Clemente di Dio tu inviti alla gioia

 

 

    Le tre giornate della beatificazione di padre Clemente  Vismara  (25-26-27 giugno) sono state segnate dalla commozione e dalla gioia, come dice l’inno al Beato:

 

    “Clemente di Dio, tu parli alla gente, invitando alla gioia (Ritornello)

      L’uomo è sicuro se teme il suo Dio, se a lui si affida imitando il suo amore.

      Iddio soltanto può rendere felici, ma noisiamo tutti strumenti del suo amore.

      La vita è radiosa se spesa per gli altri, se la sete di amare ci spinge lontano.

      Alleviare il dolore di chiunque si incontri, è questo il segreto per essere felici.

      La gioia è nel cuore dell’uomo che ama, dell’uomo che vive donandosi ai fratelli.

      Al mondo vi è solo una grande tristezza: non sapersi donare, non essere santi.

      Non c’è mai tristezza per chi vive in missione, per chi perde se stesso per amore di Dio”.

    

     Sabato sera 25 giugno. Veglia di preghiera ad Agrate Brianza, con benedizione eucaristica impartita da mons. Luigi Stucchi, vescovo della zona pastorale di Varese.

     Domenica mattino 26 giugno (ore 10-12), in Piazza Duomo a Milano, cerimonia di beatificazione tenuta dal card. Angelo Amato, delegato di Benedetto XVI e prefetto della Congregazione dei Santi e S. Messa del card. Dionigi Tettamanzi davanti a circa 7.000 fedeli, con 250 sacerdoti e 18 vescovi concelebranti.

    Lunedì sera 27 giugno, cena per un’ottantina di invitati nell’oratorio maschile di Agrate, poi la prima S. Messa solenne del Beato Clemente nella parrocchiale celebrata da mons. Ennio Apeciti, incaricato delle Cause dei Santi della diocesi di Milano e delegato vescovile a presiedere il processo canonico per la beatificazione di padre Vismara, e poi per il “processo sul miracolo”, in seguito approvato dalla severissima commissione medica della Congregazione. Il parroco di Agrate, don Mauro Radice, ha consegnato il reliquiario di Clemente, opera artistica in bronzo dorato scolpita dal nipote del Beato, lo scultore Alfredo Vismara (già autore della statua di Clemente nella piazza della chiesa) al vescovo di Kengtung mons. Chaku e al vescovo emerito mons. Than, poi al superiore generale del Pime padre Gianni Zanchi, al regionale d’Italia padre Bruno Piccolo, ai padri Gianni Zimbaldi e Claudio Corti per la missione di Fang e anche al postulatore emerito padre Piero Gheddo.

    Tre giornate segnate dalla gioia. Tra noi una quarantina di birmani, tre vescovi (Yangon, Taunggyi, Kengtung), il vescovo emerito di Kengtung, mons. Abramo Than, principale artefice della beatificazione di Clemente e il vescovo di Cheng Mai in Thailandia, nella cui diocesi lavorano i missionari del Pime fra i tribali profughi dalla Birmania, diversi dei quali battezzati dal padre Clemente e da altri missionari dell’istituto in Birmania.

     Quando in Piazza Duomo, il card. Amato ha letto la formula latina con la quale padre Clemente Vismara è proclamato Beato della Chiesa, la cui festa liturgica si celebra il 15 giugno di ogni anno (data della sua morte nel 1988), dico la verità, mi sono messo a piangere. Avevo il cuore che scoppiava di gioia e ringraziavo il Signore della rapida conclusione di questa Causa di beatificazione, durata solo 15 anni dall’inizio nel 1996, e 23 anni dalla morte di Clemente nel 1988. Quasi un record per la prudente Congregazione dei Santi. Mi pareva un sogno. Un missionario “come tutti gli altri” – non ha fatto miracoli né cose straordinarie, non ha avuto visioni, ha vissuto la vita comune dei missionari in Birmania di quel tempo – ecco questo confratello diventa Beato della Chiesa universale ed è proposto a modello di tutti i fedeli e specialmente di tutti i missionari del mondo intero. E’ una grande grazia che il buon Dio fa a tutti noi missionari del Pime, non solo per la nostra vita personale ma anche per il carisma che Vismara aveva di saper suscitare altre vocazioni missionarie.

