Natale 2011 – In tempo di crisi ripartire da Betlemme

Cari amici lettori, in questi giorni, in tutte le chiese del mondo risuona la Buona Notizia che in duemila anni è sempre nuova: a Betlemme di Giuda è nato Gesù, il Messia, il Salvatore del mondo. Una parola di speranza, di ottimismo sul futuro, a tutti noi che viviamo in una situazione di crisi esistenziale, oltre che economica e morale: non sappiamo più perché viviamo abbiamo perso il senso, il significato della vita. Siamo immersi in un pessimismo che ci angoscia, ci rende tristi, i nostri discorsi, i giornali e telegiornali diffondono questa atmosfera che tende alla morte.

In un libro dell’Antico Testamento, la Sapienza, c’è la profezia poetica del Natale di Gesù: “Mentre un profondo silenzio avvolgeva tutte le cose e la notte era a metà del suo corso, la tua Parola onnipotente dal cielo, dal tuo trono regale discese in quella terra maledetta” (Sap 18,14-15). Parole forti e drammatiche. Il profondo silenzio e il buio della notte sono il mondo in cui viviamo, di cui tutti ci lamentiamo. Ecco la  Buona Notizia del Natale di Gesù, un lampo nel buio della notte. Dio si è fatto uomo per non lasciarci soli e ha deciso di essere sempre vicino alla nostra miseria per aiutarci.

Oggi dobbiamo ripartire dalla stalla di Betlemme. Il Natale ci invita a ritrovare la fede autentica delle persone semplici, dei pastori che accorrono all’annunzio degli angeli, dei Magi che vengono ad adorare Gesù da una terra lontana.

Nelle missioni, dove oggi nasce la Chiesa, si respira ancora questa atmosfera del primo Natale. Vi racconto uno dei tanti Natali che ho fatto in missione. Nel dicembre 1964 ero in India, nello stato di Andhra Pradesh dove dal 1855 lavorano i missionari del Pime. Un popolo a quel tempo molto povero, che soffriva ogni anno due-tre mesi di autentica carestia fra un  raccolto e l’altro. I paria erano ancora pesantemente discriminati nella società indiana (e un po’ lo sono anche oggi!): vivevano in villaggetti separati, non potevano frequentare i mercati, i templi, i trasporti pubblici, le scuole. Non potevano sposare persone di casta e soprattutto erano praticamente schiavi dei proprietari di terre e dei saukar, gli strozzini delle campagne indiane, che imprestano riso o rupie col 100 per cento d’interesse annuo.


Oggi l’India ha fatto un buon cammino di sviluppo e di liberazione dei suoi poveri, ma all’inizio degli anni sessanta le condizioni di vita dei paria erano davvero miserabili. Fra questi poveri l’inizio della redenzione sociale è venuta dalle missioni cristiane, che hanno introdotto la scuola per i paria, l’assistenza sanitaria, hanno creato cooperative, «banche del riso», assistenza legale per i contrasti di terre e varie altre istituzioni di sviluppo. Soprattutto, attraverso il Vangelo, hanno dato ai poveri una coscienza della loro dignità e della necessità di unirsi per ottenere il rispetto dei propri diritti. In queste regioni dell’Andhra Pradesh c’è stato e in parte c’è ancora un movimento di conversione dei paria alla fede cristiana, che rappresenta per loro una crescita sociale e l’ingresso in una comunità rispettata e che aiuta. Naturalmente questa conversione al cristianesimo, che avviene ma per interi villaggi, non è vista bene dagli indù proprietari di terre.
Nel dicembre 1964 ero in visita alla missione di Kammameth e il padre Augusto Colombo di Cantù (Corno) mi aveva preparato il villaggio paria di Beddipally da battezzare. Vi siamo andati un sabato mattino in tre missionari e quattro suore per la cerimonia del Battesimo, preparato da due anni di catecumenato. Il povero villaggio di capanne di paglia e di fango era in festa, i 162 paria raggianti di gioia: danze, canti, pifferi, flauti, tamburelli, festoni di carta colorata alle porte e alle finestre. E poi, naturalmente, il grande pranzo a base di riso e maiale arrostito, nella piazza, nella cappella che serve anche da sala comunitaria e sui prati vicini.
Torniamo a Kammameth la sera, contenti anche noi della cerimonia e della felicità di quei nuovi cristiani. Il pomeriggio del giorno dopo, domenica, giungono da Beddipally tre giovani in pianto: «Venite subito al villaggio», ci dicono, «là è successo il finimondo, ci sono anche feriti e abbiamo perso tutto». Vi andiamo con due jeep e troviamo il villaggio quasi distrutto, la gente piangente e disperata, alcuni feriti e molti acciaccati per le bastonate ricevute.
Era successo questo: gli indù dei villaggi vicini, gente di casta e proprietari terrieri, non avevano visto bene la conversione di Beddipally. Forse c’erano anche altri motivi di rancore, fatto sta che la domenica all’alba sono venuti armati di bastoni e hanno cominciato a bastonare tutti, uomini, donne, vecchi, bambini; poi hanno distrutto numerose capanne e sporcato i muri della cappella-sala comunitaria.
Mentre le suore curavano i feriti e distribuivano i primi aiuti, padre Colombo chiama i capi famiglia e dice loro che il giorno dopo sarebbe andato dal giudice a Kammameth a denunziare l’accaduto. Ma si sente rispondere: «Padre, noi non vogliamo nessuna vendetta. Tu ci hai detto che il Battesimo è il più grande dono di Dio e che la Croce è il segno di chi segue Gesù Cristo. Ecco, noi vogliamo soffrire qualcosa in silenzio per ringraziare Dio del Battesimo. Perciò non andare dal giudice, aiutaci e ricostruiremo tutto noi, ma senza chiedere punizione per i nostri persecutori. Non ci hai detto tu che dobbiamo perdonare le offese ricevute, come ha fatto Gesù?».

