Ci salverà la fede dei semplici

Questo bel titolo l’ho trovato su “Credere” della San Paolo, il giornale popolare che ogni settimana offre 100 pagine di notizie, articoli, riflessioni, interviste sui temi della fede. Ci sono settimanali di sport, di moda, di economia, di politica, di “gossip”, di automobilismo, ma è la prima volta, nell’”Anno della Fede”, che in Italia ogni domenica si trova nelle edicole un bel settimanale illustrato sul tema più importante per tutti noi e per la società: la fede in Cristo e nella Chiesa cattolica. Impresa editoriale coraggiosa, iniziata nella Pasqua di quest’anno, che merita di essere seguita e sostenuta e sta già avendo un buon successo in molte parrocchie di tutta Italia.

Il titolo “Ci salverà la fede dei semplici” è anche il messaggio che Papa Francesco trasmette con i suoi gesti e la sua parola, il “Papa popolare” che suscita l’interesse di tutti, anche dei non credenti e non praticanti. Ebbene, leggendo le pagine di “Credere” mi è venuto in mente un incontro che ho avuto nella seconda visita in Mozambico nel 1991. Il paese era bloccato dalla guerra civile: sparatorie, posti di blocco, attentati terroristici, villaggi bruciati, profughi in fuga, ponti fatti saltare sono realtà quotidiane, specialmente fuori delle grandi città. Ma ho potuto visitare quattro diocesi (Maputo, Beira, Quelimane, Nampula) e parecchie  missioni dell’interno. A Beira, la seconda città del Mozambico, il padre Bianco francese di cui ero ospite mi dice che i suoi cristiani sono gente semplice, ma hanno una fede molto viva. Gli chiedo di darmi qualche esempio e mi fa incontrare uno dei suoi catechisti, Antonio Macuse, che abita vicino alla parrocchia ed è responsabile della comunità cristiana di quel  quartiere lungo il mare. E’ un padre di famiglia con cinque figli che fa il pescatore in una cooperativa, sua moglie è l’infermiera del quartiere, anche lei credente. Due giovani pieni di vita e di fede. Antonio mi dice: “Siamo in guerra da molti anni e una delle piaghe della nostra città sono i bambini abbandonati, i “meninos da rua”, bambini di strada: non hanno più nessuno, né casa, né genitori. Vivono alla giornata, mangiano e dormono quando e dove possono”. Gli chiedo se sono tanti e risponde: “A Beira parecchie migliaia, su un milione circa di abitanti. Ma la nostra gente è buona, le famiglie sono accoglienti: hanno poco, ma quel poco lo distribuiscono volentieri. I “meninos da rua”, che in genere vengono dalla campagna, dai villaggi bruciati o assaltati dalla guerriglia, prima o poi riescono a trovare una famiglia che li accoglie. Io ho già cinque figli, ma, d’accordo con mia moglie, ne abbiamo presi altri cinque. Come si fa a lasciare un bambino per strada?” .

Antonio parla con grande naturalezza, come si trattasse di un fatto normale. Mi porta a vedere la sua abitazione: tre stanze più la cucina, i servizi e un balcone, in un palazzo a molti piani, costruito al tempo dei portoghesi ma già fatiscente. Mi pare impossibile che riescano a dormire in 12, ogni notte, in quelle tre stanze. Ed anche mangiare tutti i giorni. “Padre – mi dice Antonio – il Signore è buono ci ha sempre aiutati. Tanti ci aiutano anche per portare i bambini a scuola e sostituirci in casa quando siamo fuori per lavoro, ma senza l’aiuto della Caritas parrocchiale, non potremmo farcela. Oggi l’educazione dei miei cinque figli più grandicelli (la prima ha 16 anni) è più facile. Si sentono responsabili anche loro di questi nuovi fratellini e sorelline. Insegnamo a tutti le preghiere cristiane e preghiamo assieme a loro”. Nella casa di Antonio e Maria c’è il letto matrimoniale e due altri letti, dove dormono i maschietti e le femminucce più piccoli. Da sotto questi due letti, Antonio tira fuori le stuoie di paglia che stende per terra anche nel corridoio. “Ciascuno ha il suo letto e la sua coperta, dice, e sono tutti al riparo dalla pioggia”.

In Mozambico, una delle parole portoghesi più usate è “partilhar”, che significa “condividere”, farne parte a tutti. E’ il Vangelo tradotto in pratica, che diventa vita. L’ho sperimentato in varie circostanze. Ad esempio se dai una caramella ad un bambino va subito a cercare il fratellino o l’amichetto per farne succhiare un po’ anche a lui. Ho pensato spesso, durante il viaggio in Mozambico che l’Africa, il continente più povero e primitivo, è la riserva di umanità che Dio ha preparato per questo nostro tempo e sta offrendola a noi, popoli ricchi, più colti, più produttivi, più tecnicizzati, ma tanto aridi e dal “cuore duro”. La fede dei semplici, se diventa esemplare anche per noi, ci può salvare.