     Dopo aver letto la formula della beatificazione, il card. Amato ha ricevuto brevemente, uno per uno, i tre postulatori dei tre beati ambrosiani di quella assolata domenica di giugno (gli altri due erano don Serafino Morazzone, parroco di  Chiuso nel lecchese e suor Enrichetta Alfieri, “la mamma dei carcerati” nelle carceri di San Vittore a Milano). A me ha detto: “Grazie al Pime e a lei, caro padre Gheddo, di aver portato agli altari un personaggio così affascinante come Clemente Vismara”. Io ho ringraziato e poi ho detto: “Eminenza, il Pime ha ancora due servi di Dio da beatificare: il fondatore mons. Angelo Ramazzotti e fratel Felice Tantardini, anche lui missionario in Birmania per 69 anni, un semplice fabbro ferraio da terza elementare che si è santificato nella comune vita missionaria”. Il cardinale ha detto: “La Congregazione è molto favorevole a queste figure missionarie”.Ho saputo poi da mons. Apeciti che lui aveva già parlato al card. Amato della Causa di Marcello Candia.    

     Sul Beato padre Clemente si possono fare tante altre riflessioni. A me preme fare questa. Credo che nell’Istituto siamo tutti impegnati a portare a termine le cause dei nostri missionari “servi di Dio”: oltre ai tre martiri (Alfredo Cremonesi, Mario Vergara e Pietro Galastri), mons. Angelo Ramazzotti, padre Carlo Salerio e fratel Felice Tantardini. Credo che fra non molto potrà iniziare anche la Causa di mons. Aristide Pirovano, che è già pronta e approvata calorosamente dal card. Tettamanzi (che però diceva di non voler firmare impegni per il suo successore).

     L’ostacolo maggiore alla beatificazione è, come tutti sanno, l’approvazione finale del miracolo ottenuto per intercessione del “servo di Dio”. Alla Congregazione dei Santi dicono che:

     1) La Chiesa fa i beati e i santi affinchè suscitino devozione e siano pregati, venerati, imitati e ottengano grazie per loro intercessione.

     2) Il miracolo, normalmente, è il segno finale di un popolo che prega e ottiene grazie.

     3) Occorre quindi che ci siano preghiere organizzate di popolo: Sante Messe negli anniversari, novene per gli ammalati, Comunioni e Rosari, ecc. Se nessuno stimola e organizza preghiere, non ci sono grazie e la causa si blocca, non va avanti.

 

     Termino citando l’esperienza di padre Vismara. Il vero motore della sua beatificazione è stato, senza ombra di dubbio, mons. Abramo Than, vescovo di Kengtung dal 1972 al 2001. Mons. Than ci credeva veramente alla santità di Vismara e anche da vescovo emerito andava nei villaggi portando immaginette di Clemente e quando c’era un malato radunava la gente e faceva pregare. E anche la parrocchia e il gruppo “Amici di Padre Vismara” di Agrate hanno animato la cittadina alla preghiera: Messa per padre Vismara una volta al mese, osari e novene, ecc. Nel 2001 alla Congregazione dei Santi abbiamo presentato ben sei supposti “miracoli”, con relativa documentazione, grazie a mons. Ennio Apeciti e al medico di Agrate dottor Franco Mattavelli (già sindaco della cittadina), che sono andati tre volte in Birmania per trovare documenti e testimonianze sul miracolo. Oggi dobbiamo ringraziare il Signore per la beatificazione di padre Clemente in tempi così rapidi. Penso che  tutti noi dei Pime dobbiamo impegnarci a fare conoscere i nostri servi di Dio ed a farli pregare.

                                                                                                                             Piero Gheddo

Clemente Vismara incarna la missione di sempre

 

 

      In prossimità della beatificazione di Clemente Vismara (26 giugno in Piazza Duomo a Milano), un amico sacerdote mi scrive: “Padre Vismara era certamente un santo missionario, ma non penso che sia un modello per i missionari del nostro tempo. E’ morto nel 1988 a 91 anni, appartiene ad un’epoca tramontata, un prete di stampo preconciliare. Oggi il mondo non cristiano è profondamente cambiato e la missione è radicalmente diversa, anche teologicamente, da quello che era ai tempi di padre Clemente. Sono convinto che per la missione del nostro tempo ci vogliono modelli del nostro tempo”.