Il ricordo di quel giorno ancora mi commuove. Ho pensato tante volte: chissà se noi, cristiani d’Italia, con tutta la nostra scienza e teologia millenaria, avremmo la forza di perdonare come i giovani cristiani di Beddipally! Eppure lo diciamo tutti i giorni: « Perdona a noi i nostri debiti, come noi perdoniamo ai nostri debitori ». Ecco la forza del Natale, vissuto come lo vivevano i primi cristiani e ancor oggi lo vivono in tante parti del mondo missionario, dove la Chiesa nasce nella persecuzione. In Occidente noi cristiani siamo liberi di vivere e praticare la nostra fede, ma abbiamo perso l’entusiasmo della fede e il senso della “Rivoluzione dell’Amore”, portata dal Bambino Gesù nella storia dell’umanità. Auguro a tutti Buon Natale, chiedendo al Bambino di Betlemme di dare anche a noi la Grazia di ricevere lo Spirito Santo che trasformi in senso evangelico tutta la nostra vita.

Piero Gheddo

I missionari italiani e la Nuova Evangelizzazione

“Articoli di denunzia ce ne sono molti, ma abbiamo voluto premiare i racconti dove emerge il bene, nonostante le situazioni di sofferenza che accompagnano la quotidianità”. Così il presidente dell’Ucsi di Verona, Lorenzo Fazzini, il sabato 17 dicembre ha presentato i servizi giornalistici vincitori della XVII edizione del “Premio nazionale Natale UCSI” (Unione cattolica della stampa italiana), premiati nella Sala degli arazzi del Comune di Verona: cinque giovani giornalisti (tre donne e due uomini!), che hanno prodotto articoli o servizi televisivi su realtà positive che educano al bene.

“Il Premio speciale “Giornalisti e società” per il giornalismo a servizio dell’uomo a padre Piero Gheddo. Un premio alla carriera che ha voluto riconoscere il suo ruolo di “patriarca” della stampa missionaria”. Così il comunicato dell’Ucsi. Il presidente della giuria, don Bruno Cescon, direttore dell’Ufficio comunicazioni sociali della Conferenza episcopale triveneta, che ha patrocinato il Premio, ha aggiunto: “Abbiamo premiato Piero Gheddo, che ha visitato i quattro angoli del mondo per raccontare, con penna arguta e autorevole, la solidarietà di tanti uomini e donne di buona volontà, dediti all’altro in nome di Dio o della semplice e comune umanità”.