Piero Gheddo

Il missionario frustato dal demonio

Il missionario padre Dionisio Ferraro del Pime è nato a Casoni (Vicenza) nel 1944, è sacerdote dal 1970 e in Guinea Bissau dal 1972. E’ stato superiore regionale del Pime in Guinea (1981-1985). Oggi è parroco a Bambadinca, in ambiente totalmente pagano nella diocesi di Bafatà, la seconda in Guinea nata nel 2001. L’ho intervistato a Milano il 21 maggio 2013 e ha approvato questa intervista. Papa Francesco parla spesso del demonio, ma forse alcuni non credono nella sua esistenza. Chiedo a padre Dionisio di raccontarmi la sua drammatica esperienza:

“Nel 2011 ero venuto in Italia, rimanendo colpito dalla mancanza di fede in molti e Benedetto XVI aveva indetto l’Anno della Fede (11 ottobre 2011 – 24 novembre 2012). Tornando in Guinea a marzo, mi ero proposto di scrivere un opuscolo in criolo (lingua nazionale col portoghese) intitolato: “Signore, rafforzaci nella fede”. Mi serviva per la preparazione degli adulti al battesimo, ma andava bene anche per altri, fino all’ultimo capitoletto sulla Madonna nostra Madre nella fede. Circa 50 paginette. L’ho preparato e poi mi sono proposto di portarlo a Bissau in tipografia, ma non trovavo la giornata libera: 120 km. all’andata, con quelle strade ci vogliono circa 3 ore o anche più (e altrettante al ritorno)! A Bambadinca io vado a letto presto. Non abbiamo luce elettrica e nemmeno televisione, all’aperto ci sono le zanzare, così alle 21 vado a letto. Dormo bene e subito. All’una di notte mi sveglio, accendo la lampada e mi alzo: prego e scrivo fino a circa le 3, poi mi viene ancora sonno e dormo fino alle 5,30-6, senza mettere la sveglia.

“All’una di notte del 23 marzo 2011 mi alzo, rileggo l’opuscolo, mi piace e decido che il giorno dopo vado a Bissau dal tipografo per la stampa. Mi metto a letto piegato verso sinistra e quando sento che viene il sonno mi giro sulla destra e dormo. Da noi in Guinea, in stanze ben chiuse e senza luce, dormiamo senza nessun vestito o copertura per il caldo. Sto addormentandomi e sento delle frustate tremende sulla spalla sinistra, sul braccio, sul lato sinistro del corpo e sulla gamba. Grido dal dolore e dallo stupore e mentre qualcuno nel buio continua a frustarmi, cerco di proteggermi la testa con le mani e penso che dormo nella stanza di una casa in muratura, la porta è ben chiusa e le due finestre hanno le inferriate. Nessuno può entrare in stanza, mi viene in mente il demonio e grido: “Vade retro, Satana! Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo!”. E, magicamente, le frustate cessano. Grido ancora ma è inutile in casa non c’è nessuno. Sento sulla spalla sinistra e sul ginocchio che c’è del sangue, mi spavento e prego Gesù e Maria, accendo la lampada, mi guardo allo specchio e vedo il sangue. Mi lavo, mi asciugo, metto polvere di penicillina e una pomata antibiotica, la cura poi è andata avanti una quindicina di giorni. Sento molto dolore, ma questo non mi impedisce di pensare: vado alla porta, è chiusa a chiave dall’interno, le inferriate solide e intatte, guardo sotto il letto e nell’armadio, non c’è nessuno, nello stanzino del bagno nemmeno. Grido a me stesso e al Signore: “E’ il demonio, non vuole che pubblichi questo libretto”. Mi inginocchio e prego ancora.

“Mi rimetto a letto e il Signore mi manda di nuovo il sonno, quando squilla la sveglia mi alzo. Penso che debbo far vedere le ferite e il sangue al vescovo. Vado a Bafatà da mons. Pedro Zilli, italo-brasiliano del Pime, vede le ferite e sente il mio racconto, mi dice di pregare prima di andare a letto e dare la benedizione alla stanza; poi vado a Bissau e faccio vedere le ferite al superiore regionale del Pime in Guinea, padre Davide Sciocco, e anche lui mi dice di pregare. Più tardi l’ho poi raccontato al vicario generale della diocesi di Bafatà che è un prete “fidei donum” diocesano di Verona, don Luca Pedretti: “Tieni sempre l’acqua benedetta in camera e dai la benedizione”.

“Dopo questo fatto, ho pensato: “Il mio libretto è incompleto”. Così, dopo l’ultimo capitolo sulla Madonna nostra Madre nella fede, ne aggiungoun altro sul demonio. Ho citato alcuni testi biblici dell’Antico Testamento e poi Marco 1,13, Gesù va nel deserto 40 giorni poi è tentato dal diavolo; e ancora Marco 4, 15, Satana porta via la Parola di Dio seminata e altre citazioni con brevi commenti. Aggiungo: questi sono fatti biblici, che possono sembrare lontani da noi e non più attuali oggi. Invece sono confermati dalla mia esperienza. E racconto quel che mi è capitato: nella notte del 23 marzo 2011, Satana mi ha frustato perché non voleva che pubblicassi questo libretto”.

