La festa dei bambini a Confienza

Avete mai visto un’ottantina di bambini piccoli, tutti assieme, riuniti in una chiesa? A me è capitato domenica scorsa 23 giugno 2013 alla “Festa dei Bambini” celebrata nelle parrocchie di Confienza (1700 abitanti) e di Vinzaglio (500), in diocesi di Vercelli (e provincia di Pavia). Che spettacolo! Quei bambini non ancora in età scolastica, in braccio o tenuti per mano e trotterellanti vicino a mamma e papà, erano proprio uno spettacolo insolito e creavano un’atmosfera di festa e di gioia nella quale eravamo tutti coinvolti. Mi sono commosso segnando con l’olio benedetto del Bambino Gesù di Arenzano una crocetta sulla loro piccola fronte. E con quanto amore le giovani mamme e papà presentavano i loro bambini e ricevevano anche loro il segno della croce sulla fronte come sacra unzione di vite consacrate al Signore Gesù. Una mammina mi presenta con fierezza il suo piccolino che stava sbadigliando alla grande e faceva tenerezza e mi dice: “Ha solo un mese e mezzo”. Rispondo: “Brava! E ti dico anche grazie perchè senza bambini l’Italia non va più avanti”.

Mi hanno detto che 80 bambini piccoli per due parrocchie con 2200 abitanti in tutto, se non è un record nell’Italia d’oggi ci manda poco. Proprio questa è l’Italia autentica che dà speranza, ma che raramente trova spazio in giornali, telegiornali e nel gossip quotidiano che ci sommerge tutti in una marea di futilità e di fatti negativi (delitti, rapine, processi, corruzione, ecc.). Don Roberto Tornielli, sacerdote da 29 anni e parroco a Confienza da 18, fin dall’inizio celebra a gennaio la Festa dei Bambini nel giorno del Battesimo di Gesù nel Giordano. Quest’anno, in occasione dell’Anno della Fede, ha portato a Confienza una copia della statua miracolosa di Gesù Bambino (che aveva già portato 18 anni fa) e mi ha invitato per la Messa solenne e la benedizione dei bambini. Il Bambino Gesù del Santuario di Arenzano (Savona), tenuto dai Carmelitani e meta di molti pellegrinaggi, è rimasto in parrocchia una settimana, dedicata appunto a preparare la festa dei Bambini. Si dice il Rosario, si fanno processioni e celebrazioni, si coinvolgono le famiglie sul tema del matrimonio cristiano e sul dono dei figli che Dio manda. “Insomma, dice don Roberto, si prega perché il buon Dio faccia nascere altri bambini nelle nostre due parrocchie unite nella comunità pastorale. Tutto questo, con la grazia di Dio, ha prodotto e sta producendo i suoi frutti”.

Dopo la Messa pomeridiana, si è iniziato nell’oratorio il Grest estivo che dura tutto il mese di luglio e ospita un centinaio di bambini e ragazzini, maschi e femmine, impegnandoli nello sport, in giochi, laboratori, compiti estivi, lezioni di canto, di musica, uscite di visite esterne per esempio ad Arenzano per portarvi la Statua del Bambino Gesù. Tornando a Milano alla sera con i coniugi Anna e Alberto Zanada che mi portavano a casa (ambedue impegnati in parrocchia e in diocesi), si ragionava sul fatto che, in fondo, nella nostra Italia la fede c’è ancora e quando trova l’occasione per crescere e manifestarsi in modo comunitario e condiviso, concede a noi credenti delle meravigliose giornate di gioia autentica e profonda. La rinascita della nostra Italia, oltre a tutto il resto, parte anche dalle parrocchie e dagli oratori, che mantengono viva e vivace nel popolo la fede in Gesù Salvatore, l’unica vera e intramontabile ricchezza che abbiamo.