      Caro amico sacerdote, scusami ma non credo che il tuo ragionamento funzioni. E’ certamente vero che dai tempi di Clemente la missione è radicalmente cambiata, anche teologicamente. Ad esempio, padre Vismara era appassionato del fine della missione: “Salvare le anime”, perché pensava che, se non arrivava il missionario a salvarle, le anime si perdevano. Oggi diciamo, col Concilio, che le anime le salva Dio “attraverso vie che lui solo conosce”, ma “l’attività missionaria conserva appieno, oggi come sempre, la sua validità e necessità” (“Ad Gentes”,  7).  Così ai tempi di Vismara si diceva che le religioni non cristiane erano “nemiche di Cristo” e il grande Matteo Ricci, che aveva una forte stima per la cultura cinese, scriveva però parole di fuoco contro le tre religioni “demoniache” della Cina, taoismo, confucianesimo e buddismo, scrivendo che erano opera del demonio per ostacolare la verità di Cristo. Anche Vismara  afferma che il buddhismo rovina il popolo birmano. Oggi invece sappiamo, ancora dal Concilio, che le religioni “non raramente riflettono un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini” (“Nostra Aetate”, 2). Quindi, non diciamo più che sono nemiche di Cristo, ma preparazione a Cristo. Di qui il dialogo inter-religioso.

     Ma la missione, pur cambiando molto nelle situazioni e condizioni esterne, negli strumenti, nel linguaggio, nei metodi di approccio alle realtà locali, rimane in fondo quella di sempre: “Andate in tutto il mondo annunziate il Vangelo a tutte le creature” e nel mondo la gran maggioranza degli uomini non ha ancora ricevuto il primo annunzio di Cristo. Come dice l’Ad Gentes (n. 6), il “compito” missionario della  Chiesa “rimane unico e immutabile in ogni luogo e in ogni situazione, anche se, in base al variare delle circostanze, non si applica allo stesso modo”.

 

     Padre Vismara è anche oggi un modello per ogni missionario, non certo perché andava a cavallo o abitava, all’inizio, in un capannone di fango e bambù, o perché raccoglieva gli orfani o per i metodi di catechesi che usava. Ma è modello per quello “spirito missionario” dei pionieri della missione, che era poi lo Spirito di Cristo, “senza del quale – dice la “Evangelii Nuntiandi” di Paolo VI (n. 75) – i più elaborati schemi a base sociologica o psicologica, si rivelano vuoti e privi di valore” per l’evangelizzazione.

     In un’epoca di rapida transizione post-conciliare come la nostra, con situazioni sempre  nuove che richiedono prontezza di adattamento e cambiamenti di metodi, di linguaggio, di forme organizzative, vi è il pericolo di mettere talmente l’accento sulle novità della missione, da far dimenticare che è molto più quello che ci unisce al passato di quello che ci divide. Ricordo che quand’ero direttore di “Mondo e Missione” e pubblicavo spesso “servizi speciali” dedicati a missionari, diciamo, pre-conciliari (appunto come padre Clemente Vismara), c’era sempre chi mi diceva o scriveva che ero “un tradizionalista” o magari anche “un conservatore”. Io rispondevo che quella “tradizione missionaria del Pime”, che quegli anziani missionari incarnavano, io volevo conservarla tutta, senza perderne nemmeno una briciola. Anzi, dicevo che noi giovani di quel tempo, quando iniziava il post-Concilio, dovevamo pregare il Signore come Eliseo quando il profeta Elia era rapito in cielo su un carro di fuoco: “Due terzi del suo spirito diventino miei” II Re, 2, 9).

     Padre Clemente Vismara non è solo un pioniere della missione in quella misteriosa e affascinante parte del mondo che è la Birmania orientale. E’ ormai una leggenda, un mito, una icona del missionario perché racchiude nella sua vita tutto quanto vi è di evangelico e di poetico nella missione alle genti. Secondo il comune sentire del nostro tempo, la missione agli estremi confini del mondo cristiano è assurda, gratuita, inutile. E’ assurdo infatti che un italiano di 91 anni rimanga in un villaggio di tribali akhà, lahu e shan, nel “triangolo dell’oppio”, a una giornata in jeep dal medico più vicino, fra guerriglieri, briganti, contrabbandieri di oppio e genti fra le più “primitive” della terra, che soffrono la fame e la lebbra, la dittatura e le prepotenze dei signori della guerra”.