Nel discorsetto di accettazione ho detto che ringrazio per questo riconoscimento, che va a tutti i 13.000 missionari italiani nel mondo (preti, fratelli, suore, volontari laici), perché in 58 anni di giornalismo non ho fatto altro che portare alla ribalta il loro lavoro, visitandoli in molti paesi in Asia, Africa, America Latina e Oceania. Nel mondo globalizzato in cui stiamo vivendo, i missionari italiani sono un ponte di solidarietà e di scambi fra il popolo italiano e tanti altri popoli, non solo nel senso di aiuti dall’Italia ai poveri nel Sud del mondo, ma anche, e oggi soprattutto, di testimoniare e comunicare in Italia le ricchezze dei popoli fra i quali nasce la Chiesa. Ho raccontato che un missionario, reduce da quarant’anni di Bangladesh, mi dice
che nella sua vacanza italiana “mi chiedono sempre se faccio pozzi, aiuto gli affamati, costruisco scuole e cose del genere, mentre io vorrei comunicare che là dove nasce la Chiesa lo Spirito Santo soffia con forza e crescono cristiani entusiasti della fede, che diventano missionari fra i loro conterranei”.

La solidarietà è dare e ricevere. I missionari vengono mandati tra i popoli non cristiani per portare la “Buona Notizia” di Gesù Cristo. Poi fanno anche molte opere sociali, educative, assistenziali, di promozione umana, ma anzitutto annunziano e testimoniano la salvezza in Cristo, l’unica ricchezza che abbiamo. E i giovani cristiani delle missioni, sebbene ancora ai primi passi nel cammino di una vita cristiana, rimandano a noi il loro esempio di entusiasmo nella fede. Sanno poco o nulla del cristianesimo, ma sono molto più sensibili alla novità del Vangelo che la nostra gente cattolica da duemila anni.

I vescovi italiani, nella “Nota pastorale“ pubblicata dopo il IV Convegno ecclesiale nazionale di Verona dell’ottobre 2006, hanno scritto (pagg. 7-8): “Desideriamo che l’attività missionaria italiana si caratterizzi sempre più come comunione-scambio tra Chiese, attraverso la quale, mentre offriamo la ricchezza di una tradizione millenaria di vita cristiana, riceviamo l’entusiasmo con cui la fede è vissuta in altri continenti. Non solo quelle Chiese hanno bisogno della nostra cooperazione, ma noi abbiamo bisogno di loro per crescere nell’universalità e nella cattolicità.


Di fronte ai cambiamenti della stagione presente, abbiamo molto da imparare alla scuola della missione, dalle scelte e dalle esperienze delle Chiese sorelle, che da tempo sono provocate dalle dinamiche del dialogo interreligioso e della multiculturalità. Chiediamo pertanto ai Centri missionari diocesani a far sì che la missionarietà pervada tutti gli ambiti della pastorale e della vita cristiana”.

Belle parole, ma che faticano a trovare applicazioni concrete nella vita ecclesiale diocesana e parrocchiale. Il mio “giornalismo missionario” è sempre stato orientato su questo binario e ringrazio l’Ucsi che, attraverso il Premio alla carriera, rilancia in qualche modo questo ideale che può ispirare e aiutare la Nuova Evangelizzazione del nostro popolo.