Piero Gheddo

 

 

«Il buon prete fa la buona parrocchia»

Quand’ero giovane, in seminario a Vercelli ci dicevano: “Il buon prete fa la buona parrocchia” e questo detto di sapienza popolare trova conferma quando ne muore uno. Alcuni mesi fa è mancato il caro don Guido (chiamiamolo così) che conoscevo perché sono sessant’anni che visito le parrocchie specialmente della Lombardia, ma non solo. In questi giorni mi telefona una signora amica di quel paese, anzi cittadina, e mi richiama alla mente don Guido. Ecco cosa mi dice:
     “Don Guido è stato nostro viceparroco solo per 18 anni dal 1966 al 1984, poi è andato in altre parrocchie. Ma nella nostra città ha formato schiere di giovani, di ragazze e di buone famiglie, che adesso, trent’anni dopo, sono accorsi in massa anche da lontano, per dagli l’ultimo saluto. Li avesse visti, erano tanti, mariti, mogli e bambini, erano trent’anni che non ci vedevamo e tutti dicevano: “Sono i figli di don Guido” e lì a ricordare “i nostri tempi”, quelli appunto di don Guido. Hanno portato gioia e un’armonia straordinaria nel ricordo di quell’indimenticabile prete morto a 72 anni, che soffriva di asma, aveva difficoltà di respirazione e di parola, infatti era di pochissime parole. Poteva essere un prete chiuso in se stesso, lamentoso e pessimista, invece era un santo e ha dato un’impronta di vita cristiana a molti e al paese stesso”.
     Ricordavo confusamente che quando don Guido era arrivato in quella parrocchia era successa una mezza rivoluzione, ne avevano parlato anche i giornali. Chiedo alla signora cos’era successo: “Don Guido – continua l’amica – è venuto da noi in una situazione molto difficile. il parroco di allora aveva cacciato via malamente il prete dell’oratorio, un sacerdote giovane che capiva che i tempi stavano cambiando e voleva fare qualcosa di nuovo. Il vecchio parroco, che certamente ha fatto molto anche lui, ma era un carattere forte e non facile, non vedeva bene quello che gli altri facevano di diverso da quel che aveva fatto lui. E l’ha mandato via in modo brusco. Per cui, quando don Guido è venuto a sostituirlo, in oratorio si è trovato davanti ad un muro di ragazzi amici del don di prima che non l’hanno accolto bene, anzi, l’hanno rifiutato e gli hanno detto: “Lei qui in oratorio  non entra!”.
     “L’oratorio è lontano dalla parrocchia e l’avevano occupato i giovani amici del don che era stato mandato via, com’era di moda a quei tempi. Ci sono stati tafferugli e anche un ferito. Siamo finiti sui giornali. Don Guido ha semplicemente detto: “Mi spiace, però io sono stato mandato dal vescovo come prete dell’oratorio. Se mi volete bene, se non mi volete, aspetto che voi cambiate opinione”. I giovani sono rimasti spiazzati, perché pensavano di “fare la lotta” come succedeva a quei tempi. Invece don Guido è andato ad abitare nell’appartamento del prete  dell’oratorio e ha detto: “Io sono qui, aspetto che veniate voi a cercarmi ed a chiamarmi”.
     “L’oratorio è rimasto vuoto per 4-5 mesi, poi a poco a poco sono tornati, perché avevano visto che don Guido era un uomo di Dio. Ma lui ha dovuto ricominciare da capo. Parlava poco, ma sapeva ascoltare. Faceva scuola al mattino e poi lo cercavi e c’era sempre, non sapevi dov’era e lui era in chiesa ad aspettare. Una  meraviglia. Oggi i preti sono presi da troppe cose, non possono più dare un formazione profonda, fare direzione spirituale. Per le confessioni lo trovavi sempre là. Celebrava la Messa, faceva scuola e poi si metteva di fianco al suo confessionale e aspettava. In quei tempi di grande confusione, noi giovani avevamo molti problemi. Andavamo da lui, ci lasciava parlare, poi ci faceva leggere una pagina del Vangelo dove Gesù rispondeva alle nostre domande. Si rimaneva spiazzati, perché si pensava di trovare un prete che dicesse: “Avete ragione, questo parroco non capisce niente!” e invece portava il discorso su un piano superiore, che non potevi dargli torto. Quando noi ci lamentavamo del parroco e di altre cose che non ci parevano giuste, lui diceva: “Ma allora voi non capite niente. Per restare nella comunità, nella Chiesa, bisogna imparare a soffrire, a sopportare”.
     “E pensare – continua la cara amica che si commuove raccontando – che quel parroco, che agiva secondo il suo carattere e modo di fare, riteneva don Guido un debole che valeva poco o niente e glie lo diceva davanti a tutti. E lui incassava col suo sorriso, al massimo diceva: “Se lo dice lei…”. Questi atteggiamenti ci hanno fatto crescere nella fede e nella vita cristiana. Ci hanno maturati. Non è che il vecchio parroco valesse poco, anche come prete ha fatto molto e non si può dirgli niente, anzi nel nostro paese ha realizzato molte buone cose. Solo che aveva il suo carattere e agiva secondo quel caratteraccio (“Il parroco sono io!” e basta) e c’erano anche i fedeli che lo apprezzavano. Ma don Guido noi lo preghiamo come un santo ed è morto in concetto di santità, anche perchè negli ultimi due anni ha sofferto molto, non si lamentava mai e aveva sempre il suo sorriso sul volto”.
Piero Gheddo