     Ma più assurdo ancora è che, nonostante tutto questo, questo italiano di 91 anni, Cavaliere di Vittorio Veneto e titolare di una medaglia al valor militare della prima guerra mondiale, insomma, che il Beato Clemente Vismara fosse sempre sorridente, sereno, ottimista e contento di vivere, proiettato verso il futuro e non rivolto, come sarebbe stato naturale, al suo passato. Giovane nonostante i suoi anni. Infatti – mi diceva quando l’ho visitato nel 1983 in Birmania (e di anni ne aveva 86): “Per me la vecchiaia non è ancora cominciata. Cominci a diventar vecchio quando ti accorgi che non sei più utile a nessuno. Ecco perché Clemente diventa  Beato ed ancor oggi è modello per tutti i missionari e le missionarie. Per questo suo “spirito missionario” che è lo spirito di fede degli Atti degli Apostoli, proprio là dove ancor oggi nasce la Chiesa.

 

 

 

Ma il missionario è un operatore sociale?

 

     La Thailandia è uno dei pochi paesi asiatici nei quali c’è libertà religiosa e rispetto per le minoranze religiose. Il Pime vi lavora dal 1972 in due diocesi, una parrocchia a Bangkok e tre missioni fra i tribali nella diocesi di Cheng Mai, ai confini con la Birmania. Incontro a Milano padre Claudio Corti di Lecco, in Thailandia dal 1998 e tornato in Italia per la beatificazione di padre Clemente Vismara (26 giugno a Milano). Gli chiedo che impressione ha dell’Italia. Risponde:

     Corti – La mia impressione è questa: che il missionario è presentato e ritenuto più come operatore sociale che come evangelizzatore. Io sono partito perché mandato dalla Chiesa a portare il Signore Gesù a quei popoli che ancora non lo conoscono. L’immagine prevalente del missionario che appare oggi in Italia, anche in ambienti cattolici, è quella di uno dei tanti operatori sociali, come se la Chiesa in missione fosse una Ong che cura i malati, dà da mangiare agli affamati, si preoccupa delle scuole e dell’assistenza sanitaria, ecc. Ho anche l’impressione che i nostri cristiani hanno quasi timore di dire che noi siamo cristiani.

     Gheddo – Da dove ricavi questa impressione?

     Claudio – Il 25 marzo scorso la prima missione di padre Clemente a Monglin in Birmania è stata devastata da un forte terremoto che ha distrutto, tra l’altro, tre chiese. Amici che si impegnano a raccogliere soldi per aiutare a ricostruire le chiese dlstrutte mi dicono: “Ma non possiamo dirlo, diciamo semplicemente che aiutiamo la ricostruzione”.  Ma come, in Italia abbiamo paura di dire che ricostruiamo una chiesa? Che noi come cristiani italiani vogliamo ricostruire le chiese? Secondo me questo è un linguaggio “politicamente corretto” che faccio difficoltà a capire.          

     Gheddo – In questi giorni ho letto sul giornale che a Roma i missionari e le suore missionarie hanno fatto una manifestazione per l’acqua bene pubblico. Sui giornali è apparso il titolo : “Missionari e suore manifestano per l’acqua pubblica”.Tu cosa dici?

     Corti – Queste cose possono dirle e manifestarle tutti. Ma facendo una manifestazione di soli missionari e suore, diamo l’idea sbagliata del missionario. E’ certamente positivo e vero che il missionario va ad aiutare i poveri, istruire i bambini e via dicendo. Ma non può mancare l’annunzio di Cristo e del Vangelo; tutto il resto è fatto allo scopo di testimoniare la fede che porta alla carità. Ho un po’ timore che in Italia si ha quasi timore di dire la nostra fede, di testimoniarla apertamente. Quasi che per dialogare si debba mettere tra parentesi la fede e parlare solo di fatti e di opere sociali.

     Gheddo – Il movimento missionario italiano si è diviso negli anni settanta. Prima eravamo molto uniti e negli anni 50 e 60 abbiamo fatto assieme molte cose utili e belle: la Emi, la Fesmi, le visite dei missionari nei seminario diocesani, le settimane di studi missionari, gli incontri per “una teologia missionaria”, la campagna contro la fame e Mani Tese, ecc. Poi il sessantotto secolarizzato ci ha divisi e l’immagine del missionario a poco a poco si è politicizzata, il missionario è quasi diventato un operatore sociale: la sua immagine di evangelizzatore è decaduta. Ci lamentiamo che le vocazioni missionarie sono crollate in Italia. Ma quale giovane o ragazza decide di farsi missionario, se i missionari e le suore parlano di mondialità invece che di missione, manifestano per l’acqua pubblica o contro la vendita delle armi, invece di esprimere pubblicamente un appello ai giovani che vale la pena di diventare missionari per portare Cristo, l’unica ricchezza che abbiamo, a tutti i popoli?

