Il Beato Clemente: “Venite ragazzi ad aiutarmi!

Parlando con un giovane “animatore vocazionale” milanese mi dice che oggi tutti lamentano la mancanza di preti e di suore, ma pochi si rivolgono direttamente ai giovani proponendo di consacrare la loro vita a Dio. Alla domenica V° di Quaresima nella parrocchia e oratorio di Cornate d’Adda (provincia di Monza-Brianza, diocesi di Milano, ma rito romano) si celebrava il “Vismara Day”,  con varie attività “missionarie” in oratorio al pomeriggio. Al mattino ho celebrato la Messa dei ragazzi leggendo il Vangelo di Giovanni (12, 20-33) dove Gesù dice: “Se il chicco di frumento caduto in terra  non muore, rimane solo: se muore produce molto frutto. Chi ama la sua vita la perde e chi odia la sua vita in questo mondo, la conserva per la vita eterna. Chi mi serve mi segua…”.

Ho raccontato in breve la vita del Beato Clemente Vismara: ha seguito Gesù di cui era innamorato, è diventato sacerdote del Pime e mandato in Birmania (Myanmar) fra le tribù Akhà, Lahu e Shan. In 65 anni di missione si è innamorato anche di questo popolo, che viveva ancora in epoca preistorica; ha seguito Gesù sulla via del Calvario: ha patito la fame e la sete, si è adattato a cibi ripugnanti, per i primi otto anni di missione dormiva in un capannone di fango e paglia e quando pioveva apriva l’ombrello perché non gli piovesse addosso. A poco a poco, fidando nella Provvidenza (pregava molto!) e donandosi totalmente al suo popolo, nella diocesi di Kengtung ha fondato cinque parrocchie (o missioni): Monglin, Mong Phyak, Kenglap, Mong Ping, Tongtà, ai confini con Cina, Laos e Thailandia.

In ciascuna di queste parrocchie ha lasciato qualche migliaio di cristiani e le strutture murarie necessarie, all’inizio portando dai villaggi in missione i bambini orfani e quelli denutriti, ammalati, handicappati, gemelli rifiutati dalla gente. Li educava umanamente e cristianamente con l’aiuto delle suore di Maria Bambina, che hanno fatto scuole, dispensari medici, ospedali, la promozione delle donne in tribù dove la donna non contava nulla. Ho parlato di suor Battistina Sironi di Trezzo d’Adda (vicino a Cornate), che ha vissuto 33 anni vicino a padre Clemente e dopo la sua morte mi diceva che la missione manteneva più di 300 persone,tra bambini, poveri e vedove cacciate dai villaggi. Il vescovo e i confratelli dicevano a Clemente di non prendere più poveri e bambini perché in certi mesi di carestia non si trovava il riso. Lui rispondeva: “I bambini e i poveri non sono miei, ma di Dio. Ci pensa lui a mantenerli”. Scriveva molte lettere e articoli per cercare aiuti, ma non contava mai i soldi che aveva e non faceva preventivi né bilanci consuntivi. Diceva: “Se contiamo i soldi vuol dire che ci siamo attaccati e non ci fidiamo della Provvidenza”.

La vita di Clemente è un’avventura affascinante, in un territorio della Birmania tormentato dalla dittatura militare e dalle guerriglie tribali, dal brigantaggio e dal commercio dell’oppio, da carestie, pestilenze e mancanza di assistenza sanitaria. E poi, l’isolamento dal resto del mondo (riceveva e spediva la posta una volta al mese) e in certi periodi, la persecuzione.

La Chiesa ha beatificato padre Vismara il 26 giugno 2011 in Piazza Duomo a Milano, per proporlo come missionario modello, che ha dato la vita a Gesù e al suo popolo. Il Beato Clemente era sempre contento e sorridente, non si lamentava mai. Diceva che Dio dà a ciascuno la sua croce e bisogna portarla con pazienza e con gioia. Aveva però un cruccio, un dispiacere che spesso manifestava nelle sue lettere. E’ morto nel 1988 a 91 anni e diventando vecchio leggeva che in Italia diminuivano le vocazioni al sacerdozio e alla vita consacrata e si chiedeva: “Quando morirò,  chi verrà a prendere il mio posto? “.

In una lettera ai giovani e alle ragazze scriveva: “Ragazzi, venite ad aiutarmi. Io vi attendo a braccia aperte: venite, andremo per il mondo a rendere felici gli infelici. Raccoglieremo tutti senza chiedere il nome, senza chiedere la fede, non chiederemo nulla: a noi basta lenire il dolore, fugare la miseria, donare la speranza e la vita”.