Lo sviluppo dell’uomo viene da Dio

Fiorenzo Facchini su Avvenire (15 giugno) racconta come l’antropologo americano Jared Diamond torni alla ribalta della saggistica mondiale con un nuovo volume (“Il mondo fino a ieri”, Einaudi) che tenta di spiegare l’origine delle religioni partendo da un approccio funzionalistico, cioè le religioni sono un prodotto dell’uomo che cerca di spiegare i molti misteri della natura e della vita umana ricorrendo al mondo invisibile degli spiriti e costruendo a poco a poco le religioni storiche che oggi conosciamo. Jared Diamond ha compiuto numerosi viaggi di studio e di ricerca in Papua Nuova Guinea. Nel 1972 un amico papuano, Yali, gli chiede: “Come mai voi bianchi date a noi tutto questo cargo (le novità portate in Nuova Guinea: asce d’acciaio, fiammiferi, medicine, vestiti, aerei, ecc.) e noi neri ne abbiamo così poco?”.

Da allora Diamond ha studiato come rispondere a questa domanda. Ne rende conto nella sua opera maggiore (Premio Pulitzer per la saggistica nel 1998) “Armi, acciaio e malattie – Breve storia del mondo negli ultimi tredicimila anni” (Einaudi, 2002, pagg. 366), nel quale ricostruisce la storia dell’umanità dalla preistoria all’inizio della colonizzazione europea nel 1500; e in sintesi dice questo: per capire le diversità tra i popoli, non serve esaminare il periodo coloniale, perchè allora era già evidente il livello superiore di sviluppo dell’Occidente. Occorre invece andare indietro nel tempo, alle radici anche preistoriche dei diversi cammini dei popoli. Però non esiste una risposta semplice alla domanda dell’amico papuano Yali: il problema è complesso.

Per Diamond le cause sono essenzialmente geografiche e climatiche, mentre vanno decisamente scartate le cause razziali, la superiorità genetica di una razza umana sulle altre. Nell’evoluzione storica, i popoli euro-asiatici sono stati privilegiati rispetto ad altri, dalla presenza di “grandi spazi” che hanno favorito l’agricoltura e di animali di grossa taglia facilmente addomesticabili (i bovini e i cavalli, non presenti fuori dell’Eurasia). Tre i momenti di crescita dei gruppi umani, alcuni dei quali giunti prima degli altri al “mondo moderno”:

a) il passaggio dal nomadismo e dalla caccia-pesca all’agricoltura stanziale;

b) la domesticazione di piante e di animali, che liberò alcuni popoli dai lavori più pesanti e permise di vivere non più solo per la sussistenza, ma di impegnarsi in attività utili alla comunità;

c) l’invenzione della scrittura e delle tecnologie che hanno permesso il più rapido cammino di alcuni popoli rispetto agli altri. La colonizzazione europea è dovuta ad alcuni fattori ricordati nel titolo del libro: armi (più efficaci), acciaio (utensili per aumentare la produttività di beni), malattie (infettive che hanno sterminato i nativi nelle Americhe).

Diamond si rende conto che queste spiegazioni non chiariscono ad esempio perchè, a parità di condizioni geografiche e climatiche, gli europei hanno reagito meglio degli asiatici (infatti i primi hanno colonizzato i secondi e non viceversa); ammette che “le cause remote della disparità restano incerte… (questo) è un vero e proprio vuoto intellettuale, perchè significa che non siamo in grado di comprendere il corso più generale della storia… Le differenze sono sotto gli occhi di tutti; ci viene spiegato che la giustificazione di queste differenze basate sulla razza – che sembra così semplice – è sbagliata, ma non ci viene fornita un’alternativa credibile” (pagg. 12-13).