       Corti – Noi in Thailandia, paese non cristiano dove i cattolici sono infima minoranza, stiamo attenti alle culture e alle religioni, rispettosi, dialoganti, disposti ad aiutare tutti per quel possiamo, ma nello stesso tempo siamo molto chiari sulla nostra identità cristiana. Ad esempio, anche gli ostelli nei quali educhiamo i ragazzi tribali, diciamo espressamente che sono centri di formazione umana e cristiana, perché altrimenti siamo equiparati alle tante Ong che fanno la stessa cosa in un modo laico, cioè indifferenti alla formazione religiosa. Ad esempio i giapponesi finanziano ostelli per ragazzi poveri. Noi ci distinguiamo perché dichiariamo apertamente che, educando i bambini poveri o orfani, siamo lì per evangelizzare. I giapponesi hanno parecchie Ong che non tanto mandano volontari, ma finanziano opere educative per i poveri. Bisognerebbe poi vedere se i loro finanziamenti vanno a buon fine, ma certamente i giapponesi aiutano l’educazione dei poveri. Anche  noi vogliamo e operiamo per questa finalità, ma mettiamo in risalto che siamo venuti in Thailandia per portare il Vangelo, di cui tutti i popoli hanno  bisogno.

                                                                                                   Piero Gheddo

L'entusiasmo della fede in Clemente Vismara

  

     Nella preghiera per la beatificazione di padre Clemente (a Milano in Piazza Duomo il mattino del 26 giugno prossimo) diciamo fra l’altro: “Fa, o Signore, che abbiamo anche noi quella fede semplice ed entusiasta, che è stata l’anima di padre Clemente e dei suoi 65 anni di missione”. Nella “Positio” per be  atificare padre Vismara (1897-1988), si legge la testimonianza di suor Mary Paul di Maria Bambina, interrogata nel 1997 dal Tribunale diocesano a Kengtung quando aveva 32 anni (era nata nel 1965), che dice tra l’altro (pag. 194 della “Positio”): “Padre Vismara pregava moltissimo e quando gli chiesi perché ogni giorno pregasse tanto, mi rispose che doveva pregare tanto perché noi bambini eravamo tanti, perché i benefattori erano tanti, perché i cristiani della missione erano tanti e tutti avevano tanti problemi e allora lui pregava, anzi doveva pregare tanto… Noi eravamo sicuri che, se non era al lavoro o in casa a leggere o a scrivere, lo avremmo trovato in chiesa a pregare. Questo lo sapevano tutti…”.

    Che bel ricordo di Clemente! Non solo perché pregava molto, ma perché ha saputo trasmettere col suo esempio quella “fede semplice ed entusiasta” che era l’anima della sua vita. Questa giovane suora che ricorda le parole precise del missionario, dimostra anche lei di aver ricevuto una fede semplice, non complicata: i bambini erano molti e lui pregava molto perché ciascuno aveva i suoi problemi; i benefattori erano tanti e lui pregava tanto, ecc. La risposta di Clemente la convinceva da bambina e la convince ancora quando ha 32 anni. E’cresciuta avendo ben chiaro nell’animo e nel cuore il rapporto fra le necessità dell’uomo e il bisogno di ricorrere a Dio.

    Che vuol dire “la fede semplice ed entusiasta di padre Clemente”? Una fede non complicata, ma quasi elementare, che capiscono anche i bambini; e l’entusiasmo della fede, che ci porta a viverla in uno spirito di ringraziamento e di donazione a Dio per averci fatto questo grandissimo dono. Oggi, nel nostro mondo super-evoluto e super-laicizzato, non è in pericolo la fede come tale: quando si sente dire che la Madonna è apparsa da qualche parte, le folle accorrono in massa; e quando i giornali fanno inchieste sul grado di religiosità degli italiani, risulta che più del 90% credono in Dio e in Cristo. Ma quanti “ci credono davvero”, in modo che la fede li sostenga anche nelle circostanze più difficili e dolorose? Clemente ci credeva davvero. Leggeva, studiava, si informava dei problemi dell’umanità, ma sapeva che al di sopra di tutto il male che noi vediamo, c’è la paternità e la misericordia di Dio. La sua era una vita serena perché l’intimità con Dio che cercava nella preghiera lo sosteneva e gli dava coraggio.