Cari ragazzi che mi ascoltate, questa è la domanda che Clemente oggi fa a voi tutti e alle vostre famiglie. Cornate ha già dato diversi preti e suore alla Chiesa e alla missione. In questa Messa abbiamo letto la parola di Gesù: “Chi mi ama mi segue”. Voi che avete ancora la vita da spendere, quando pregate mettetevi davanti a Gesù e ditegli: “Signore, cosa vuoi che io faccia da grande? Io sono pronto, se mi chiami a seguirti nella vita sacerdotale, religiosa e missionaria, io sono pronto a dare la mia vita per te”.

E  voi,  cari genitori cristiani, cari nonni e nonne, se Dio chiama un vostro figlio o una vostra figlia, un nipote o nipotina, non pensate che vi chiede un sacrificio, perché vi fa una grande grazia. Il prete, il fratello e la suora sono la benedizione di una famiglia. Educate i vostri figli e figlie ad una vita di fede e parlategli anche di questa ipotesi, che il Signore Gesù li chiami con sé, per testimoniare e annunziare ai popoli l’amore di Dio per tutti. Ricordatevi: Dio non si lascia mai vincere in generosità.

Piero Gheddo

L’esperienza di un missionario indiano in Amazzonia

Ormai è provato. Dall’Asia e dall’Africa verranno i missionari per ricondurci alla fede in Cristo o, in alternativa, per convertirci ad Allah e al Corano. Un esempio su tanti altri. Nell’Amazzonia brasiliana sono presenti cinque missionari indiani del Pime, sette in Brasile. Ecco cosa dice padre Nallamelli Prakasa Rao, 43 anni, in Brasile dal 2001 e parroco a Mazagào dal 2006. Nato nel 1969 ad Annadevarapeta (Andhra Pradesh), da una famiglia cattolica fuori casta, è entrato nell’Istituto dopo essersi laureato in scienze politiche. Gli chiedo anzitutto cosa dicono i suoi genitori che lui è missionario nel lontano Brasile.

“Mamma e papà preferivano che io diventassi sacerdote in India, ma mi hanno lasciato andare dove Dio mi chiamava. Papà è morto, ma la mamma mi dice sempre: “Noi abbiamo ricevuto la fede dai missionari italiani, adesso vai ad aiutarli a portare Gesù a chi ancora non lo conosce”. La mia famiglia e il mio villaggio sono fieri di aver dato un missionario alla Chiesa”

Il Vangelo è stato portato nell’Amapà dai portoghesi nel 1700 (l’antica cattedrale di Macapà è del 1761). La parrocchia di padre Nallamelli è nella diocesi di Macapà  (estesa metà Italia), fondata dai missionari del Pime a nord dell’estuario del Rio delle Amazzoni. Il territorio della parrocchia è vastissimo, tutto fiumi e foreste, con circa 17.000 abitanti, 10.000 dei quali nella cittadina di Mazagào, gli altri dispersi in una settantina di piccole comunità lungo i fiumi. La parrocchia è stata iniziata dai missionari tedeschi fra le due guerre mondiali, nel 1948 sono venuti i missionari del Pime, che hanno messo il parroco.

–  In città, dice padre Prakasa, abbiamo la chiesa matrice e poi cinque cappelle in quartieri periferici. Ho con me padre Arcangelo Vanin che si interessa della catechesi e dell’apostolato soprattutto in città. Il 90% dei miei parrocchiani sono battezzati e sentono fortemente l’appartenenza alla Chiesa cattolica, ma diversi vanno anche nelle sette che ormai invadono tutto il Brasile. In città la partecipazione alla Messa domenicale è di circa il 13-15%, nell’interno quando viene il prete vengono tutti. Nell’interno c’è ancora una vita religiosa tradizionale, nella città c’è più secolarizzazione e poi prevalgono le mode moderne anche in Amazzonia.

–    Cosa vuoi dire con “mode moderne”?

–    Voglio dire che radio e televisione, cinema, cellulare, computer, internet, discoteche, collegano con tutto il mondo, c’è il rischio di vivere una vita virtuale. La secolarizzazione rende le persone e le famiglie come in Italia. Sono cattolici, ma la fede viene dopo tante altre cose e la vita moderna non favorisce la vita cristiana. I battesimi in un anno sono 700-800, ma i matrimoni sono pochissimi, l’anno scorso ne ho fatti solo quattro. La moda occidentale di non sposarsi ma di convivere è arrivata anche qui nel profondo dell’Amazzonia! Il grande problema della parrocchia è che dopo la Cresima i ragazzi vanno via, non li vedi più. Se vengono cresimati 70 ragazzi, tornano in chiesa una decina.

– Nelle famiglie si prega assieme?

–    Le famiglie cattoliche hanno nella casa l’altarino domestico con i loro santi, e loro pregano, dicono il rosario e poi c’è la grande tradizione delle feste popolari religiose. Ad esempio l’8 dicembre abbiamo la festa dell’Immacolata, protettrice della città. Al mattino la processione e la Messa solenne; nel pomeriggio fanno la festa civile, con bevute, danze e altro.