Diamond esclude dalla sua ricerca gli aspetti culturali-filosofico-religiosi. Gli studiosi delle civiltà umane (Toynbee, Max Weber, Dawson, Thomas E. Woods, Rodney Stark, ecc.) scrivono che la radice dei diversi cammini storici dei popoli sta nelle culture e religioni dei popoli: cioè nelle motivazioni intellettuali, filosofiche, religiose al progresso di un popolo. L’uomo non è fatto solo di materia, ma anche di intelletto, di anima e, come scriveva Jacques Maritain, “la cultura di un popolo deriva primariamente dall’immagine che quel popolo si fa di Dio” (“Religion et culture”, Paris 1946): dai rapporti che un popolo stabilisce con il Creatore derivano i rapporti con gli altri uomini, con la natura, con la storia, il senso della vita di ogni uomo e di un popolo.

D’altra parte, un credente può chiedersi: ma allora, se il cammino dei popoli è condizionato solo da fattori geografico-climatici, che senso ha la Parola di Dio e l’Incarnazione del Figlio di Dio? Solo per “la salvezza delle anime” oppure anche per migliorare la vita dell’uomo (fatto “ad immagine di Dio”), per creare almeno un inizio del “Regno di Dio” su questa terra? Ecco il tema che le facoltà teologiche e le università cattoliche, gli scrittori e la stampa cattolica e missionaria dovrebbero studiare e volgarizzare nel nostro tempo globalizzato, quando il mondo si restringe e diventa “un solo villaggio”. Per Diamond, il cammino storico dei popoli è sostanzialmente legato a cause fisiche e al caso: ma può un credente in Dio Creatore e Salvatore, pensare che la storia dell’umanità è lasciata al caso? Non può e questo a priori. Ma a posteriori, il dato di fatto innegabile che l’Europa cristiana sia arrivata prima di tutti gli altri popoli e civiltà al “mondo moderno” (nel bene e nel male perché l’uomo è libero) va spiegato, partendo appunto dalla Parola di Dio e in particolare dall’”uomo nuovo” che è Gesù Cristo. Nella “Caritas in Veritate” Benedetto XVI riprende l’insegnamento di Paolo VI nella “Populorum Progressio” per illuminare il tema dello sviluppo e afferma: “L’annuncio di Cristo è il primo e principale fattore di sviluppo di tutto l’uomo e di tutti gli uomini” (n. 8). Giovanni Paolo II scrive nella “Redemptoris Missio” (n. 59): “Lo sviluppo dell’uomo viene da Dio, dal modello di Gesù uomo-Dio, e deve portare a Dio. Ecco perché tra annunzio evangelico e promozione dell’uomo c’è una stretta connessione”. Perché il tema “Vangelo e sviluppo dell’uomo” è così poco illustrato dalla ricerca storica e dalla pubblicistica cristiana e missionaria?

Piero Gheddo

Un missionario indiano in Camerun

Un fatto che dà speranza. Le giovani Chiese delle missioni sono missionarie e mandano preti e suore in altri paesi. La Chiesa dell’India è uno dei migliori esempi. Spesso perseguitata, non si è mai chiusa, ha più di 2.500 sacerdoti e circa 6.000 suore in servizio all’estero, specialmente in Medio Oriente, in Asia-Oceania e in Africa. Il Pime è presente in India dal 1855 e vi ha fondato 12 diocesi, ma solo dal 1991 ha aperto il suo primo seminario, oggi ne ha quattro in tre stati indiani con circa 110 alunni, 16 dei quali studenti di teologia. I sacerdoti indiani del Pime sono 44, una ventina di quali nei seminari in India e una ventina in missione, due di quali in Camerun.

Padre Palli Sleevaiah (lo chiamano “Sleeva”) è sacerdote dal 2008 e, dopo lo studio del francese a Parigi, dal 2009 è nella parrocchia Madonna di Lourdes a Ntem-a-si all’estrema periferia della capitale Yaoundé, come vice del parroco padre Fabio Bianchi. Sono stato a Ntem-a-si nel 2009 quando padre Fabio iniziava la costruzione della grande chiesa, ormai quasi terminata. Il quartiere di casupole e baracche è abitato da immigrati dalle campagne e dai paesi vicini, spesso in guerra o sotto il tallone di una dittatura. Il Camerun, uno dei pochi paesi africani che ha sempre goduto la pace interna, attira molti profughi. Chiedo a padre Sleeva se è contento della sua missione.