      Nel 1983 ho rivisto Clemente Vismara in Birmania: aveva 86 anni e morì pochi anni dopo a 91 anni. Sono stato con lui cinque giorni: era entusiasta della Birmania, del suo popolo akhà, dei suoi bambini, dei suoi cristiani, del povero cibo e della sola acqua come bevanda, della vita che faceva. Si riteneva l’uomo più fortunato del mondo e non cessava di ringraziare Dio per la vocazione missionaria. Un uomo che, a 86 anni ripeto, dava serenità, gioia ed entusiasmo a tutti. Non era certamente un illuso, anzi era molto intelligente e furbo nelle cose della vita, vedeva e soffriva le miserie e le malattie, la guerriglia e i briganti da strada, la fame e la sete, la dittatura oppressiva, la mancanza di molte cose necessarie: a 86 anni aveva il medico e l’ospedale più vicini a Kengtung, distante 120 chilometri, cioè due giorni di viaggio in jeep! Non gli mancavano le prove, le sofferenze fisiche, le incomprensioni, i fallimenti; viveva isolato fra popolazioni primitive con lingue difficili e mentalità molto diverse dalla sua. Eppure era pieno di gioia e di speranza, entusiasta di tutto quel che faceva.

     Semplicemente, come ha dichiarato padre Rizieri Badiali (suo confratello che è stato missionario con lui a Monglin) al Tribunale diocesano per la sua beatificazione (“Positio”, pagg. 219-220):  “Padre Vismara sopportava tutte le prove con gioia perché diceva che se eravamo perseguitati voleva dire che tutto andava bene. Era la sua fede, una fede entusiasta, gioiosa, piena di desiderio di salvare le anime; una fede biblica, giacché la vita cristiana era basata sui fatti, sull’essere conformi alla volontà del Signore, di quel Dio che interviene concretamente nella storia degli uomini e chiama gli uomini a costruire questa sua storia. Questa fu la fede di padre Clemente, che lo sostenne  per tutta la vita fino alla morte, con grande allegria e una grande voglia di vivere che sentiva per sé e per i ragazzi che accoglieva appena poteva .

     “Nei due anni che spesi con lui per imparare la lingua (1952-1954), andammo sempre d’accordo. Io ero giovane e quindi  molto rispettoso e trovai sempre in lui uno spirito paterno. Pregavamo anche insieme nel senso che ci trovavamo in chiesa a pregare come facevano i preti una volta. Così posso testimoniare che padre Clemente pregava e pregava molto. Diceva: “Se non ci fosse la preghiera, come farei ad essere sempre allegro? Ad accettare le fatiche dei giorni faticosi?”.

    “Egli pregava con grande raccoglimento e con grande fedeltà, anche quando eravamo nei villaggi pagani. Ci sosteneva molto la Parola di Dio, che era il nostro riferimento costante e il nostro cibo, perché ci indicava la via di ogni giorno, perché il Vangelo è il manuale del missionario. So che padre Vismara amava particolarmente le figure di Abramo e di Mosè che conducono il popolo. Questa devozione gli dava la forza di essere paziente con la gente: affermava che se Dio era stato così paziente, così doveva esserlo anche lui con il suo popolo.

     “Padre Vismara sopportò tutte le fatiche, sebbene soffrisse di forti dolori di schiena, che diminuirono solo negli ultimi anni. Soffrì anche moralmente quando le cose andavano poco bene, quando vedeva matrimoni fallire o giovani che deviavano dalla strada del bene. Quando vennero i giapponesi, durante la seconda guerra mondiale, egli subì molte umiliazioni, ma sopportò tutto perché voleva rimanere in difesa dei suoi ragazzi”.