Dico a padre Dionisio che il suo racconto susciterà in Italia stupore, ma forse anche incredulità. Risponde: “Vi capisco perché voi in Italia non avete un’esperienza diretta e personale del demonio, ma tornando nella mia patria per un mese o due, mi accorgo di quanto il demonio è presente della società italiana, nelle famiglie, ma se ne parla troppo poco. Da noi in Guinea, un paese ancora pagano, la presenza di Satana non stupisce nessuno. Ci credono davvero e lo vedono dove c’è il male, l’odio, la violenza, la divisione, le mafie; e lo temono molto. Parlare di Satana alla nostra gente è utile e infatti, da quando è uscito questo mio libro, molti vengono a chiedermi altre notizie sul demonio ed entrano sempre più in una visione evangelica della vita. Cioè scoprono, toccano con mano, che Gesù Cristo è l’unico che possa liberarli dal demonio, il vero nemico di Dio e dell’uomo”.

Piero Gheddo

La gioia del missionario di annunziare il Vangelo

Il 17 maggio 2013 Papa Francesco, ricevendo i responsabili delle Pontificie Opere Missionarie, ha parlato del dovere di “tenere sempre viva l’attività di evangelizzazione, paradigma di ogni opera della Chiesa… Il Vescovo di Roma è chiamato ad essere Pastore non solo della sua Chiesa particolare, ma anche di tutte le Chiese. In questo compito, le Pontificie Opere Missionarie sono uno strumento privilegiato nelle mani del Papa”. Ed ha aggiunto: “Ci sono tanti popoli che non hanno ancora conosciuto e incontrato Cristo”. Annunziare Cristo a questi popoli è “un compito che spetta a tutti noi che abbiamo ricevuto il dono della fede non per tenerla nascosta, ma per diffonderla”.

Al termine del suo discorso, Papa Francesco si è augurato, citando Paolo VI, che la Buona Novella sia proclamata non da missionari “tristi e scoraggiati, impazienti e ansiosi, ma da ministri del Vangelo, la cui vita irradii fervore, che abbiano per primi ricevuto in loro la gioia del Cristo e accettino di mettere in gioco la propria vita affinché il Regno di Dio sia annunziato e la Chiesa sia impiantata nel cuore del mondo».

Nella “Redemptoris Missio” (1990), Giovanni Paolo II, rivolgendosi alle giovani Chiese, ha scritto: “Dovete essere come i primi cristiani e irradiare entusiasmo e coraggio, in generosa dedizione a Dio e al prossimo”. La gioia di annunziare il Vangelo viene al missionario dall’essere intimamente unito a Gesù, che, essendo unito al Padre e allo Spirito, gli trasmette la sua gioia. Infatti, come dice San Giovanni, “Deus Caritas est”, Dio è Amore. Quando il missionario si dona totalmente a Cristo, sperimenta la promessa che il Figlio di Dio fece agli Apostoli: “Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena” (Giov. 15, 11). Non è una gioia precaria, passeggera, è uno stato d’animo che sostiene il messaggero del Vangelo nella sua fatica, nelle sofferenze, rinunzie, fallimenti, persecuzioni. La gioia di essere intimamente uniti a Cristo rende efficace l’annunzio del Vangelo, perché il missionario trasmette questa gioia, questo entusiasmo e pace del cuore.

Tutto questo potrebbe sembrare teoria o sogno utopico. Ma non è così, anzi è confermato dalla vita di non pochi missionari che lasciano un buon ricordo di sè. Mi fermo alla mia esperienza. Ho scritto una quindicina di biografie di missionari (anche non del Pime) che mi erano state richieste. Ho letto bene le loro lettere e le testimonianze su questi personaggi e mi sono accorto che una delle caratteristiche comuni a tutti era appunto la gioia di essere messaggeri del Vangelo. Erano uno diverso dall’altro in tutti gli aspetti della loro missione: da mons. Aristide Pirovano, che ha fondato in Amazzonia la diocesi di Macapà, è stato per 12 anni superiore generale del Pime, poi ha passato i suoi ultimi anni nel lebbrosario di Marituba, dove ha preso il posto di Marcello Candia e ha realizzato tante opere religiose, educative e di aiuto ai poveri; a padre Leopoldo Pastori, che poco dopo il sacerdozio nel 1969 è stato colpito da un cancro al fegato. A poco più di trent’anni, poteva diventare un peso per sé e per gli altri. Invece è riuscito ad andare in Guinea Bissau, dove il suo lavoro principale era la preghiera e la direzione spirituale. Eppure tutti e due hanno conservato fino al termine della vita la gioia e l’entusiasmo di essere missionari e dopo morte godono di una diffusa “fama di santità”. Come spiegare questo se non che erano intimamente uniti a Cristo?