– Ci sono ancora le comunità di base?

–    Sì, sono essenziali per mantenere la fede, la preghiera, gli incontri, ecc. Una volta l’anno a Macapà le comunità di base si riuniscono e fanno il programma annuale e in questo incontro spiegano bene cosa fare, come andare avanti. La grande maggioranza di queste comunità di base, nei villaggi dell’interno non hanno la Messa. Però tutte le domeniche si riuniscono per pregare e leggere la Parola di Dio. Tutte le comunità hanno la cappella di legno, alcune in muratura ma poche. Tutte le cappelle hanno la devozione molto grande a N.S. del Perpetuo Soccorso e fanno la novena. Il mio popolo ha la fede, ma la vive poco.

– Come visiti le comunità dell’interno?

–    In genere in barca, alcune in auto, almeno due volte l’anno. Sono 70 comunità molto disperse, faccio battesimi, prime comunioni, cresime, confesso, celebro Messe e facciamo anche processioni. Hanno preparato tutto e io dò i sacramenti. Le maggiori comunità hanno il catechista, ma quando ho preso la parrocchia nel 2005 parecchi di questi catechisti non sapevano nemmeno leggere. Adesso è molto meglio perché ci sono molte scuole e i giovani sanno tutti leggere e hanno una mentalità più moderna, più evoluta. Ho con me un diacono permanente molto bravo, che viene in tutti i viaggi. Lui cura la liturgia, i canti, le cerimonie, insegna il catechismo, mi aiuta molto. Poi abbiamo il pilota e motorista della barca.

–    Economicamente, come te la cavi?

–    La parrocchia è sempre stata in passivo. La gente è buona e vuol bene al prete, ma è troppo povera in quanto non ci sono attività che producono ricchezza. I padri italiani del Pime chiedevano aiuti agli amici dell’Italia. Io ho preso questa parrocchia ma la mia famiglia e il mio villaggio in India sono poveri, mi mandano qualcosa ma non possono di più. Le spese sono tante perché ogni mese vado con la barca a visitare le 70 comunità lungo i fiumi, che aiutano con il “dizimo”. Questo aiuto basta per comperare gasolio e pagare il motorista, ma tutto il resto rimane scoperto. Ogni mese noi spendiamo 6.000 reais che corrispondono a 2.500 Euro più o meno. Il passivo è di 2000-2500 reais, cioè 1500 Euro di spese vive, poi c’è tutto il resto.

– La diocesi non dà nulla alla parrocchia?

–    No, ho chiesto alla diocesi un aiuto, ma non possono darmi niente. Da due anni è venuto con me padre Arcangelo, che riceve aiuti, ma non bastano. Per esempio, nel gennaio di quest’anno abbiamo chiesto il preventivo per aggiustare la nostra barca a motore che è vecchia e serve per visitare le comunità. Il preventivo è di 17.000 reais (circa 8.000 Euro) perché bisogna cambiare diversi pezzi del motore. Ma questi soldi non li abbiamo, ogni volta che vado in giro rischio di rimanere fermo per guasti al motore.

– Tu hai delle suore che aiutano?

–    Avevamo tre suore, ma da cinque anni sono andate via perché il vescovo non può più pagare il salario.

–     Tu vieni dall’India e conosci bene i cattolici indiani. Fammi un confronto fra cattolici indiani e brasiliani della tua parrocchia.

–    La comunità indiana non è molto vivace, in Brasile trovo comunità più vivaci, ad esempio, funzioni in cui si canta e si battono le mani, più allegre. Il carattere indiano diverso. Per il brasiliano la fede è una festa, una gioia, per l’indiano, che vive in un paese pagano, è soprattutto un impegno di fedeltà e di buon esempio. Sì, i cattolici indiani sono molto forti nella fede e profondi, meditano spesso la Parola di Dio, sono attaccati alla preghiera, al prete, alla Chiesa. I brasiliani sono più superficiali nella fede, è una tradizione radicata, ma come fede passano facilmente alle sette. I brasiliani hanno una fede emozionale, sono più espansivi, quando cantano i cantici carismatici loro piangono, invece gli indiani sono più convinti, più profondi.

– Però la società cattolica brasiliana è più vicina al cristianesimo della società indiana?

– Senza dubbio, il Brasile è un paese cattolico, l’India no e questo si vede e si sente ovunque.

–    Sei contento della tua parrocchia?

