Quei 136 bambini salvati alla nascita

Anche noi che leggiamo ogni giorno Avvenire e abbiamo buone informazioni sulla Chiesa italiana, non ci rendiamo conto di quante piccole grandi opere di volontariato sociale e cristiano ci sono nella nostra Italia. Sono realtà che allargano il cuore e fanno ben sperare nel futuro del nostro popolo. Nelle vacanze estive a Marina di Pietrasanta (Lucca),  nella casa per ferie della diocesi di Prato “La Versiliana”, sono venuto in contatto con il “Centro di Aiuto alla Vita”  (C.A.V.)  di Prato, che opera per la difesa e la promozione del bambino nel seno materno, aiutando la sua mamma ad accoglierlo anche quando le situazioni di vita sono molto difficili.
     Nel piccolo bambino che deve ancora nascere, dice la signora Bertilla Venco, che ha animato una S. Messa domenicale presentando il C.a.v., “noi riconosciamo una persona che ha diritto di nascere e di vivere, anche se il suo venire al mondo non è stato programmato”. E aggiunge che “oggi una mentalità nuova sta crescendo nel popolo italiano, per cui dire “aborto” non suona bene. Allora si cerca di sminuire la gravità della soppressione di un bambino all’inizio della sua vita,  e di far apparire l’aborto come una scelta di civiltà, con leggi dello stato che lo chiamano I.V.G., “interruzione volontaria di gravidanza”.
     Prato, alle porte di Firenze, è una diocesi con circa 200.000 abitanti, 111 sacerdoti diocesani, 34 religiosi e 250 suore. Non sono grandi numeri, ma il C.a.v. di Prato è una realtà, basata quasi interamente sul lavoro di volontari, che presenta un bilancio molto positivo. Nel  2012 sono ricorse al Centro 417 gestanti o mamme con figli alla ricerca di aiuto; 136 i bambini nati nel 2012.  La sede del C.a.v. è aperta per la prima accoglienza, che dev’essere cordiale, fraterna e manifestarsi nell’ascolto partecipativo, cioè di condividere i loro problemi e sofferenze: “Chi viene a chiedere aiuto – dice ancora Bertilla – è in situazione di bisogno e in questa situazione bisogna umiliarsi un po’ e bisogna fare di tutto per metterle a proprio agio”.
     “Le mamme sono aiutate nei modi più vari, con l’ascolto e dando loro aiuti concreti in denaro quando necessario e aiuti in natura e medicinali. Ad esempio, oggi tutte le gestanti e i neonati prendono le vitamine, che il servizio nazionale sanitario non passa; poi aiutiamo con articoli prima l’infanzia, abbigliamento, pannolini, ecc. Per l’erogazione degli alimenti prima infanzia e pannolini il C.AV. rilascia una tessera neonato a punti  (T.N.) da spendere presso l’”Emporio della Solidarietà”, un supermercato dove si va a fare la spesa con una tessera a punti. Ci sono poi le tessere famiglia  che oggi sono circa 900-950. I fondatori dell’Emporio sono la Caritas diocesana, che è ancora la principale contribuente, la Provincia e il Comune di Prato, la fondazione della Cassa di Risparmio di Prato. Poi ci siamo tutti noi che partecipiamo e collaboriamo in vari modi, anche facendo iniziative di vario genere per raccogliere fondi per  acquistare  quello che manca. Molti enti collaborano con l’Emporio, mandano pasta e riso, formaggi, salumi e carne, cibi di base; ci sono gli esuberi dei supermercati e dalle fabbriche che producono materiali per bambini e mamme in attesa.
     “Infine il C.A.V. gestisce una casa d’accoglienza denominata “Casa Aurora”, che a Prato ospita gestanti e madri con bambini piccoli e fa servizio di baby-sitting a bambini di mamme seguite dal Centro. La Casa Aurora è una struttura di ospitalità  gratuita e temporanea, messa a disposizione dalla diocesi. Per le ospiti il Centro, tramite le sue volontarie,  si adopera perché la loro permanenza nella casa, oltre ad essere un luogo in cui vivere con serenità e dignità il tempo della maternità, diventi anche un’occasione per progettare con fiducia il futuro con il loro bambino. I volontari del C.a.v., impegnati in modo sistematico, sono una cinquantina, oltre a tanti altri amici che aiutano quando possono. I volontari debbono essere fortemente motivati e prima di accoglierne uno il C.a.v. fa una specie di esame. Non importa se sono credenti o non credenti, cattolici o islamici o buddisti. Importa che abbiano un profondo rispetto per la vita e per le persone e diano il loro tempo con questa motivazione convinta”.
      In Italia, nel 2012 i Centri Aiuto alla Vita diocesani hanno salvato circa 16.000 bambini dalla morte per aborto. Dal 1975 i bambini nati grazie ai C.a.v. sono fra i 150 e i 160.000 e ben oltre le 500.000 le donne assistite. In certi ambienti laicisti oggi va di moda parlare male dei medici e paramedici obiettori di coscienza per l’aborto volontario. Eppure in Italia i medici obiettori sono circa l’80% di tutti i laureati in medicina. Loro infatti sanno bene che l’Interruzione di Gravidanza Volontaria equivale all’omicidio di un bambino, che vorrebbe nascere anche lui, povero piccolo e indifeso cucciolo di uomo e di donna.
                                                                               Piero Gheddo