Piero Gheddo

Elena Frassinetti – Ha sofferto la Passione di Cristo per i preti

Il Vangelo è la “Buona Notizia”, una vita secondo il Vangelo rallegra il cuore ed evangelizza chi viene a conoscerla. Per questo ne scrivo. Il 13 dicembre 2011 sono stato a Genova per il funerale di Elena Frassinetti (1919-2011), religiosa delle Figlie del Cuore di Maria (nate a Parigi nel 1792 durante la Rivoluzione francese), che viveva la sua vocazione in famiglia. Figlia di un dirigente della compagnia di navigazione Costa, con la sorella Rosetta (1916-2006) avevano avuto in casa e nella vicina parrocchia un’educazione profondamente religiosa. Due donne veramente casa e chiesa. Non si erano sposate, hanno dedicato tutta la vita alla famiglia (assistendo a lungo padre, zio e mamma), alla Chiesa e al prossimo, in un severo regime di austerità. Le ho conosciute il 15 agosto 1982 nella giornata missionaria per il lebbrosario di Marituba in Amazzonia nella loro parrocchia del Carignano a Genova e le ho sempre frequentate. Non avevano frigorifero né radio né lavatrice, né televisione. Erano  abbonate ad “Avvenire”, al settimanale diocesano di Genova e a qualche rivista religiosa. Il grande appartamento non aveva nemmeno l’impianto di riscaldamento. D’inverno vivevano in cucina, andavano a letto con la borsa dell’acqua calda. Dicevano che la mortificazione è uno dei pilastri della vita cristiana.
Vivevano ritirate, hanno sempre aiutato la loro parrocchia del Sacro Cuore e di S. Giacomo, i poveri, a volte anche la Curia diocesana. Rosetta era capace di fare i conti, andava negli uffici a sbrigare faccende burocratiche; e come infermiera  assisteva gli ammalati che si rivolgevano a lei. Elena faceva il catechismo e ricordava spesso i preti genovesi che aveva avuto suoi alunni. Ma di Elena ricordo soprattutto che da giovane religiosa aveva chiesto a Dio la Grazia di poter soffrire la Passione di Gesù per i preti e le suore in difficoltà e il Signore l’ha presa in parola. Soprattutto negli ultimi 6-7 anni ha sofferto dolori fortissimi alla schiena e al bacino: una vertebra si era spostata per un sforzo eccessivo nell’alzare Rosetta da terra. Elena camminava tutta storta, poi in un girello sostenuta dalle stampelle e infine non poteva assolutamente stare in piedi e nemmeno seduta. Aveva un’anemia fortissima e in settembre è stata ricoverata in ospedale, gli intestini si sono bloccati e non poteva essere operata. L’hanno rimandata a casa perché dicevano: “Non dura tanto”. In casa, nel suo letto, è cominciata una vera Via Crucis durata più di due mesi, con dolori lancinanti giorno e notte. Morfina e altri anti-dolorifici non le facevano più nulla, i medici stessi si stupivano di questo. Nutrita con flebo,  non poteva mangiare nè bere nulla. Nelle ultime settimane le si era bloccata la mano destra, poi anche la mano e il braccio sinistro. Tutti i  giorni riceveva l’Eucarestia, alla fine solo un frammento.
La badante bulgara, signora Elsa (“Una mia figlia non potrebbe fare di più per me”, diceva Elena), che la accudiva dal 2006 ha detto: “E’ morta molto serena e anche nella morte ha conservato un sorriso sul volto. Il giorno prima di morire le avevo detto che pregavamo perché potesse per Natale incontrare la sua sorella Rosetta, il papà e la mamma. E lei ha fatto un bel sorriso, era contenta di questo”.
Suor  Rita delle Figlie del Cuore di Maria, infermiera in vari paesi africani, ha conosciuto Elena nel 2004 quando è andata a Genova nella casa della sua congregazione. Mi dice: “Elena mi ha detto che quand’era giovane aveva chiesto al Signore di renderla degna della sofferenza. Questo mi ha colpito. E mi confidava: ho offerto la mia vita e ho chiesto al Signore di soffrire la Passione di Cristo per i sacerdoti e i religiosi in difficoltà”. Anche a me Elena ha raccontato spesso la storia di questa sua richiesta a Dio. Quando andavo a trovarla, le portavo l’Eucarestia e passavamo più d’un’ora nella sala, pregando e riflettendo assieme sul mistero della Croce. Verso la fine diceva: “Il Signore mi ha presa in parola, soffro con Lui sulla Croce e lo faccio volentieri per i sacerdoti e i religiosi in crisi”. Negli ultimi tempi, per telefono diceva: “Piero, prega il Signore che venga a prendermi presto!”. Cara Elena, ora che sei in Paradiso, è bene che si conosca il tuo modo di aiutare la Chiesa e i suoi consacrati. I buoni esempi sono Vangelo vissuto ed evangelizzano.
Piero Gheddo