     In una conferenza di questi giorni su padre Vismara, un signore ha chiesto: “Ammiro molto padre Clemente, ma nel nostro mondo così complicato e secolarizzato è molto difficile mantenere questa sua gioia e speranza. Mi spieghi come faceva Clemente ad avere uno spirito così giovanile”. Ho risposto che padre Vismara viveva la fede e la preghiera non come stanca abitudine, come un peso da portare che ci lascia freddi e soli con le nostre difficoltà e sofferenze. Vismara era innamorato di Gesù e di Maria, sempre contento non perché le cose gli andassero bene, ma perché viveva in ogni momento alla presenza di Dio, vedeva in ogni persona il Signore Gesù, prendeva tutto dalle mani di Dio. Non era certamente un uomo diverso da noi, né più intelligente, né più istruito, né più forte di noi. Semplicemente pregava di più e chiedeva a Dio la grazia di fare la sua volontà perché sapeva che nell’accettazione della volontà di Dio sta la nostra gioia e la nostra pace e, naturalmente, il coraggio e l’entusiasmo col quale affrontiamo la vita.

                                                                                                    Piero Gheddo

 

E' bello fare il prete

 

                                                 

     I sacerdoti anziani sono sempre più numerosi e sono una riserva di santità, di umanità e di esperienza e anche una preziosa risorsa per la nuova evangelizzazione della nostra Italia. In questo senso. Il prete ha una longevità sconosciuta ad altre professioni, è “sacerdos in aeternum” e anche da anziano, a volte purtroppo non più autosufficiente, può sempre dimostrare con la sua vita, le sue preghiere, parole, scritti, la grandezza e bellezza della fede e della vocazione sacerdotale. Quando scrivo e parlo del prete, il mio cuore si riempie di gioia e ringrazio sempre il Signore di avermi chiamato. Noi preti (e lo stesso vale per le suore e i fratelli laici consacrati) viviamo in una situazione fortunata. Siamo nella posizione migliore per innamorarci di Gesù e per testimoniarlo. Lo scopo della nostra vita è solo questo: conoscere il Signore, pregarlo, amarlo, imitarlo pur nella debolezza della nostra umanità. Siamo liberi dalle preoccupazioni che hanno tutti gli uomini: il nostro futuro, i soldi, la carriera, la vecchiaia. Non abbiamo altre ambizioni, siamo  veramente liberi di orientare la nostra vita al Signore Gesù e preparare, anche qui sulla terra, il Regno di Dio.

      San Paolo era un innamorato di Gesù: “Non sono più io che vivo, ma Cristo che vive in me. Per me vivere è Cristo” (Filippesi 3, 12); “Quello che per me era un vantaggio, per amore di Cristo l’ho ritenuto una perdita. Considero ogni cosa come un nulla, in confronto alla suprema conoscenza di Cristo Gesù mio Signore, per il quale mi sono privato di tutto e tutto ritengo come spazzatura pur di guadagnare Cristo” ( Filippesi, 3, 8-12) “La carità di Cristo ci spinge” (2 Cor 5, 14); “Chi potrà separarci dalla carità di Cristo?” (Rom 8, 35).

    Gli esegeti hanno contato nelle lettere di San Paolo 164 volte l’espressione “in Christo”, cioè la vita in Cristo! Ho seguito Giovanni Paolo II in diversi viaggi missionari. A Puebla in Messico nel 1979 gridava ai preti: “Lasciatevi possedere totalmente da Cristo, siate tutti di Cristo e questo vi renderà anche totalmente disponibili all’uomo. Siate uomini che avete fatto del Vangelo la professione della vostra vita. Il prete deve sempre fare il prete!”.

     Questa la nostra affascinante avventura e il modo migliore di prepararci alla nostra vecchiaia. Quanti sacerdoti anziani ho conosciuto, in Italia e nelle missioni, che hanno testimoniato la gioia del loro sacerdozio! Nel febbraio 1983 ho visitato in Birmania padre Clemente Vismara, che sarà beatificato in Piazza Duomo a Milano la domenica 26 giugno. E’morto nel 1988 a 91 anni, dopo 65 anni di vita in una regione conosciuta come ”Il triangolo dell’oppio”, ai confini con Cina, Laos e Thailandia, fra contrabbandieri, briganti, guerriglieri, tribali bellicosi e poverissimi. Padre Vismara viveva con 250 orfani e orfane, aiutato dalle suore di Maria Bambina e aveva 86 anni, il medico più vicino a 120 chilometri (con quelle strade!). Aveva fondato partendo da zero cinque parrocchie e un centinaio di villaggi cattolici, dai suoi cristiani, lui vivente, erano venuti fuori cinque sacerdoti e 14 suore. Ero andato per intervistarlo sulle sue avventure e lui mi dice: “Ho già scritto tutto più volte. Lascia perdere il mio passato, parliamo del mio futuro”. E mi raccontava dei villaggi da visitare, delle conversioni, delle scuole e cappelle da costruire. Pensai: questo il prete che anch’io vorrei essere: non si è lasciato indurire dalle difficoltà dai pericoli, dalle persecuzioni. “E’ morto a 91 anni – dicevano i confratelli – senza mai essere invecchiato”. Sacerdote per sempre.