Rivalutiamo laTeologia della Liberazione

Pranzo con mons. Mario Pasqualotto, in Amazzonia dal 1967 e vescovo ausiliare di Manaus. Gli dico che, come missionario giornalista, mi sono fatto un’idea negativa della Teologia della Liberazione e l’ho combattuta in articoli, conferenze e libri. Adesso Papa Francesco mi spiazza perché con parole e gesti sembra rivalutarla. Gli chiedo cosa ne pensa: “Il Papa fa bene – dice Pasqualotto – perché anche noi abbiamo condannato gli estremismi ideologici e politicizzati, ma il movimento di popolo suscitato da questa TL in Brasile e in Amazzonia è stato molto positivo, ha spinto la Chiesa e il popolo ad andare di più verso gli ultimi. Quando Papa Francesco parla di una Chiesa povera per i poveri, in Italia pensate ai vostri poveri, lui pensa ai poveri autentici che non hanno cibo, non hanno assistenza sanitaria, non hanno scuola e che in America Latina sono ancora non la maggioranza, ma poco ci manca. E questo, specialmente nel continente cattolico, è una situazione insostenibile, assurda. La politica e l’economia, la Chiesa e i popoli sviluppati, fra i quali noi italiani e noi credenti in Cristo, dobbiamo cambiare radicalmente il nostro sistema di vita andando verso l’austerità e fare a meno del superfluo, non solo per aiutare i poveri del mondo intero, ma per tornare al Vangelo e superare tutte le nostre crisi”.

Continuo il discorso con un altro missionario del Pime, padre Enrico Uggé in Amazzonia dal 1971 nella diocesi di Parintins. Ecco la sua testimonianza: “In Europa avete visto quasi solo gli aspetti negativi della TL, ma in Amazzonia si sono sperimentati quelli positivi. Devi distinguere tra gli ideologi e i teologi che usavano la Bibbia per finalità politiche, con i quali non siamo mai stati d’accordo, da quella che era ed è l’esperienza della Chiesa di base. L’evangelizzazione degli immensi territori del Brasile rurale e forestale è praticamente iniziata dopo la II guerra mondiale, quando sono venuti migliaia di missionari dall’Europa. Noi del Pime siamo presenti in Brasile dal 1946 e in Amazzonia dal 1948. Io sono arrivato a Parintins nel 1971 e ho visto che già da prima del Concilio mons. Cerqua e i primi missionari avevano organizzato le comunità di base. I missionari univano in villaggi le famiglie disperse lungo i fiumi per poter celebrare il culto domenicale con il catechista che spiegava il Vangelo, fare la catechesi, programmare attività comuni per il bene pubblico e dopo il Concilio si leggeva e meditava la Parola di Dio. Iniziava un embrione di vita comunitaria con la preghiera e l‘aiuto vicendevole e ai poveri. Ma non c’era nessun riferimento politico o ideologico”.