“Quando sono arrivato a Yaoundé, all’aeroporto mi aspettavano parecchi fedeli della parrocchia e poi sono stato accolto e aiutato da tutti. La gente è accogliente, l’africano è espansivo e mi sono subito trovato bene. In Camerun siamo due sacerdoti indiani del Pime. Io a Yaoundé e Ambati a Kusserì, ai confini col Ciad. Non ho ancora imparato la lingua locale, l’ewondo, perché quasi tutti capiscono il francese e parecchi anche l’inglese. Sono incaricato dei giovani e sto iniziando un oratorio nel terreno della parrocchia. Vado anche nelle scuole pubbliche a parlare ai giovani, non ci sono lezioni di religione, ma è permesso ai sacerdoti di parlare, basta mettersi d’accordo col preside, i giovani vengono numerosi e volentieri. Nella nostra parrocchia i laici fanno molto in campo caritativo e pastorale, anche se hanno ancora il problema del pane quotidiano, ma danno parte del loro tempo alla Chiesa. Vedono che la parrocchia è l’unico ente che vive con loro e li aiuta in ogni modo. In queste periferie degradate lo stato lo vedi poco, noi siamo sempre qui e questo crea anche tra i cattolici amicizia, solidarietà, comunità, aiuto vicendevole”.

Chiedo a padre Sleeva cosa l’ha colpito di più in questa sua breve esperienza d’Africa. Risponde: “Le difficoltà che incontrano i ragazzi per crescere, per studiare, in campo economico, affettivo, culturale, nel senso che quasi non fanno un’esperienza significativa di vita familiare. Nella nostra Parrocchia Madonna di Lourdes sono gente molto povera, impegnati nel procurare la sopravvivenza. Vivono poco assieme. Il papà mangia fuori quando può, la mamma anche lei si dà da fare per lavorare o trovare un qualsiasi lavoro e portare a casa qualcosa. I figli crescono per la strada. Io raccomando sempre di stare assieme almeno nei giorni di festa, ma non è facile per quei genitori seguire i figli. C’è amore, certo, ma manca l’occasione per esprimerlo. Io vedo la grande differenza con la situazione in India. La società indiana è più stabile in campo politico ed economico, c’è maggior sicurezza per tutti. E poi in India abbiamo un forte senso della famiglia e da circa vent’anni c’è una forte crescita dell’economia e aumenta il benessere. Ci sono ancora molte e gravi ingiustizie ma a poco a poco il benessere si diffonde. Da noi la famiglia tiene, in Africa, almeno fra i nostri poveri, temo la dispersione dei giovani e credo che questo si spieghi col fatto che in India siamo entrati nel mondo moderno con la colonizzazione inglese a partire dalla metà del 1800, in Africa oltre mezzo secolo dopo. L’India era un paese unito sotto l’Inghilterra, l’Africa è divisa in molte nazioni. In India c’è stato un graduale passaggio dal tempo pre-coloniale al mondo moderno, la società indiana, che già aveva una storia millenaria alle spalle, si è adattata, sono cambiate le culture e anche la religione indù ha avuto i suoi riformatori. L’Africa non ha avuto il tempo necessario per questo processo. Il mondo moderno è stato un terremoto e uno tsunami che ha dissestato e capovolto tutto, a partire dalla famiglia alla società, dall’economia alla politica e alla religione”.