–    Sì, sono molto contento, ringrazio il Signore e spero con l’aiuto di Dio di poter andare avanti. La gente mi vuol bene. Ho imparato che bisogna andare piano, adagio, loro hanno bisogno di tempo per venire, per rispondere. Ma mi vogliono bene. Sono contento di fare questo lavoro, che è abbastanza duro, ma mi dà soddisfazione. Il lavoro è duro soprattutto quando vado 10-15 giorni nell’interno a visitare le comunità, si viaggia e si vive sulla barca, mangiare e dormire a volte sulla barca, poi le zanzare, il clima, i pericoli di viaggi nell’interno sono tanti.

– Raccontami qualche episodio.

–    Una volta sono andato a  trovare una signora ammalata, povera povera, che a volte non hanno da mangiare. L’ho confessata e lei è rimasta molto contenta. Prima di andare via mi dice: “Padre io non ho niente da darti, ma ho una gallina che mi fa le uova”. E mi ha dato cinque uova. Questo mi ha toccato il cuore, ho capito che quella donna era veramente contenta. Il prete che si impegna davvero è sempre contento.

Piero Gheddo

Noi missionari e la “Nuova evangelizzazione”

Le buone notizie vanno date sempre, anche quando sembrano di scarso interesse. In Italia, come in tutte le Chiese in crisi di fede, c’è un calo sensibile dell’interesse per la missione alle genti. Siamo tutti giustamente preoccupati della decadenza della vita cristiana nella nostra Italia e nelle famiglie, molti dicono a noi missionari: “Perché portare Cristo ai non cristiani quando lo perdiamo qui in casa nostra?”.

Ecco la notizia che va contro corrente. Il primo Istituto missionario italiano, il Pime, è stato fondato a Saronno nel 1850 dal servo di Dio padre Angelo Ramazzotti, poi diventato vescovo di Pavia e patriarca di Venezia; ma nel 1851 l’Istituto (allora “Seminario lombardo per le missioni estere”) si era già trasferito a Milano. Però Saronno è rimasta la città delle nostre radici e ha dato all’Istituto numerosi missionari anche giovani.

Nel 1986 il Pime è tornato a Saronno in una casa offerta dal parroco, come comunità a servizio della parrocchia e per l’animazione missionaria, con due o tre missionari. Purtroppo, 25 anni dopo (nel 2011) si è deciso di ritirare i due missionari anziani e ammalati senza sostituirli per assoluta mancanza di personale! Pochi mesi fa sono andato col nostro superiore padre Bruno Piccolo a chiudere la casa, con molta sofferenza anche per le manifestazioni d’affetto di molte persone del quartiere. Oggi Saronno ha 40.000 abitanti e sei parrocchie, ma la grande cappella del Pime serviva bene un quartiere periferico.

Sabato 17 marzo scorso gli ”Amici del Pime di Saronno” mi hanno invitato per un pomeriggio di ritiro spirituale nella grande scuola delle suore Orsoline in centro città. Sono andato e pensavo di trovare 20-30 persone. Invece erano circa 130, anche con parecchi giovani e famiglie giovani. Il loro assistente spirituale padre Gianpiero Beretta ha celebrato la Via Crucis ricordando i martiri del Pime, poi ho tenuto una conferenza sul martirio nella Chiesa del nostro tempo e infine ho celebrato la S. Messa con un’omelia sull’impegno quaresimale di ciascun battezzato di aspirare alla conversione, che Giovanni Paolo II ha definito “il lento martirio di tutta la vita per essere sempre più simili a Cristo”.

Mi ha consolato sapere che questi Amici del Pime hanno un incontro formativo ogni mese, pregano per i missionari e le vocazioni, sostengono il seminario teologico dell’Istituto a Monza, mandano giovani a visitare le missioni, diffondono le riviste e sono in contatto con diversi missionari che aiutano nelle missioni e fanno circolare le loro lettere. Ho ringraziato il Signore di questa esperienza. In Italia, l’ideale missionario non è affatto tramontato. Siamo noi missionari che dobbiamo vivere e trasmettere questo ideale, proprio come strumento di rievangelizzazione del nostro popolo, perché “la missione rinnova la Chiesa, rinvigorisce la fede e l’identità cristiana, dà nuovo entusiasmo e nuove motivazioni. La fede si rafforza donandola!” (Redemptoris Missio, 2). Se invece la nostra presenza nella Chiesa italiana appare come quella di operatori sociali, perdiamo la nostra identità di missionari che annunziano e testimoniano Cristo, non evangelizziamo.

Piero Gheddo

“Grazie, amici buddisti!”