“Con la dittatura militare, negli anni settanta è arrivata la TL e nelle città come San Paolo c’è stato l’influsso dell’ideologia marxista e l’infiltrazione del partito comunista. Anche il Pime a San Paolo ha perso diversi sacerdoti per questa ideologia che portava verso la violenza, l’odio, il mito del socialismo. So di preti che toglievano le immagini dei santi e della Madonna dalle chiese, non dicevano più il Rosario e altre devozioni perché addormentavano il popolo, accusavano la Chiesa di essere troppo timida con i militari. Ma queste erano frange cittadine e intellettuali. Per noi in Amazzonia, la TL ha avuto l’effetto di orientare ancora di più la Chiesa verso i poveri, la solidarietà e l’aiuto agli ultimi, la presa di coscienza delle ingiustizie e della deforestazione del territorio. Ma abbiamo sempre seguito il vescovo e il Papa. Per quanto riguarda il Cimi (Consiglio Indigenista Missionario), che era accusato di essere marxista  e comunista, debbo dire che se oggi gli indios sono ancora presenti e uniti, si sono difese le aree indigene fissate dal governo e almeno in Amazonas la deforestazione è molto diminuita, lo dobbiamo al Cimi e alle nostre comunità di base che facevano questa azione”.

“Sotto la dittatura, anche la difesa dei diritti umani era pericolosa e ci sono stati casi di vero martirio. Mons. Casaldaliga, vescovo esponente del movimento suscitato dalla TL, una volta è andato a protestare con un suo prete dalla polizia che aveva arrestato alcune donne e le torturavano. Un poliziotto ha puntato la pistola alla testa del prete e ha sparato uccidendolo. Un vero martire della giustizia e della carità. Noi rifiutavamo i teologi e gli ideologi estremisti, alcuni anche condannati dalla Chiesa, ma c’era e c’è una base popolare sempre buona e fedele che ha cambiato atteggiamento di fronte ai poveri: prima erano oggetto di carità, di assistenza, ma poi è venuta la loro difesa, la loro promozione umana facendoli studiare. A Parintins ci sono ottimi cristiani uomini e donne che hanno studiato e venivano proprio dalle baracche, da situazioni estreme di miseria. E noi del Pime in Amazzonia, e anche nel Brasile del Sud dove abbiamo fondato e diretto decine e decine di parrocchie e anche diocesi, ci siamo distinti proprio per questa azione sociale e di promozione umana ispirandoci al Vangelo e alla tradizione sociale della Chiesa italiana, specie della Lombardia e del Veneto, da cui venivano fin dall’inizio la maggioranza delle nostre vocazioni”.

“Ad esempio, la prima anagrafe degli indios Sateré-Mawe l’ho organizzata io e portata a termine negli anni settanta. Le prime vaccinazioni di massa le ho fatte io. Pensa che abbiamo preso i nomi e fatto le foto di centinaia e centinaia di bambini indios, per i quali ci volevano dei vaccini. Poi li abbiamo portati a Manaus e ci hanno dato i vaccini, abbiamo vaccinato tutti. Adesso il governo va avanti, ma abbiamo cominciato noi.  Erano tempi epici, nei quali non potevi predicare il Vangelo se non aiutavi il popolo a sopravvivere e avere una istruzione. Adesso abbiamo un nostro indio laureato e specializzato nel fare esami clinici. E vorremmo aprire un centro di analisi nella foresta, a tre-quattro giorni di barca dalla città di Parintins, dove abbiamo già costruito la scuola tecnica per gli indios. Altrimenti un indio che deve sapere se ha una certa malattia, perde una settimana  per venire in città a fare questi esami. Il governo ha fatto molto, ma non può ancora fare tutto. La Chiesa è sempre pioniera nell’assistenza agli ultimi”.

«Uomo o donna: lei cosa mi consiglia?»

Padre Luigi Mandelli, missionario del Pime in Brasile e Amazzonia da 30 anni, mi racconta la situazione nella sua parrocchia alla periferia estrema di Manaus, definita “Area missionaria Santa Chiara”. “E’ una parrocchia che sta nascendo – dice – fra un popolo sbandato e non ancora stabilizzato nella metropoli. A Manaus c’è una continua immigrazione da ogni parte del Brasile e anche da paesi limitrofi perché la capitale dell’Amazzonia è “zona franca” che non paga tasse. Il lavoro c’è, pagato poco ma c’è. Solo un dato. La Honda importa dal Giappone i pezzi delle sue moto, a Manaus vengono montati ed esportati in tutto il mondo. Sai quante moto produce ogni giorno? 5.000, cinquemila!