L’ultima biografia che ho scritto è quella del Beato padre Clemente Vismara (“Fatto per andare lontano”, Emi). Dopo i quattro anni di trincea nella prima guerra mondiale e 65 anni di missione in Birmania, in situazioni disumane di povertà estrema e di isolamento, fra popolazioni tribali che quasi vivevano ancora nell’epoca preistorica, è morto a 91 anni (1897-1988) e i suoi confratello dicevano: “E’ morto senza mai essere invecchiato”. Infatti, quando l’ho incontrato in Birmania nel 1983 (a 86 anni), aveva ancora il sorriso di un bambino, la vivacità e la voglia di scherzare di un giovane uomo e non voleva parlare del suo passato, ma mi diceva: “Parliamo del mio futuro”. Aveva realizzato, in quelle situazioni, grandi opere di Vangelo, ma non si era mai lasciato indurire dalle tremende privazioni e difficoltà.

Un suo compagno di missione, padre Angelo Campagnoli, ha testimoniato al processo diocesano per la sua beatificazione: “Clemente era un uomo di fede pratica, aveva una visione soprannaturale della vita, un profondo abbandono in Dio. Tutto in lui era guidato dalla fede, che era alla base della sua forza e delle sue certezze. Era la fiducia che, nonostante tutto, sarebbe riuscito qualcosa di buono. La fede gli dava la forza di perseverare, anzi di cominciare sempre da capo, anche quando le delusioni si ripetevano. Di qui dunque la perseveranza…Era un uomo entusiasta della sua vocazione e, proprio perché ci credeva con passione eccezionale, riusciva a comunicarla….E credo che la gioia sia un’altra caratteristica, una virtù singolare di padre Vismara. Certo essa era probabilmente una dote naturale e su questa si riposava la sua vita spirituale, ma in lui non c’era distinzione delle due sfere”.

Padre Rizieri Badiali, anche lui suo compagno di missione: “Padre Vismara sopportava tutte le prove con gioia, perché diceva che se eravamo perseguitati voleva dire che tutto andava bene. Era la sua fede, una fede entusiasta, gioiosa, piena del desiderio di salvare le anime, la vita cristiana per lui era basata sui fatti, sull’essere conformi alla volontà del Signore… Questa fu la fede di padre Clemente, che lo sostenne per tutta la vita fino alla morte, con una grande allegria, una grande voglia di vivere che sentiva per sé e per i ragazzi che accoglieva appena poteva”.

Un catechista di padre Clemente, Anselmo U, ha dichiarato: “Abbiamo sopportato assieme molte fatiche: andavamo a visitare i villaggi lontani e spesso dovevamo dormire sotto gli alberi e sotto le stelle, perché non eravamo ancora arrivati. Eppure padre Vismara era sempre sereno e sorridente. Non l’ho mai visto arrabbiato. Qualche volta si ammalava ed era molto debole: allora mi diceva di pregare e far pregare la gente del villaggio in cui ci trovavamo”.

Padre Clemente Hla Shwe, un suo orfano oggi sacerdote: “Era certamente un uomo di preghiera, un uomo di grande fede, direi di una fede sorridente, perché sorrideva sempre. Comunicava tanta gioia ed entusiasmo a chiunque lo accostasse. Anche a me, quando ci incontravamo, mi esortava sempre ad essere un prete zelante nel lavoro apostolico, ma anche pieno di gioia e di sorriso”.

Suor Battistina Sironi delle suore di Maria Bambina, per trent’anni con padre Clemente a Mongping dal 1958 fino alla sua morte nel 1988, nella lunga intervista che le ho fatto il 17 febbraio 1993 a Kengtung ha detto: “Era sempre allegro. Quando aveva dei fastidi cantava, nella sua casa. Allora noi suore chiamavamo i bambini e li portavamo in chiesa a pregare per il padre Clemente, che aveva grane grosse”.

Suor Battistina è stata senza dubbio la persona che ha vissuto più a lungo vicino a padre Clemente. Al processo diocesano a Kengtung ha testimoniato: “Non ho mai conosciuto un uomo con una fede così grande come padre Clemente. Fu veramente un uomo di preghiera, pieno di pietà e di carità verso tutti, specialmente i poveri e ancor più verso i piccoli. Quando non c’era niente da mangiare, lui mi diceva: ‘Lei stia qui con i bambini che io vado in chiesa’. Andava in chiesa a pregare e certamente poco dopo arrivava il riso necessario. Tenete conto che c’erano già allora cento orfani a cui dare da mangiare ogni giorno!. Pregava tanto. La sera soprattutto diceva il Rosario: non l’ha mai tralasciato neppure un giorno. Anche la Messa non è mai stata tralasciata da lui e la celebrava con grande devozione e raccoglimento”.

Nell’Anno della Fede, l’esempio del Beato Clemente Vismara è provocatorio anzitutto per noi sacerdoti e missionari, ma anche per tutte le persone consacrate e tutti i credenti in Cristo. La fede era per lui il motore della vita, era sempre sereno e sorridente nonostante tutte le sofferenze, difficoltà, malattie; non una fede seduta, che non disturbasse la sua tranquillità e il suo tran-tran quotidiano, ma un fede viva, militante, che lo rendeva disponibile a rinunzie e sofferenze per fare il bene e fuggire il male e per essere sempre a servizio del suo popolo e della Chiesa. Se non c’è entusiasmo e gioia nelle cose che facciamo e in cui crediamo, non c’è nemmeno il premio della gioia e della serenità di spirito e rischiamo di invecchiare prima del tempo.