Il mio confratello padre Angelo Campagnoli pubblica “Grazie amici buddisti” col sottotitolo: “Vivendo con i buddisti ho capito meglio il cristianesimo” (Pimedit, Milano 2012, pagg. 82, Euro 5), nel quale non vuol parlare del buddismo dal punto di vista teorico, ma condividere la sua esperienza di vita con i buddisti, lungo tutti i 52 anni del suo sacerdozio e della sua vita missionaria. Prima in Birmania (1960-1966) quando venne espulso con più di 200 missionari giovani (18 protestanti, gli altri cattolici) dalla dittatura militar-socialista che dura tuttora; e poi, dopo il 1972, in Thailandia, dove Campagnoli venne  mandato con altri tre confratelli a iniziare una presenza missionaria del Pime nel Nord del paese. Nei primi tempi si dedicò al dialogo inter-religioso, frequentando monasteri e università buddiste e in seguito facendo anche conferenze sul cristianesimo nell’Università buddista.
Poi il vescovo di Chang Mai, del quale il Pime si era messo al servizio, l’ha mandato nella parrocchia di Phrae, cittadina capitale di provincia nel nord della Thailandia, nella quale ha fondato una grande scuola con più di duemila alunni in gran parte  buddisti ed ha fatto amicizia con la gente e i monaci buddisti.
Gli chiedo cosa vuol dire in questo piccolo libro. “In Italia – mi dice – molti pensano che più o meno tutte le religioni sono eguali, invece tra cristianesimo e buddismo, ci sono profonde differenze. Ad esempio, noi ci scandalizziamo giustamente per la divisione delle Chiese cristiane, ma il buddismo è molto meno unito. Nel solo Giappone ci sono 18 scuole diverse di buddismo, ciascuna delle quali dice che le altre sono sbagliate e nessuno si meraviglia.
“Fra cristianesimo e  buddismo vi sono molte cose che sembrano simili mentre sono profondamente diverse. Ad esempio, nel buddismo la distinzione tra bene e male è meccanica, fatalista, il karma; nel cristianesimo la vita dell’uomo è un rapporto con Dio. Quindi anche se i nostri comandamenti dal quinto in avanti li hanno anche i buddisti, però ti accorgi che è diverso. Il cristiano sa che il comandamento viene da Dio, padre misericordioso che mi ha creato e mi vuol bene e quella legge corrisponde al mio bene; il buddista non deve fare il male per paura, perché altrimenti paga la sua disobbedienza attraverso la legge del karma che verrà applicata nella prossima rinascita. Ecco la differenza. Il cristianesimo è un rapporto con Dio, è rispondere ad un amore che ci ha amato per primo; mentre nel buddhismo non c’è nessuno rapporto del genere: c’è una regola che è il karma, legge che non ha perdono”.
A Phrae padre Angelo è stato invitato dai monaci buddisti a fare loro corsi di cristianesimo. L’abate gli diceva: “Ci sono sempre più turisti stranieri che vengono a visitare il nostro monastero e ci chiedono di spiegare loro il buddismo. Invito te, che sei un prete cattolico bene inculturato in Thailandia, a spiegarci il cristianesimo, in modo che possiamo parlare a questi turisti in modo appropriato. Campagnoli faceva dei corsi di cristianesimo a questi monaci, diventando loro amico. E poi aggiunge: “Nello spiegare il cristianesimo, dicevano che io faccio un salto. Il mio non è un ragionamento logico, perché dico cose che non spiego. Io ribattevo che questa è la fede in Dio, che vuol dire fidarsi di Dio che mi ama. E loro dicevano: ma noi facciamo solo quello che capiamo”.
Il dialogo con i buddisti, questa l’esperienza di padre Angelo, è progressivo, non è un confronto tra le fedi religiose e le verità da credere, ma una graduale e vicendevole comprensione e il racconto delle proprie esperienze. A loro interessa la vita non la teologia. Dice: “Un atteggiamento battagliero che esprime in modo deciso e aggressivo le proprie idee è il modo più sicuro per allontanare il tuo interlocutore. Se gli chiudi la bocca con le tue ragioni vincenti, non lo vedi più, starà alla larga: ci tiene troppo alla sua serenità interiore. Mai tentare di dimostrare che la tua religione è migliore della sua: puoi dire tutto il bene che vuoi della tua, ma non fare mai il confronto”. E racconta questo aneddoto di uno sperimentato catechista cattolico. Un amico buddista  insisteva  perché gli dicesse quale era la religione migliore: il cristianesimo o il buddismo? Il catechista intelligentemente gli risponde: “E tu dimmi: è migliore la mia moglie o la tua?”. E la conversazione fini lì. Guai se gli avesse detto che è il cristianesimo, avrebbe forse rotto il rapporto di amicizia.
“Io ho scoperto queste cose frequentando i buddisti, dice padre Angelo. Il dialogo inter-religioso è un’esperienza difficile e delicata, siamo ancora ai primi passi in questo cammino”. E conclude raccontando un’immagine che usava il grande guru Buddhadasa: “La vetta a cui vogliamo e dobbiamo arrivare è unica, le vie di ascesa sono diverse e ciascuno pensa che sta salendo per quella giusta”. Ma, dico io, conclude Angelo, se Chi sta sulla vetta mi grida giù: “Guarda che questa è la via maestra, la direttissima, la garantita”, io non posso che voltarmi verso l’amico che sta salendo per un’altra via e trasmettergli quel grido dall’Alto. E se lui continua imperterrito la sua faticosa salita, non mi resta che alzare il capo e gridare verso Colui che sta sulla vetta: “Signore, dai una voce più chiara anche da quella parte!”. E con la mia voce magari un po’ strozzata, affidare al vento dello Spirito un “Arrivederci sulla vetta, amico buddista”. E questo non è relativismo, ma la speranza di incontrarci tutti al termine del nostro cammino poiché noi sappiamo che la salvezza di Cristo arriva a tutti, anche a quelli che non lo sanno”.
Piero Gheddo