Il CAV – 13.000 bambini salvati dall'aborto

Non si è mai finito di conoscere e ammirare i personaggi e le innumerevoli iniziative che nascono dalla fede in Cristo e nella Chiesa. Sabato scorso 3 dicembre, al “Circolo della Stampa”, ritrovo abituale dei giornalisti di corso Venezia 48 a Milano, ho conosciuto la signora Paola Marozzi Bonzi, fondatrice e direttrice del Centro di Aiuto alla Vita (CAV) della clinica Mangiagalli di Milano, che in 27 anni ha salvato 13mila bambini dall’aborto
L’incontro al Circolo della Stampa ha celebrato il primo anniversario del giornale on line “La bussola quotidiana”, il cui direttore Riccardo Cascioli ha lanciato la battaglia culturale contro l’aborto che, dopo i puntuali interventi di Massimo Introvigne e di Luigi Amicone (direttore del settimanale Tempi), ha toccato il suo vertice con la commovente e coinvolgente testimonianza di Paola Bonzi, consulente familiare e mamma di tre figlie, fondatrice e direttrice del Centro di Aiuto alla Vita.
Ho conosciuto brevemente la signora Paola che si è presentata dopo che avevo per un’ora risposto alle domande di Gerolamo Fazzini sul perché la missione alle genti oggi e cosa le giovani Chiesa nel Sud del mondo insegnano alla nostra Chiesa italiana. Paola mi ha detto: “Lei padre ha parlato dei missionari che fanno nascere la Chiesa dove ancora non esiste; io parlo dei volontari e volontarie del CAV che convincono e aiutano a generare il figlio mamme che sono in difficoltà e spesso tentate di abortire”. L’entusiasmo di questa mamma carismatica per la missione di salvare bambini e le rispettive mamme mi ha colpito. Anche questa è una “missione” voluta e benedetta da Dio. Ho poi letto il suo libro “Oggi è nata una mamma – Storie e sfide del Centro di Aiuto alla Vita Mangiagalli”, con la prefazione di Giuliano Ferrara (San Paolo 2009). Il CAV a Milano ha una solida fama e vive per l’aiuto di molti volontari e  volontarie e benefattori.
E’ nato nel 1984 per a aiutare ogni donna a scegliere la vita ed ogni bambino ad essere accolto con gioia. Una maternità imprevista, il disagio economico, l’assenza o la lontananza di amici e parenti, l’eventuale mancanza di un partner, possono far sì che l’attesa di un figlio venga vissuta con paura, ansia, preoccupazione ed un profondo senso di solitudine. Obiettivo dell’associazione è di accompagnare le donne alla nuova condizione di madre, sostenerle psicologicamente e materialmente fino all’anno di vita del bambino, aiutandole così a  superare le difficoltà contingenti e ad impostare la relazione col proprio figlio.
Il progetto di aiuto proposto, personalizzato sulla base delle necessità di ogni donna, può comprendere vari interventi: il sostegno psicologico, la consulenza dell’educatrice e dell’ostetrica per aiutare la mamma e il bimbo a crescere bene insieme, la fornitura di tutto ciò che occorre al neonato (pannolini, corredini, attrezzature) e di ciò che deve garantire il benessere della famiglia (“borsa della spesa, un sussidio di 200 Euro al mese erogato per 18 mesi), l’ospitalità temporanea.
Il CAV opera dal 1984 all’interno della Clinica Mangiagalli a Milano. I risultati raggiunti in 26 anni sono: 15.204 donne incontrate, 13.120 bambini nati, 272 nuclei familiari ospitati fino alla raggiunta autonomia abitativa; 127 bambini iscritti ai nidi famiglia gestiti dall’associazione, aperti nel 2004; 6.600.064,49 Euro destinati a sussidi in denaro. Nel 2010 le nuove utenti sono state 1.688, i bambini nati e seguiti con progetti di aiuto 995.
Paola Bonzi ha commosso parlando in modo appassionato delle “ragazze che hanno avuto una gravidanza non voluta, i sentimenti di insicurezza e di paura che sentono, di incertezza e di incapacità di portare avanti una vita, il bisogno di essere ascoltate e capite”. E aggiungeva: “Noi pensiamo subito di giudicare male casi come questi, che a volte finiscono nell’aborto, perché la società non le aiuta. Io dico: non giudichiamo, perché siamo tutti responsabili”. Ha toccato il cuore di tutti.
Mentre Paola parla penso: guarda quanto è grande il mondo e quanto multiforme la missione della Chiesa. Stamattina ho parlato della missione alle genti che per me è la vita, adesso vengo a conoscere la missione di aiutare le giovani donne a non abortire, a far nascere dei bambini e anche questa è Vangelo vissuto! La “Nuova evangelizzazione” dei popoli già cristiani da lunghi secoli sarà discussa nell’ottobre 2012 dal Sinodo episcopale della Chiesa e avrà bisogno di molti laici che prendano iniziative per testimoniare Cristo in tutti i campi della società italiana. Nessun battezzato può più essere un cristiano passivo, tutti debbiamo impegnare tempo, passione, intelligenza e denaro per dare una mano, anche con la preghiera, se vogliamo che l’Italia possa tornare ad essere un paese cristiano.
Piero Gheddo

