002 e 2009 (dove ci sono ancora una quarantina di nostri missionari e suore)  e il Borneo. Ricordo quest’ultimo viaggio nel 2004, perché mi ha portato nella mitica isoletta di Mompracem.

 

    Nel febbraio-marzo 2004 ho visitato con padre Giorgio Licini, missionario del Pime in Papua Nuova Guinea, la giovane Chiesa della Malesia peninsulare, del Borneo malese e del Brunei, accolti con grande cordialità da vescovi, preti, religiose, catechisti e laici. Da un lato, invitato dal vescovo di Kota Kinabalu, per esaminare la possibilità che il Pime ritorni a lavorare in Borneo, dove si registrano molte conversioni fra i “dayak” delle foreste (anche questi citati spesso da Salgari!) e vi è una drammatica scarsezza di sacerdoti e suore: nel 1972 un sacerdote ogni 3.000 battezzati, oggi, dopo l’espulsione dei missionari inglesi di Mill Hill, uno ogni 8.000 (e ogni “parrocchia” ha 200-300 battesimi di adulti l’anno!); dall’altro, per rivedere i luoghi in cui l’Istituto ha lavorato un secolo e mezzo fa: Labuan, Brunei e Sabah. Su sei diocesi del Borneo malese (esteso poco meno di tutta l’Italia) ne abbiamo visitate quattro: Kota Kinabalu, Brunei, Keningau e Kuching.

     I missionari del Pime sono andati in Borneo nel 1856 mandati dalla Santa Sede perché in quei territori, indipendenti e sotto sultani indigeni, Gesù Cristo non era ancora stato annunziato e nessuna struttura della Chiesa cattolica era presente; e, secondo motivo, il fondatore e capo della missione, lo spagnolo mons. Carlos Cuarteron, primo prefetto apostolico del Borneo, di Brunei e di Labuan, voleva riscattare gli schiavi cristiani rapiti dai pirati malesi sulle coste delle Filippine e venduti in Borneo. Due infatti gli scopi di quella breve missione: annunziare Cristo e riscattare gli schiavi ridando loro libertà. La missione poi è terminata nel 1860 quando Propaganda Fide ritenne più urgente mandare i missionari del Pime ad Hong Kong, anche per salvarli dal possibile sterminio della missione, che aveva subito parecchi assalti da parte di gruppi fanatici musulmani e di pirati malesi.

     Nel sultanato del Brunei e nel Borneo del nord-ovest (poi diventato parte della Malesia come stato federato di Sabah) ne 1856 c’era già una piccola presenza diplomatica e commerciale inglese, ma senza alcuna relazione con i missionari cattolici; e quando questi hanno avuto bisogno di protezione per i loro schiavi riscattati, pagando il dovuto ai proprietari, contro le persecuzioni dei fedeli dell’islam, il console inglese si rifiutò di aiutarli, per non mettersi contro i costumi e le autorità locali. E’ giunto fino a noi il testo di una lunga lettera di padre Antonio Riva al prefetto apostolico mons.  Cuarteron che abitava a Labuan, nella quale il missionario descrive in modo particolareggiato e drammatico l’assalto subìto il 20 novembre 1859 dalla sua missione di Barambang (nel sultanato di Brunei) da parte di un gruppo armato islamico.

      Il centro della missione del Pime era nell’isola di Labuan dove ora c’è una fiorente parrocchia, di fronte al sultanato del Brunei, che oggi ha un vescovo. Ho visitato il piccolo cimitero cattolico di Labuan con le tombe dei primi cattolici, cippi antichi con iscrizioni che quasi nemmeno si leggono, ma che i cristiani d’oggi tengono come un ricordo storico importante, per dimostrare la presenza della fede cristiana fin dalla metà dell’Ottocento,  molto prima della colonizzazione inglese. Nella parrocchia di cui eravamo ospiti ho incontrato il dott. Teo Willie, che dirige un’agenzia turistica e riceve molti turisti dall’Occidente, quindi è impegnato a far vedere  l’isola e spiegare la sua storia. E’lo storico di Labuan e quindi molto interessato alla prima missione del Pime, la prima in tutto il Borneo.

     Sulla spiaggia di Labuan Teo Willie mi porta all’imbarcadero per affittare un motoscafo e andare all’isola di Mompracem, che adesso si chiama Pulau Kuraman ed è sistemata nel mare di fronte alla punta estrema a sud-ovest di Labuan. Mompracem è una piccola isola (Labuan ha 92 kmq., Mompracem solo sette), ci sono strade e anche  case moderne, ristoranti e scuole, coltivazioni e soprattutto foreste. Ma sopravvivono le antiche abitazioni in legno su palafitte che ho visto nell’interno del Borneo fra i dayak, con le casette collegate l’una all’altra da passerelle o da una veranda unica che scorre davanti alle singole abitazioni formando quasi un unico lungo cortile. In uno spiazzo in foresta al centro dell’isola, c’è una stele di bronzo con una lapide di marmo che commemora Emilio Salgari e i “tigrotti della Malesia” nell’isola natale di Sandokan e a Labuan. Questa lapide, scritta in inglese e in italiano, è stata portata da una commissione culturale italiana. Alcuni turisti chiedono  di visitare l’isola per conoscere l’ambiente di Sandokan, personaggio immaginario ma che in tutto il Borneo è ancora ricordato. Esiste tra l’altro la città di Sandakan, la seconda città dello stato di Sabah, la cui capitale è Kota Kinabalu, ed è lo stato che conta un 30% di cattolici, mentre gli altri stati federati nella Malesia sono di buona maggioranza islamica.