Piero Gheddo

Bangladesh: 900 morti per i vestiti a buon prezzo

Il crollo del palazzo Rana Plaza il 24 aprile scorso a Dacca (più di 900 morti) ha portato alla ribalta mondiale uno degli scandali del nostro tempo, finora quasi del tutto ignorato. Anche noi in Italia comperiamo abiti a buon prezzo per lo sfruttamento disumano a cui sono sottoposti quattro milioni di lavoratori nelle fabbriche che producono vestiti esportati in Europa e Nord America (recentemente anche in Cina). Com’è noto, un grande edificio di otto piani si è accartocciato su se stesso per il peso delle macchine da cucire e per la fragilità delle sue strutture murarie e delle sue fondamenta. Dei più di 3.000 lavoratori, circa 2.000 sono stati salvati, in parte feriti anche in modo grave, una ragazza di 19 anni è stata estratta viva dalle macerie dopo 17 giorni! Una strage di dimensioni spaventose, che purtroppo in Bangladesh si ripete abbastanza di frequente, anche se non in questa misura mastodontica (il 5 maggio un incendio in altra fabbrica di vestiti ha causato otto morti).

L’industria per l’esportazione di abiti (che oggi è il motore dell’economia nazionale) è nata in Bangladesh all’inizio degli anni novanta, quando la capitale Dacca, vicina all’unico porto di Chittagong, offriva le migliori condizioni per i trasporti di stoffe dall’estero e di vestiti verso l’estero. In un raggio di 50 chilometri attorno a Dacca, da una ventina d’anni le fabbriche sono nate come funghi. L’ultima volta che sono stato in Bangladesh nel 2009, ho visitato la zona nord di Dacca: non mi è mai capitato di vedere un’occupazione così sistematica del territorio agricolo da parte della metropoli che avanza a ritmo sostenuto. Nascono ovunque piccole o grandi imprese che confezionano in palazzi da sei a otto-dieci piani: fabbriche, uffici, supermercati e falansteri di abitazione l’uno attaccato all’altro per i lavoratori. Qui si parte subito da massicci insediamenti di industrie, quasi senza terreni liberi. Si occupa ogni metro quadrato, un palazzo dista dall’altro non più di due metri, le strade quasi impossibili da percorrere, in un traffico continuo, notte e giorno. Per noi italiani queste città senza giardini e parchi, senza campi da gioco, senza piazze, credo anche con poche scuole, sono da incubo. Qui si tratta solo di lavorare e produrre per esportare. L’unico criterio è il lavoro per il profitto.

Naturalmente, in un paese dove non esistono sindacati a difesa dei lavoratori e scarsi controlli nella costruzione di nuovi palazzi, l’imperativo di contenere i costi per esportare sempre più è norma comune. Con tutte le conseguenze che si possono prevedere. Il Rana Plaza è sorto con la licenza di cinque piani e ne ha costruiti otto. La struttura è nata in modo illegale da un giovane imprenditore su uno stagno prosciugato in modo artificiale. Non solo, ma il 23 aprile, un giorno prima del crollo, alcuni ispettori avevano dichiarato il palazzo inagibile e pericolante, per le profonde crepe visibili sui muri. Una sola società, informata dell’inagibilità, ha avvisato dipendenti e clienti di non andare al lavoro, gli altri quattro industriali hanno invece costretto ad andarci il proprio personale, per lo più giovani e ragazze, minacciando di tagliare lo stipendio e anche il licenziamento. Gli stipendi di questi immigrati da tutto il paese sono irrisori. Eppure sentivo dire, nelle missioni anche lontane da Dacca, che molti giovani vorrebbero emigrare nella grande metropoli, per trovare lavoro e una vita moderna che nelle campagne, dove sopravvive un islam tradizionalista,vedono solo per televisione.

Alla radice di tutto c’è l’egoismo dei paesi ricchi e l’ abisso della disuguaglianza nel livello di vita tra i vari popoli. Un tema complesso, che non si può semplificare troppo. Il Bangladesh è uno dei paesi più poveri al mondo e sopravvive a fatica in un territorio esteso meno di metà della nostra Italia (147.000 kmq.) con 147 milioni di abitanti, secondo il censimento 2011, ma tutte le stime parlano di 160 milioni! Non solo, ma è un paese senza risorse naturali, attraversato da quattro grandi fiumi in confronto dei quali il nostro Po è un torrente: Gange, Bramaputra-Jamuna, Tista e Meghna, che lo tagliano a fette ostacolando i trasporti (c‘è un solo ponte sul Bramaputra), i fiumi si passano con traghetti. Il clima, influenzato dai monsoni, è caratterizzato da elevate temperature e da una mancata distinzione tra stagione secca e una umida, caratterizzata da alluvioni disastrose. Il superiore del Pime in Bangladesh nel 2009, padre Francesco Rapacioli, mi diceva: “Il popolo bengalese è psicologicamente robusto, ottimista per natura e per necessità, intelligente e lavoratore, che si adatta a tutto, si piega ma non si spezza. Ma qui si soffoca, manca la terra, mancano gli spazi di cui ogni uomo ha bisogno per vivere e per crescere la famiglia”. Un altro missionario che dopo il Bangladesh era andato in Guinea Bissau, padre Luigi Pussetto, mi diceva: “Se io potessi portare qui 10.000 contadini bengalesi, in 10-12 anni trasformerebbero questo paese in un giardino”.