Padre Sleeva è contento di essere missionario in Africa e dice: “I miei parenti preferivano che io fossi un prete diocesano, invece la gente del mio villaggio sono contenti che uno di Velasapalli lavori in Africa. Io scrivo a loro che il nostro villaggio è conosciuto anche in Camerun e in Africa. E aggiungo che come noi abbiamo ricevuto la fede dai missionari italiani, così è giusto che un indiano porti Gesù agli africani. La cosa bella che ho visto qui in Africa è che i giovani sono forti e coraggiosi. Hanno tantissime difficoltà, ma non si scoraggiano mai, si riprendono facilmente, non sono pessimisti, si impegnano nel lavoro, nella scuola, nella società. Per le situazioni che stanno vivendo, hanno una carica vitale ammirevole. Capisco sempre meglio quanto il cristianesimo, che è la religione della speranza, è proprio adatto agli africani. I miei confratelli che sono in Africa da decenni confermano che se la Chiesa cattolica avesse le forze e i mezzi necessari per raggiungere tutti, il cammino dell’Africa nera verso Gesù Cristo sarebbe molto più rapido, anche perché inevitabile. Io ringrazio il Signore di essere missionario in Africa e anche i miei genitori, attraverso le mie lettere, incominciano ad essere orgogliosi di me”.

Piero Gheddo

Anche oggi il prete è un “altro Cristo”

Il 5 giugno sono andato a Vercelli per celebrare, in una giornata di fraternità sacerdotale, le ricorrenze dei confratelli diocesani con 60-50-40-25 anni di sacerdozio. Dopo la conferenza di don Armando Aufiero sul recente Beato mons. Luigi Novarese, fondatore dei “Silenziosi Operai della Croce”, nella grande chiesa del Seminario l’arcivescovo mons. Enrico Masseroni (50 anni di ordinazione) ha celebrato la Messa con omelia sul sacerdozio e alla fine ha invitato me (60 anni) a dire due parole ai confratelli vercellesi. Avevo il cuore pieno di gioia e ho espresso due pensieri:

     1) Ringraziamo il Signore che ci ha scelti, ci ha guidati, consolati, illuminati, perdonati (più e più volte) e ha portato ciascuno di noi ad essere “un altro Cristo” come si diceva una volta. Ma lo siamo anche oggi! Io sono, come Gesù, mediatore fra Dio e gli uomini. L’errore più funesto per un prete è di avere un mediocre concetto della sua dignità e missione, di considerarsi un funzionario, un impiegato a servizio della Chiesa, della parrocchia. Non è così. Non esiste al mondo altro personaggio più importante e indispensabile del sacerdote di Cristo. Il mondo non ci crede, ma la fede ci dice che è così. La nonna Anna era una santa donna che aveva allevato ed educato dieci figli e noi tre nipoti. Era semi-analfabeta (solo la prima elementare), ma con una saggezza evangelica che la rendeva gradita a tutti. La chiamavano quando  c’era un ammalato o un morto per andare a pregare, a consolare, a dire una buona parola a tutti. Nell’estate 1949, morì poco dopo a 84 anni, ero seduto vicino a lei e pregavamo assieme. Mi chiede quanti anni mi mancano per diventare sacerdote. Quattro, le rispondo. Lei dice: “Io non ci sarò più, ma ricordati, Piero, che quel giorno tu sarai diventato più grande e più importante di De Gasperi e di Togliatti, di Truman e di Stalin, perché dirai le parole della consacrazione, chiamerai il Signore sull’altare e Lui verrà. Avrai Gesù nelle tue mani e potrai darlo a tutti. Non c’è nulla di più importante in questo mondo”. Quando celebro la S.Messa, chiedo sempre al Signore la grazia di avere la fede della nonna Anna e di commuovermi quando consacro l’ostia e il vino e mi nutro del Corpo e Sangue di Cristo.
     2) Il prete dev’essere un uomo innamorato di Gesù Cristo, per dare al mondo l’immagine dell’unico Salvatore dell’uomo. Solo quando Gesù è l’unico amore della nostra  vita, riusciamo ad amare tutto il prossimo, anche quelli che non ci vogliono bene; a comunicare in modo efficace la Parola di Dio e portare frutti di vita eterna. Come diceva San Paolo: “Io ho piantato, Apollo ha irrigato, ma è Dio che fa crescere” (1 Cor. 3,6). Perché solo Dio conosce a fondo le anime e le attira a sé, le converte. Non basta che predichiamo Gesù Cristo, non basta che lo studiamo e preghiamo, dobbiamo amarlo con passione, metterlo sempre al primo posto nelle nostre scelte esistenziali. Innamorarsi di Cristo è un dono di Dio che dobbiamo chiedere ma anche prepararci a riceverlo con una vita trasparente totalmente orientata a Dio, alle realtà spirituali e soprannaturali, distaccandoci a poco a poco da tutti gli affetti e gli ostacoli terreni che impediscono la totale consacrazione a Cristo. Non ci riusciremo mai del tutto, è una via di purificazione che dura tutta la vita e che ci ringiovanisce ogni giorno.
     Il prete è efficace nel suo ministero solo se segue il consiglio di Gesù: “Rimanete uniti a me e io rimarrò unito a voi” (Giov. 15, 4). Questo vale per tutti, cari sacerdoti, ma soprattutto per noi che siamo chiamati ad essere per la gente “un altro Cristo”. Del grande missionario mons. Aristide Pirovano, fondatore e vescovo di Macapà in Amazzonia, un suo confratello di missione mi ha detto: “Era tutto di Dio e tutto degli uomini”.  Don Primo Mazzolari, la “tromba d’argento dello Spirito Santo nella pianura padana” come diceva Giovanni XXIII, ha scritto: “Se io non porto Cristo agli uomini sono un prete fallito. Posso fare molte cose buone nella vita, ma l’unica veramente indispensabile nella mia missione di prete è questa, comunicare il Salvatore agli uomini, che hanno fame e sete di Lui”.
      Ma per comunicare Cristo bisogna averlo nel cuore. Nel 1964 in India mi sono fermato tre giorni col padre Giorgio Bonazzoli a Benares, la città santa dell’induismo. Giorgio aveva studiato la lingua sacra dell’India, il sanscrito e lo insegnava nella “Hindu University”, traducendo anche i Purana (testi sacri indu) dal sanscrito all’hindi e all’inglese. Mandato dal Pime per iniziare il dialogo con i monaci indù, viveva con loro e come loro, nella piccola cella di un monastero in una povertà commovente. Dormiva su una plancia di legno sostenuta da due appoggi, sul duro legno coperto da una stuoia di paglia, con una coperta e un tarello di legno come cuscino. Mangiava vegetariano come i monaci indù, riso bollito condito con sale e peperoncino, verdure e qualche frutto locale. Insegnava all’università e seguiva la regola dei monaci, dialogando con loro. C’è rimasto per 25 anni. Allora in Benares (oggi Varanasi), la presenza cristiana era minima, padre Giorgio viveva proprio isolato nel mondo indù. Ho visto il suo isolamento in un mondo pagano, i pericoli che correva e gli ho detto: “Giorgio, ti ammiro perché tu fai una vita eroica, ma non dimenticarti che sei un prete di Gesù Cristo e devi testimoniarlo con la tua vita”. Mi ha portato nella sua cella e mi ha mostrato la cassetta di ferro con lo specchio davanti che c’è sopra il lavandino, dove in genere si mette il materiale per la barba. Giorgio apre lo sportello e dice: “Vedi, Piero, qui c’è Gesù! Quando sono stanco e tentato anche in modi che tu nemmeno immagini, vengo qui, apro il mio tabernacolo, mi inginocchio e prego. Gesù è sempre con me”. Ha detto queste parole con un accento così appassionato, che mi ha commosso e rassicurato. Il mio caro Giorgio, mi sono detto, a Gesù ci crede e lo ama davvero.

Noi cristiani fra trionfalismo e persecuzione

Il 29 maggio scorso, nella Messa quotidiana a Santa Marta Papa Francesco, parlando degli Apostoli Giovanni e Giacomo che chiedono a Gesù: “Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra”, ha condannato “il trionfalismo” come una tentazione da combattere, perché espressione di un “cristianesimo senza croce”, che impedisce alla Chiesa di andare avanti. L’atteggiamento trionfalista è quello di “una Chiesa che pensa soltanto ai trionfi, ai successi”, insiste Papa Francesco, dimenticando “la regola di Gesù del trionfo tramite il fallimento umano, il fallimento della Croce”. E questa “è una tentazione che tutti noi abbiamo”, è la stessa tentazione di Pietro quando rifiuta la passione di Gesù..