      Nell’isola di Labuan esiste ancora, con altri ricordi dell’Ottocento, il palazzo del console inglese, la cui figlia (“la ragazza dai capelli biondi” di Salgari) aveva fatto innamorare Sandokan. Poi ho visitato Kuching, capitale dello stato di Sarawak sempre nel Borneo, dove si ammira il museo del tempo coloniale inglese e il palazzo del governatore mister Brooks, contro il quale lottava Sandokan, precursore delle rivolte e guerriglie anti-coloniali.

                                                                                     Piero Gheddo

           

Clemente Vismara suscita vocazioni missionarie

 

             

     Si avvicina la beatificazione di padre Clemente Vismara, missionario e “Patriarca della Birmania”, in Piazza Duomo a Milano la domenica 26 giugno 2011. Fervono i preparativi da parte della Curia diocesana di Milano, della cittadina di Agrate Brianza (patria di  Clemente) e del Pime di Milano, l’Istituto a cui apparteneva il prossimo Beato. Si prevedono circa 10-12.000.fedeli in Piazza Duomo (ore 10-12) per la Messa e la cerimonia di beatificazione. Ma si avverte anche il bisogno di preghiere affinchè Clemente susciti tante e sante vocazioni sacerdotali, religiose e missionarie, come ha sempre fatto con i suoi scritti mentre era ancora in vita (1897-1988).

     Il giovedì 28 aprile sono stato invitato dalle suore di clausura Romite Ambrosiane di Perego in provincia di Lecco  (vengono da Sant’Ambrogio e San Carlo Borromeo): Messa solenne in rito ambrosiano e lunga conferenza al pomeriggio su padre Clemente. Una giornata per me consolante, perchè mi ha colpito l’interesse di queste care sorelle (27, di cui parecchie sotto i cinquanta e una novizia) appunto sul carisma del prossimo Beato di suscitare vocazioni alla vita consacrata. L’ho sperimentato io stesso, quando dal seminario diocesano di Vercelli nel settembre 1945 sono venuto al Pime per diventare missionario, in seguito agli articoli di Clemente su “Italia Missionaria”. Ma poi, visitando le missioni in tutto il mondo, ho incontrato numerosi preti, fratelli e suore italiani (non solo del Pime) che mi raccontavano come la loro vocazione alle missioni era nata allo stesso modo della mia. Naturalmente la chiamata alla vita consacrata viene da Dio, ma gli articoli di Vismara erano e sono adatti per presentare in modo affascinante la vita di missione ai giovani.

      Perché questo carisma? Intanto perchè era un santo, viveva nell’amore di Dio e lo trasmetteva in tutto quel che faceva. Poi perché sapeva scrivere e fin dall’inizio scriveva molte lettere e articoli (ne ho raccolti 2.300 e 600) per poter ricevere aiuti dai lettori delle riviste missionarie. Ma era talmente innamorato della sua vocazione, che era sempre sereno e contento pur vivendo in una povertà commovente e in mezzo a guerre e guerriglie, briganti e lebbrosi, villaggi di fango e paglia, poverissimi tribali, in una regione montagnosa e forestale priva dei più moderni conforti a cui siamo abituati: elettricità, acqua corrente, strade, medicine e assistenza sanitaria: negli ultimi tempi, il medico più vicino era a 120 chilometri, con quelle strade!.

      Però Clemente aveva però una visione ottimistica della vita, che veniva dalla grande fede e fiducia nella Provvidenza, e riusciva a trasfigurare quella realtà misera rendendola poetica e avventurosa, facendo sognare noi giovani. Ma i suoi articoli e lettere, come la sua biografia costruita sulle sue lettere (“Prima del Sole”, Emi 1998), fanno sognare anche i giovani d’oggi, che hanno bisogno di eroi “positivi” e di evadere con la fantasia dal mondo materialista e consumistico d’oggi, che tarpa le loro ali e impedisce loro di volare. Clemente tocca il cuore e trasmette i grandi ideali evangelici, con frasi incisive che scuotono e fanno riflettere. Questa ad esempio: “La vita è fatta per essere donata. Una vita vissuta per se stessi è sprecata e porta al pessimismo, una vita donata al prossimo è affascinante e ti dà gioia”. Se non c’è poesia, fantasia, amore ed entusiasmo per il Signore Gesù, le vocazioni alla vita consacrata non nascono. Clemente tocca il cuore e con l’aiuto di Dio fa nascere tutto questo.

                                                                                    Piero Gheddo