Questo uno degli scandali del mondo globalizzato, di cui dobbiamo renderci conto, per non chiuderci nel nostro piccolo e grande paese in cui siamo nati. Il Bangladesh ha una densità di popolazione per chilometro quadrato di 964 persone, l’Italia 197, l’Australia 3 sole persone. Noi italiani abbiamo altri problemi, ma, per molti motivi, siamo i privilegiati dell’umanità. La responsabilità di tragedie come quella di Dacca, e di tantissime altre, non è nostra personale, ma come uomini e come cristiani dobbiamo sentirci corresponsabili delle ingiustizie del nostro mondo e, per quanto possibile, contribuire all’avvento di un mondo più fraterno e più giusto. Incominciando da noi stessi, perché quanto più noi viviamo la nostra vita secondo il Vangelo, tanto più diventiamo “luce del mondo…lampada che risplende nelle tenebre”, dalle quali è avvolta tutta l’umanità.

Piero Gheddo

Solo nel silenzio si può parlare con Dio

Gent.mo Padre Piero Gheddo,

nella speranza di ricevere la sua disponibilità e un po’ del suo tempo, la contatto per chiederle una sua riflessione sul “silenzio”. Comprendo che la richiesta può sembrare estemporanea e che l’argomento si apre ad innumerevoli piste di valutazione, ma avrei il piacere di potermi confrontare con il suo pensiero riguardo a questo tema.

Sono uno studente universitario che sta portando avanti uno studio personale su questo argomento, confrontando le riflessioni di vari esponenti della cultura italiana ed internazionale. In questo contesto sarei felice di poter avere anche il suo contributo per potermi così accostare alla sua riflessione che, ne sono certo, sarà ricca di spunti per la ricerca e la crescita personale.

Confidando nella sua risposta, le porgo i miei più cordiali saluti.

Michele Maggio

Caro amico,

grazie della sua richiesta. Per me cristiano, fare silenzio significa liberarmi dalle distrazioni e preoccupazioni quotidiane per cercare Dio, per mettermi in contatto con Dio nella preghiera, nella meditazione della Parola di Dio. Se parlo troppo, se mi distraggo continuamente seguendo mille pensieri, idee, notizie, futilità, “gossip” che il nostro mondo, e specialmente giornali, televisione e internet, ci offrono continuamente, Dio non lo incontro perché il mio pensiero e il mio cuore sono troppo rivolti ad altro; e anche se prego in questa situazione, la preghiera può essere una formula meccanica e vuota, non un dialogo con Dio. San Tommaso definisce la preghiera: “Ascensus mentis et cordis in Deum” (elevazione della mente e del cuore in Dio), per amarlo, ringraziarlo e chiedergli quanto mi necessario.

Debbo fare silenzio per mettere Dio al primo posto nella mia vita. Vengo da Dio e debbo tornare a Dio. Tutto il resto è precario, passeggero, come scrive San Paolo, “perché passa la scena di questo mondo” Questo non significa che non dobbiamo interessarci e appassionarci alle vicende del mondo che ci circonda, per compiere bene il nostro dovere. Ma significa che debbo dare al silenzio e alla preghiera il tempo necessario per non perdere il contatto con il Padre nostro che sta nei cieli.

Dio si rivela solo a chi è vuoto di se stesso, perché se uno è troppo pieno di sé, se uno imposta la sua vita sull’autosufficienza e sulla superbia; se uno vive una vita disordinata e in continua agitazione non riesce più a sentire la voce di Dio, l’affetto di Dio, di Gesù Cristo, le ispirazioni dello Spirito Santo.

Nella vita cristiana bisogna imparare a fare silenzio. Gesù, quando pregava, saliva sul monte, andava in luoghi deserti, si allontanava dai suoi discepoli. Voleva essere solo con il Padre e lo Spirito, per poter ricevere, come uomo, quel conforto di cui sentiva di aver bisogno, ad esempio nell’orto degli ulivi prima della sua Passione e morte in Croce, per rafforzare la sua fede, sempre come uomo, nella Risurrezione. Allora, dopo la preghiera durante la quale Dio è entrato in lui, Gesù è pronto ad affrontare gli inviati del Sinedrio che vengono ad arrestarlo. Anche per noi, se vogliamo che Dio sia presente nella nostra mente e nel nostro cuore in tutti i momenti della vita, specialmente nei più difficili e dolorosi, dobbiamo imparare a fare silenzio per poter incontrare e amare nella preghiera il nostro Padre che sta nei cieli.