Gesù risposta al desiderio di infinito

L’arcivescovo di Milano, card. Angelo Scola, il 7 marzo 2012, ha aperto gli incontri quaresimali dal titolo “Non di solo pane”, promossi dal Centro missionario Pime di Milano nel contesto delle celebrazioni per i 50 anni di fondazione, che hanno per filo rosso lo slogan “Contro la fame cambio la vita”.

Il cardinale, ha parlato ad un folto pubblico che riempiva la sala conferenze  (circa 230 persone) e si è detto contento di essere stato invitato a parlare al Centro missionario Pime, che ha frequentato a lungo in passato. “In particolare – ha detto -ricordo padre Giacomo Girardi col quale ho potuto collaborare in varie circostanze. Per me è anche commovente poter riannodare i rapporti di comunione affettiva con mons. Aristide Pirovano vescovo dell’Amazzonia e superiore generale del Pime, col lecchese padre Angelo Gianola e con Marcello Candia, del quale ho già potuto visitare la tomba nella parrocchia dei Santi Angeli Custodi; e sono anche onorato di poter parlare in questa sede del Centro missionario Pime, nella sua ricorrenza cinquantenaria, sede da cui si è generata per Milano, e non solo per Milano, una attitudine missionaria che è diventata cultura, favorendo così la comunicazione della fede. Perchè, come diceva il Beato Giovanni Paolo II, senza cultura, ma una cultura benintesa cioè radicata nell’esperienza, la fede non risulta convincente, soprattutto agli uomini d’oggi”.

L’arcivescovo di Milano è poi entrato nel tema della serata “Fame di mistero”, chiedendosi anzitutto cos’è il mistero, di cui gli uomini sentono fame. “La parola mistero è usata in senso metaforico. Il mistero è, diciamolo con una formula più accessibile, prima di tutto la voglia di vivere, la ricerca di qualcosa che risponda al desiderio profondo del nostro cuore. E questa ricerca dà all’uomo un carica di energia che orienta tutta la sua vita. L’uomo vuol dare volto concreto al mistero e tutti gli uomini convergono nella ricerca della felicità e della libertà, che sono i motori della nostra vita. Nel Novecento i motori di questa ricerca erano la ragione e la giustizia, nel mondo d’oggi, gli uomini portano nel cuore un immenso desiderio di felicità e di libertà. Questo – ha spiegato il cardinale – costituisce un’opportunità di evangelizzazione per la Chiesa, dato che esiste una sintonia profonda tra il messaggio del Vangelo e il sentire dell’uomo di oggi”.

Il card. Scola continua dicendo che questa voglia di vivere incontra oggi, nella società e cultura in cui viviamo, ostacoli continui. Un esempio: due giovani sposi che vivono il loro amore in modo totale, desiderano che questo amore fruttifichi, in  concreto desiderano un figlio. Mediante la loro libertà trasformano questo loro impeto di amore, questa voglia di compimento, in una scelta effettiva. Cosa che nella nostra Italia oggi, ahimé, si fa assai poco. Il gelo demografico della nostra società è gravissimo e purtroppo non ci rendiamo conto del fatto che il gelo demografico dell’Italia sembra già quasi irreversibile. Questa veramente è una tragedia.

Le mille e mille espressioni di realizzazione della fame dell’uomo d’oggi portano ad uno smarrimento del desiderio, un infiacchirsi della libertà. Le due parole di libertà e di felicità credo siano oggi le parole più in voga, più dette.  Però i cambiamenti che si sono verificati negli ultimi 20-30 anni, dopo la fine del “mondo moderno” e l’inizio del nostro “mondo post-moderno”, sono stati sconvolgenti e noi tutti ci sentiamo come pugili suonati, barcollanti, abbiamo smarrito ogni punto di riferimento. L’uomo ha messo le mani sulla genesi dell’uomo; siamo sottoposti, anche noi in Italia, con un ritmo violento ad un meticciato delle culture; oggi il collegamento istantaneo con ogni parte del mondo sconvolge i nostri ritmi di vita e di comprensione.