La forza del Vangelo tra i pagani

 

                                   
La forza del Vangelo tra i pagani 5 dic
2011

 

     Padre Paolo  Ciceri è un missionario del Pime in
Bangladesh da quarant’anni, in vacanza in Italia. Gli chiedo di dirmi come e
perché i suoi tribali santal si convertono a Cristo. Racconta: “Nel giugno di
quest’anno ho inaugurato in un villaggio vicino a Rajshahi novanta casette in
muratura fatte per i miei cristiani. Prima vivevano in capanne di paglia e
fango,per loro è stato un grande balzo in avanti nelle loro condizioni di vita.
Abbiamo lavorato forte per finire prima che venissero le piogge del monsone.
Abbiamo anticipato la scuola dalle 6 alle 11 del mattino, poi i bambini
andavano con un cestino nei campi di patate appena raccolte. Anche in
Bangladesh seguono la legge dell’Antico Testamento, nei raccolti lasciano
indietro alcune patate per i poveri. I bambini venivano a casa con 6-7 chili di
patate raccolte nei campi, che erano la paga della loro giornata. Uomini e
donne e io stesso ci siamo impegnati allo spasimo. Molti mi dicevano che le
case costavano troppo, ma il Signore mi ha aiutato attraverso tanti amici e
benefattori

    Quando abbiamo finito, i capi famiglia sono
venuti a dirmi: “Prima di entarrenelle case ci vuole una benedizione solenne e
poi un dono così grande che ci viene da Dio e che noi non pensavamo possibile,
dobbiamo fare una riconciliazione fra le nostre famiglie, perché ci sono molte
inimicizie e antipatie e vogliamo rinnovare la nostra vita secondo il Vangelo”.
Sono rimasto stupito di questo, perchè se la 
cosa fosse partita da me era logica; ma loro stessi hanno proposto
questo atto di riconciliazione nella comunità cristiana. Il sabato precedente
la Messa di inaugurazione delle case, ci siamo radunati in chiesa, abbiamo
pregato chiedendo a Dio la grazia di perdonarci a vicenda e di rinunziare ad
ogni vendetta, che in quel popolo è una cosa sacra. Poi, famiglia per famiglia
venivano davanti a tutti e facevano una confessione pubblica delle loro
inimicizie, sgarbi, maldicenze, vendette e chiedevano scusa all’altra famiglia.
Era per me e per tutti una cosa edificante. Nella loro semplicità avevano
capito il Vangelo meglio di quanto glie l’avessi spiegato io. Le famiglie,
anche di parenti, si sono incontrate, perdonate, salutate e tornate in
amicizia.

    Il
giorno dopo, all’inaugurazione delle casette e poi al grande pranzo per tutti,
sono venuti amici e parenti pagani e quelli dei villaggi vicini. Hanno trovato
una comunità diversa da come era prima. Nel mondo pagano mancano espressioni
pubbliche di affetto e di gioia,in quel giorno i cristiani erano tutti
contenti, allegri, si salutavano, c’era un’atmosfera di pace e di gioia non
comune. Ho spiegato a tutti che le famiglie cristiane si erano rappacificate. Qualche
giorno dopo un capo di villaggio pagano, che è venuto alla festa mi diceva:
“Padre, noi non abbiamo mai visto nulla di simile. Fra di noi i rancori non si
aggiustano mai, alle vendette non si rinunzia mai, le inimicizie sono perpetue,
chi può vendicarsi lo fa volentieri e gode nell’umiliare e nel colpire il
proprio nemico. Qui ho visto una felicità che non ho mai visto. Mandaci un tuo
catechista perchè vogliamo capire cosa dice il vostro Vangelo”. Da qui nasce la
conversione di un villaggio. Per noi missionari la vita ci mette davanti a
della gente che è più sensibile alla novità del Vangelo che la nostra gente
cattolica da duemila anni.

                                                                  Piero Gheddo