Il dott. Marcello Candia (1916-1983) era un ricco industriale milanese che a 48 anni ha venduto la sua industria chimica e nel 1964 è venuto con noi missionari del Pime in Amazzonia, dove ha speso tutte le sue sostanze e la sua vita per costruire e mantenere un grande ospedale e parecchie altre opere di carità e di promozione umana per i poveri e i lebbrosi. Quando è morto ne ho scritto la biografia (Marcello de lebbrosi, De Agostini 1985) e ho intervistato, fra gli altri, la sua segretaria nell’industria, Mariangela Toncini. La quale mi diceva che, dopo un furioso incendio, nel 1955-1956, Marcello aveva ricostruito la fabbrica fondata dal padre a Milano, che poi ha venduto (assieme ad altri tre stabilimenti) quando è venuto come volontario in Amazzonia. Nella nuova fabbrica, in un angolo dell’edificio vicino al muro di cinta non visibile da nessuno, si era fatto costruire una panca di cemento con un tavolo e una copertura rotonda pure in cemento. La segretaria gli chiede a cosa serve quella panca e Marcello le risponde: “Vede, come lei sa io sono sempre super occupato, non ho mai un momento libero. Ho capito, che se vado avanti così, non riesco più a pregare bene, non sento più Dio presente nella mia vita, che mi dà la forza di continuare. Quindi, ogni tanto, mi prendo un po’ di tempo per andare a pregare nel mio piccolo monastero dove nessuno mi vede e mi disturba”.

Infatti, quell’angolo della preghiera, isolato dal mondo, ha prodotto i suoi frutti: Marcello Candia è Servo di Dio, cioè in cammino verso la beatificazione perché, come diceva il lebbroso rappresentante dei 1200 lebbrosi di Marituba: “Noi preghiamo il dottor Candia che era un santo, perchè non solo ci ha portato i suoi soldi che hanno migliorato la nostra vita, ma ci ha testimoniato la bontà e la misericordia di Dio, che ci danno la forza di accettare la nostra malattia” (chi desidera una copia di “Marcello dei lebbrosi” mi scriva e lo mando, pagg. 328, Euro 15).

La saluto cordialmente e le auguro buona domenica.

Suo padre Piero Gheddo, missionario del Pime, Milano

 

Guinea Bissau: perchè si convertono a Cristo?

Gli uomini hanno superato i sette miliardi e noi cristiani siamo circa due miliardi. La missione alle genti è valida ancor oggi, anzi è solo agli inizi. Nel Messaggio per la Giornata missionaria 2012, Papa Benedetto riafferma “la volontà della Chiesa di impegnarsi con maggior coraggio e ardore nella missione alle genti, affinchè il Vangelo giunga fino ai confini della terra…”. Eppure, l’ideale missionario e l’interesse per le missioni sono in crisi anche tra i cristiani. Le obiezioni alla missione universale della Chiesa sono di vario tipo:

– Un religione vale l’altra, tutte portano, sia pur in modo diverso, allo stesso Dio;

– Il primo annunzio di Cristo è fatto e le Chiese locali sono in tutto il mondo. Il primo annunzio di Cristo e la conversione degli infedeli è compito loro.

– Perchè portare Cristo in Asia e Africa, se lo stiamo perdendo qui in Italia?

La missione universale nasce dalla fede in Cristo e la crisi di fede porta con sè anche la crisi dell’ideale missionario. Incontro a Milano mons. Pedro Zilli, italo-brasiliano del Pime vescovo di Bafatà in Guinea Bissau, piccolo paese dell’Africa occidentale ex-colonia portoghese con circa un milione e mezzo di abitanti, 150mila dei quali cattolici, gli altri animisti, con una consistente minoranza di musulmani.

“La mia diocesi – dice – è nata con me primo vescovo nel 2001. E’ estesa più della Lombardia (24.000 kmq) nella parte interna del paese, tutta pianeggiante, con terre fertili, acqua e sole a volontà. Gli abitanti sono 600.000, i cattolici battezzati circa 30.000. Quando sono andato a Bafatà non avevo la mia casa, abitavo col parroco dell’unica parrocchia. All’inizio avevo sei sacerdoti, che oggi sono una ventina, di cui undici diocesani, tre del Pime, due fidei donum di Verona, uno fidei donum di Ivrea e altri francescani e spiritani. E poi un certo numero di volontari laici e di suore.

“In Guinea ci sono ancora popolazioni della religione tradizionale quasi totalmente isolate dal mondo esterno. Adesso entra la radio e a volte la televisione, quindi hanno sentito parlare di Cristo, ma non hanno ancora avuto nessuna notizia più precisa. Ci sono vaste regioni della mia diocesi, come il Boè, nelle quali non abbiamo nemmeno una presenza cristiana. C’è ancora un lungo cammino da fare di primo annunzio e questo è un tema fondamentale nella nostra diocesi come anche in tutta la Guinea. Bisogna far conoscere Cristo, ma poi il cammino verso il Battesimo è lungo, lento, almeno nella nostra Africa rurale, dove tutto procede lentamente. La vera missione alle genti qui è ancora agli inizi, ecco perché abbiamo bisogno di missionari. Ci sono conversioni, ma ancora poche perché la mia diocesi ha solo dieci anni e molti sono nel catecumenato: l’anno scorso, i battezzati dal paganesimo sono stati 230, ma molti altri vorrebbero il battesimo”.