L’arcivescovo ha notato che questa situazione non può essere da noi affrontata con la nostalgia e il ritorno al passato, che producono solo lamento. I valori di felicità e di libertà sono quelli che Cristo propone ancor oggi, ma la Chiesa, anche per colpa nostra, viene  avvertita come qualcosa che tarpa le ali della libertà e  mortifica la ricerca di felicità. Ma Gesù ha detto: “Se il Figlio vi renderà liberi, sarete davvero uomini liberi” (Giov. 8. 36). La libertà non è scegliere senza contenuti , ma saper scegliere tra il bene e il male e il cristianesimo è il compimento dell’umano. Gesù ha assunto tutto l’umano e l’ha redento, il cuore del suo messaggio è di portare l’uomo alla felicità e alla vera libertà.

Oggi, nel tempo di pluralismo e di meticciamento culturale in cui viviamo, è soprattutto il tempo della testimonianza. Il che significa che il cristiano deve assumere tutto l’umano e che il cambiamento della società è possibile solo a partire da noi stessi. Se noi viviamo in  Cristo, diamo il nostro contributo al mondo nuovo che sta sorgendo. Il card. Scola ha poi portato alcuni esempi, dicendo che “bisogna avere il coraggio della proposta, chiamando ogni cosa col suo nome”. L’aborto è definito “interruzione di una gravidanza”, diciamo che in verità è “l’uccisione di un bambino vivo nel seno materno”; la teoria del genere che nella cultura moderna vuol confondere le carte, noi diciamo che la differenza sessuale tra uomo e donna è insuperabile perché il sesso è costitutivo dell’uomo.

La proposta cristiana dev’essere chiara: da un lato non intimistica, perché la proposta va fatta con “parresia” (cioè con convinzione, forza, entusiasmo); dall’altro evitando ogni “fondamentalismo”, perché “Gesù ha versato il suo sangue, non quello degli altri”. Come Gesù che chiamava gli uomini con dolcezza ma anche con decisione e senza tacere la verità. La stagione delle ideologie, grazie a Dio, sembra finita, quella delle utopie è tramontata. Nel recente passato si diceva che per cambiare il mondo bisognava cambiare “il sistema”, molti ci credevano e volevano fare la “rivoluzione”. Oggi si è capito che il cambiamento è possibile solo se incomincia da me. Noi cristiani dobbiamo mostrare, con la nostra vita, che la gioia di vivere e la felicità sono possibili solo mettendosi alla sequela di Cristo.

Piero Gheddo

Marcello Candia: “Signore, aumenta la mia fede!”

Siamo nel tempo della Quaresima e la Chiesa ci presenta la figura di Abramo, l’icona dell’uomo che ha fede e obbedisce a Dio, rischiando molto. Dio prova la sua fede:

-prima gli dice di abbandonare la terra in cui è nato, le sue proprietà, le conoscenze che aveva e il posto che occupava nella società e lo manda in un paese lontano, misterioso, con la promessa di farlo padre di un popolo numeroso.  Abramo parte da Ur e va dove Dio gli indica, fidandosi di lui.

-Poi lo mette alla prova dicendogli di sacrificargli il suo unico figlio, Isacco. Le religioni dei popoli che non conoscono Dio (come quelli delle Americhe pre-colombiane) chiedevano sacrifici umani e Abramo obbedisce a Dio accettando questa sua volontà. Quando Dio lo chiama risponde: “Eccomi!”.

Abramo rischia molto, perché ha fiducia in Dio, che premia la sua fede e la sua obbedienza e lo rende padre del popolo ebraico da cui nascerà, molti secoli dopo,  il Messia, il Salvatore dell’uomo. Anche per noi la fede è sempre un rischio€ come per Abramo: non è mai un possesso pacifico, ma una conquista quotidiana, continua, un dono di Dio che dobbiamo chiedere ogni giorno, “Signore aumenta la mia fede!” era la giaculatoria del servo di Dio” Marcello Candia. Io gli dicevo: “Marcello,di fede e hai tanta”; e lui rispondeva: “Piero, la fede non basta mai”.

Il Vangelo di San Marco presenta Gesù che prende con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li porta sopra un monte alto, in un luogo appartato e si trasfigura davanti a loro, brilla di una luce  straordinaria e le sue vesti sono bianchissime, “che nessun lavandaio potrebbe farle così bianche”. Nel Vangelo di San Marco, la Trasfigurazione è come uno spartiacque fra i due tempi della vitadi Gesù:

-Prima c’è il Gesù che cambia l’acqua in vino, che moltiplica i pani e i pesci, che guarisce i lebbrosi, i muti, i ciechi, gli indemoniati, calma le acque del lago. Un Gesù taumaturgo, diciamo un Messia potente e trionfante.