Due giorni prima, il 27 maggio, mons. Silvano M. Tomasi, Osservatore Permanente della Santa Sede presso l’ONU a Ginevra, ha richiamato il Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite ad una maggiore protezione dei cristiani soggetti a discriminazioni ed aggressioni. “Le serie violazioni del diritto alla libertà religiosa in generale e la recente continua discriminazione, con sistematiche aggressioni inflitte ad alcune comunità cristiane in particolare – ha detto l’arcivescovo – preoccupano profondamente la Santa Sede e molti governi democratici, le cui popolazioni abbracciano varie religioni e tradizioni culturali”. Mons Tomasi ha citato allarmanti statistiche, secondo le quali oltre 100mila cristiani sono violentemente uccisi ogni anno per la loro fede. Altri, ha aggiunto, sono costretti alla fuga, stuprati, torturati o rapiti a causa della loro appartenenza religiosa. “Molti di questi atti sono stati perpetrati in alcune aree del Medio Oriente, in Africa e in Asia…Inoltre, in alcuni paesi occidentali, dove storicamente la presenza cristiana è stata parte integrante della società, emerge un trend che tende a marginalizzare il cristianesimo dalla vita pubblica, ne ignora il contributo storico e sociale, e apporta addirittura restrizioni alla possibilità di portare avanti opere caritative e di volontariato da parte di comunità religiose”.

Tentazione del trionfalismo da una parte, persecuzione dall’altra. Noi cristiani viviamo perennemente tra essere trionfalisti oppure marginalizzati dalla vita pubblica. La fede in Cristo non ci permette di addormentarci: è giusto condannare chi sogna successi senza passare per la Croce, ma è anche giusto protestare e manifestare per le persecuzioni e il “trend che tende a marginalizzare il cristianesimo dalla vita pubblica”. Siamo mandati ad evangelizzare non solo le singole persone e le famiglie, ma la società e la cultura dominante che oggi toglie Dio dall’orizzonte dell’uomo e rende la religione un hobby privato.

Un esempio spiega questa nostra situazione esistenziale. Nel 1913, il sacerdote veronese Diodato Desenzani (1882-1960) entra nel Pime e viene mandato in India tra gli ultimi della società indiana, i paria, allora privi di qualsiasi assistenza sanitaria. Tornato in Italia nel 1933 per curarsi, padre Diodato si iscrive all’Università e nel 1938 consegue la laurea in medicina partendo poi definitivamente per l’India. In quegli anni fonda a Verona la UMMI (Unione Medico Missionaria Italiana), per preparare e inviare medici nelle missioni, la prima associazione di volontariato missionario in Italia, che Desenzani affida alla congregazione del Santo don Giovanni Calabria, “I poveri servi della Divina Provvidenza”. Dopo la II° guerra mondiale, quando inizia in Italia la stagione del volontariato missionario internazionale, la Ummi si diffonde.

Il Servo di Dio dott. Marcello Candia (1916-1983), che dirigeva l’industria chimica fondata dal padre, fonda (e finanzia) all’Università di Milano la “Scuola di medicina per i missionari”, provvidenziale per molti missionari e suore che poi, col diploma di infermiere di valore internazionale, hanno potuto esercitare la medicina nelle missioni. Quando sente che a Verona c’è la Ummi, Candia si accorda con don Calabria e la fonda anche a Milano. E qui nasce il disaccordo fra due uomini di Dio. Calabria, secondo lo spirito della sua Congregazione, non voleva fare pubblicità per la Ummi, né articoli sui giornali, si fidava della Provvidenza e citava il Vangelo: “Non sappia la tua destra quel che fa la tua sinistra” (Mat. 6,3). Candia invece, giovane e dinamico iniziatore di parecchie opere missionarie, invitava medici e giornalisti alle conferenze sul tema “Medicina e Missioni”, faceva scrivere articoli sui giornali e parlava alla radio per invitare medici e infermiere al volontariato nelle missioni. E citava a don Calabria ancora il Vangelo di Matteo (5, 16): “Così deve risplendere la vostra luce davanti agli uomini, perchè vedano le vostre opere buone e diano gloria al Padre vostro che sta in Cielo”.

La controversia dura fino al 1952, quando don Calabria ricorre al card. Schuster , il quale chiama Candia e gli spiega le ragioni del santo sacerdote veronese. Marcello fa un passo indietro e la sezione milanese dell’Ummi cambia nome e diventa ALAM (Associazione laici in aiuto alle Missioni). Il trionfalismo non va bene, ma anche tenere quasi nascoste le meraviglie che lo Spirito compie ancor oggi nella Chiesa non è secondo il Vangelo.

Piero Gheddo