Chiedo a dom Pedro cos’è che attira i non cristiani che chiedono il battesimo. Risponde: “I motivi sono tanti, specialmente il fatto che la fede cristiana cambia la vita. Ad esempio, il credente della religione tradizionale (l’animismo), se riceve un’offesa o un furto, si vendica, fa pagare al nemico la stessa pena. E’ un suo diritto, dicono. Il cristiano porta lo spirito di perdonare le offese, questa è una novità assoluta e tutti vedono che porta la pace tra le famiglie e i villaggi. Così l’amore e la solidarietà al prossimo, non più solo a quello della famiglia, del clan, del villaggio, ma a tutte le creature umane, anche a quelle di tribù tradizionalmente considerate nemiche. I cristiani sono amici di tutti e per quel che possono aiutano tutti.

“E poi, la vita familiare migliora, il marito aiuta in casa, pulisce la casa, aiuta la moglie in tante piccole e grandi faccende quotidiane. Sono una coppia unita che si aiuta a vicenda. Nelle famiglie tradizionali c’è una divisione più netta dei compiti, tu fai questo, io faccio quello e basta. E poi, le famiglie cristiane cercano di tenere una borsa unica, una contabilità unica. Nelle famiglie non cristiane no, se il marito lavora non dice nemmeno quel che guadagna, ciascuno cerca di nascondere all’altro qualcosa.

“Vivere una vita comune nella coppia è proprio dei cristiani. La comunione dei beni c’è tra i cristiani. E’ vero che non tutte le coppie cristiane arrivano a fare bene, ma la Chiesa insiste, il prete raccomanda, a poco a poco questa idea entra. Ci sono matrimoni veramente esemplari, che diventano testimonianze evidenti del matrimonio cristiano. Altro esempio, mandare i figli a scuola. Ormai quasi tutte le famiglie li mandano, ma nei cristiani c’è piu attenzione. Le famiglie cristiane avvertono di più l’impegno di educare i figli a studiare, ad obbedire, ad essere rispettosi degli altri. In un villaggio questi esempi li vedono tutti.

“In Africa la moglie che non ha figli è un grave problema, tutti vogliono aver figli; quando capita questo, il marito può prendere una seconda moglie e rimanda a casa sua la prima moglie, che è vista male e disprezzata. Una signora cattolica non ha avuto figli, ma essendo anche il marito cattolico e si erano sposati in chiesa, sono ancora assieme dopo 40 anni pur non avendo avuto figli propri. Hanno adottato dei bambini, ma sono rimasti senza figli. Esempi del genere sono provocatori in senso positivo.

“Gli anziani sono da tutti venerati e rispettati. Ma quando uno non è più autosufficiente e non rende nulla, nel mondo tradizionale tante volte lo si mette da parte, e a volte, lo si elimina. Ad esempio, non gli si dà più da mangiare e muore. Si chiude il vecchio in una capannuccia a parte e dopo un po’ muore. Per il cristiano curare i malati e gli anziani anche non autosufficienti è un dovere perché in ogni persona sofferente il cristiano vede Gesù in Croce.

“Altra cosa importante è la preghiera. I cristiani pregano sempre, il pagano prega solo quando deve chiedere qualcosa. La preghiera cristiana è per lodare Dio, per mettersi in comunicazione e amare Dio; quindi è quotidiana in tempi precisi, e settimanale nella Messa domenicale, cioè strettamente collegata ai ritmi quotidiani della vita, perché sempre abbiamo bisogno dell’aiuto di Dio. Il pagano non ha tempi precisi, prega quando deve chiedere qualcosa. Cioè, pregano quando serve, che è un po’ la mentalità che sta entrando anche qui in Italia o in Brasile; diventiamo anche noi pagani.

“Sono tutte grandi o piccole cose, che danno però una identità alla famiglia cristiana. Naturalmente, passare dalla religione tradizionale al cristianesimo è un cammino lungo, complesso, lento. Nella mia diocesi siamo alla prima o alla seconda generazione cristiana e c’è il pericolo che le persone, prima che arrivi il cristianesimo, passino dalla mentalità tradizionale alla modernità praticamente atea del nostro mondo occidentale. L’ha detto anche Papa Benedetto nella Messa di apertura della II Assemblea Speciale per l’Africa nel Sinodo dei Vescovi (Roma, 25 ottobre 2009), quando ha detto che “l’Africa rappresenta un immenso ‘polmone’ spirituale, per un’umanità che appare in crisi di fede e di speranza. Ma anche questo ‘polmone’ può ammalarsi. E al momento almeno due pericolose patologie lo stanno intaccando: anzitutto, una malattia già diffusa nel mondo occidentale, cioè il materialismo pratico, combinato con il pensiero relativista e nichilista”.

Piero Gheddo