-Poi viene il crollo della sua umanità. Accusato ingiustamente, è arrestato

flagellato, coronato di spine, inchiodato alla Croce come un delinquente.

Per confermare la fede degli Apostoli in vista della Passione e della morte in Croce, in preparazione a quel finale che nessuno degli Apostoli immaginava, ecco che Gesù si trasfigura davanti a loro, per dare un altro segno della sua divinità, oltre a quello dei miracoli.

Cosa ci dice la Parola di Dio in questa Domenica? Che la fede è il fondamento della vita di ogni cristiano e che la fede vuol dire seguire Dio e seguire Cristo in ogni circostanza della nostra vita.

Tutti noi siamo stati battezzati e abbiamo ricevuto da Dio il dono della fede. Ma oggi dobbiamo chiederci: cosa conta Dio nella mia vita? E’ al primo posto oppure è un qualcosa che rimane secondario? E’ l’ispirazione che mi guida in tutte le scelte che faccio, oppiure rimane un fatto intellettuale e staccato dalla vita quotidiana?

Lo sappiamo tutti. Viviamo nell’epoca della secolarizzazione, della fede non si parla mai, Il mondo moderno ci porta a vivere come se Dio non esistesse.

Un esempio molto attuale. Il 1° marzo è morto in Svizzera Lucio Dalla, uno dei massimi cantautori italiani, ma anche un cristiano, un credente.

Il 2 marzo il quotidiano cattolico “Avvenire” aveva questi titoli o sottotitoli: “Ho ancora tanti dubbi ma Dio è una certezza” – Di sé diceva: “E’ Gesù il mio unico o punto fermo” – Quella fede nata tra i Domenicani – “Un  cercatore della verità” – Musicò i Salmi, cantò in scena per ben due Papi – Il suo portavoce Mondella: “Per lui la morte era solo la fine del primo tempo”. Nel giornale cattolico ci sono parecchi articoli sulla sua fede e di come la fede e la preghiera l’avessero aiutato molto nella vita, come diceva lui stesso.

Titoli e sottotitoli de “Il Corriere della Sera”: L’ultimo concerto e gli autografi ai fan – L’infarto dopo la colazione in albergo – “A sette anni restai incantato da Puccini” – Il genio che si sentiva un omino buffo – Aveva un sosia e lo mandava al Festivalbar  – Nella sua casa creò una “famiglia allargata” con sorelle e amici – Scoprì giovani talenti – “Era strano, aveva facoltà da pranoterapeuta”.

Ma la cosa strana è questa: Avvenire, oltre ai titoli e agli articoli sulla sua fede, aveva anche altri titoli e articoli sul genio musicale e sulle sue canzoni. Ne Il Corriere della Sera, sulla fede di Lucio Dalla non ci sono titoli né articoli e nemmeno alcun cenno: semplicemente la fede non esisteva. Ma allora, corrisponde a verità quanto testimonia Enzo Bianchi: “Aveva una fede fortissima e saldissima nell’aldilà, in Gesù Cristo, che sentiva come una presenza che gli dava senso”? E perchè il massimo quotidiano italiano (come pure altri giornali “laici” o “laicisti”) non ricorda nemmeno questo dato basilare nella vita di Lucio Dalla?

Scusatemi l’esempio, ma è solo per dire che noi viviamo in questo mondo ed è inutile lamentarsi. La Chiesa, specialmente in Quaresima, chiama tutti noi i battezzati alla conversione, cioè ad una fede che conti nella nostra vita. La crisi della Chiesa oggi è anzitutto una crisi di fede e bene ha fatto Benedetto XVI a indire l’Anno della Fede, che inizierà l’11 ottobre 2012, nel 50° anniversario dell’inizio del Concilio Vaticano II.

La crisi di fede nella Chiesa significa che per molti battezzati, fra i quali anche persone consacrate, la fede c’è, ma rimane una credenza sul piano intellettuale, che è ininfluente o poco influente nelle scelte che dobbiamo fare nella vita. Cioè non ci converte a Cristo, non ci fa innamorare di Cristo, una fede in Cristo che è staccata dalla vita. Secolarizzazione vuol dire questo: non più l’ateismo aperto e militante com’era a volte in passato, ma indifferenza, adesione acritica alle mode del mondo, materialismo pratico.

La prima volta che sono andato in Cina nel 1973, con una commissione tecnica ammessa anche  nel tempo della “Rivoluzione culturale” di Mao, non c’era una sola chiesa aperta. Alle varie guide chiedevamo: “Noi siamo cristiani vorremmo andare in una chiesa a pregare”. La risposta era sempre la stessa: “La Cina ha imparato a fare a meno di Dio”. Il nostro mondo “cristiano” rischia più o meno questa fine?

Piero Gheddo