                                                           Piero Gheddo

 

 

 

 

 

In Libia la "caccia all'uomo" Gheddafi

 

                                                                                     

     La guerra in Libia è quasi del tutto scomparsa dai giornali e dalle Tv. A poca distanza dalla nostra Italia, tutte le notti (a volte anche di giorno) decine di aerei sganciano bombe su Tripoli e altre città della Tripolitania, ma non se ne parla più. La guerra in Libia è ormai tabù. Un silenzio che grida perché il Vicario apostolico di Tripoli, mons. Giovanni Innocenzo Martinelli, quasi ogni giorno lancia appelli e denunzia questa folle guerra iniziata  come “intervento umanitario” per salvare i libici dalle violenze di Gheddafi e ormai diventata una “caccia all’uomo”, a costo di massacrare altri innocenti.

    Ieri mons. Martinelli ha dichiarato ad Asia News: “La Nato ha intensificato i bombardamenti e continua a fare vittime. I missili stanno cadendo ovunque e purtroppo non colpiscono solo zone militari, ma anche civili. La gente a Tripoli soffre, anche se nessuno ne parla”. Solo nell’ultima settimana il vescovo ha denunziato il bombardamento di un ospedale, di un quartiere popolare e ieri di una chiesa copta situata a poche centinaia di metri da una caserma militare. Intanto, la Nato ha annunciato l’estensione della missione in Libia di altri 90 giorni. “Questa decisione è un chiaro messaggio al regime di Gheddafi”, ha affermato il generale Anders Fogh Rasmussen segretario generale della Nato. Che equivale a dire: andremo avanti fin che avremo costretto  Gheddafi a dare le dimissioni o l’avremo centrato con una delle nostre bombe sempre più “intelligenti”. E ha definito i bombardamenti come parte dell’intervento umanitario per proteggere il popolo libico! Ci vuole una bella faccia tosta, a mentire in modo così smaccato! Chi mai può credere che i quotidiani bombardamenti su Tripoli sono fatti per difendere il popolo libico? Ecco perché stampa e Tv occidentali non parlano più della guerra in Libia. Non sanno più come giustificare una così evidente violazione dei diritti umani.

     E poi, chi ha dato alla Nato il potere di uccidere il tiranno? Può Dio benedire la Nato e i paesi della Nato che portano avanti da mesi una vera guerra contro un popolo, solo per togliere di mezzo un uomo, sia pure un tiranno? L’intervento umanitario iniziale sta assumendo i contorni di un crimine di stato. L’Onu aveva giustificato la “No fly zone”, per impedire che gli aerei libici bombardassero i ribelli della Cirenaica. Ma in pochi giorni le forze aeree della Libia vennero facilmente azzerate. Poi si è passati a bombardare i mezzi militari di terra che avanzavano verso Bengasi e si continua, da più di due mesi, a bombardare le città della Cirenaica, non per proteggere il popolo libico da Gheddafi, ma per la “caccia all’uomo” Gheddafi, il che sta scavando un abisso di odio di vendetta fra le due parti del paese, Tripolitania e Cirenaica, che erano e sono pro o contro il raìs. Mons. Martinelli ha più volte proposto, sostenuto da diversi appelli di Benedetto XVI (che l’ha ancora ricevuto pochi giorni fa), un cessate il fuoco e l’apertura di trattative diplomatiche fra le due parti della Libia. E ancora ultimamente ha denunziato l’Occidente che si è chiaramente schierato con la Cirenaica, quando ha detto che “bisogna tener conto di tutte e due le parti del popolo libico e del paese Libia”.

     Le anomalie di questa guerra sono infinite e dimostrano che anche in Occidente soffriamo di una disinformazione colossale. Ripeto l’interrogativo retorico: può Dio benedire la Nato, i governi e i popoli della Nato, che portano avanti una guerra anomala di questo tipo (iniziata e continuata per motivi economici e non umanitari), contro un uomo marchiato come un mostro (le notizie che si pubblicano sono tutte da verificare) e contro metà del suo popolo che lo sostiene?

                                                                             Piero Gheddo