“Tu non hai l’idea di come i costumi più pazzeschi e disumani che voi inventate in Occidente, reclamizzati da televisioni, giornali e internet, prendono piede in un povero popolo che ha bisogno di tutto ed è frastornato dalla modernità che irrompe violenta in una metropoli in cui la vita, trent’anni fa, era ancora lenta e basata sui valori tradizionali. Nella mia grande parrocchia, che può avere 25-30.000 abitanti, sono quasi tutti battezzati e ci tengono alla fede e alle loro devozioni. Ma le famiglie si sfasciano, i giovani non si sposano nemmeno più, molti crescono e diventano adulti senza sperimentare l’amore della mamma e del papà e il calore protettivo ed educativo della vita familiare. Io sono l’unico prete e la mia è l’unica parrocchia in quest’area missionaria S. Chiara, faccio quel che posso e i fedeli vicini alla chiesa vengono alle funzioni, mi ringraziano della mia presenza e collaborano alle attività pastorali. La diocesi (e la città) di Manaus ha poco più di un milione e mezzo di abitanti, con 56 preti diocesani, 115 missionari e religiosi e 171 suore.

“Poco prima che venissi in vacanza in Italia, una ragazzina di 13-14 anni è venuta a trovarmi e mi ha detto:”Padre, io non so cosa fare. Debbo scegliere se fare l’uomo o la donna, me lo dicono i miei compagni a scuola. Io non so cosa scegliere, ma lei cosa mi consiglia?”. Non è la prima volta che sento questo discorso – continua padre Mandelli – però questa volta ho potuto andare a fondo. La bambina è sincera e sono stato sincero anch’io. Prima abbiamo pregato assieme e poi, con l’aiuto di Dio, spero di averla convinta a non rovinarsi la vita con una scelta contro natura (è anche una bella ragazzina) che la renderebbe infelice. Le ho dato una immaginetta della Madonna a cui è devota e ha promesso di tornare a vedermi. Però tu che parli e scrivi in Italia, dillo ai nostri compatrioti italiani: le scelte pazze che voi fate hanno pesanti conseguenze nel nostro popolo ancora in formazione”.

Fin qui padre Mandelli. Leggo sui giornali che nella politica italiana si stanno votando o preparando leggi disumane, che affonderanno sempre più la moralità del nostro popolo e la famiglia italiana: omofobia, divorzio breve, matrimoni gay, adozioni di bambini da parte di coppie gay, eutanasia, ecc. L’Italia è un paese democratico e dal punto di vista legale non c’è nulla da dire: chi ha un voto in più decide. “Summum ius, summa iniuria” sentenziava Cicerone: “La massima rigidità nel giudicare è una grande ingiustizia”. Ma i cattolici che sostengono i partiti favorevoli a queste leggi, si rendono conto che contribuiscono ad affondare ancor più la già fragile famiglia italiana, fondata come Dio vuole (e lo proclama anche la nostra Costituzione) sull’unione fra uomo e donna? Di quanto poco conta la fede in Cristo e nella Chiesa nella loro vita? E della responsabilità che assumono davanti a Dio, di cui dovranno rendere conto? Non solo, ma l’Italia (che ospita il Papa!) è considerata nel mondo il “paese cattolico” esemplare, i nostri costumi e le nostre leggi hanno un notevole influsso, nel bene e nel male, anche nel resto del mondo, specie fra le popolazioni più povere e abbandonate.

Piero Gheddo

 

Come ho conosciuto e amato don Giussani

L’opera monumentale di Alberto Savorana (“Vita di Don Giussani”, Rizzoli 2013,  pagg. 1350), è la ricostruzione documentata della sua vita. Un volume affascinante perché l’Autore prende per mano il lettore e lo conduce ad esplorare la storia, la formazione e la personalità del fondatore di C.L. Sacerdote missionario dal 1953, ho conosciuto don Gius nel 1958-1959 quando andavo a sentire le sue catechesi su Gesù Cristo ai giovani dell’Azione cattolica e di Gs (Gioventù studentesca) in via Statuto 2 a Milano. Presentava Gesù non come un personaggio storico da studiare, ma presente oggi tra noi, il Figlio di Dio unico Salvatore dell’uomo. Ripeteva con voce commossa, a volte tonante: “Dobbiamo innamorarci di Gesù, che è sempre presente qui e in noi! ”. E raccontava come la “vita nuova” è di avere Gesù Cristo come primo punto di riferimento nella vita. Se la fede non mi cambia la vita, il modo di pensare e di agire, è una fiammella vacillante; se invece diventa amore e imitazione di Cristo, allora è il sole che illumina, riscalda, conforta.

Ben prima del Concilio Vaticano II, Giussani diceva che se la fede non umanizza la vita dell’uomo e della società, non conta nulla. Non avevo mai sentito una testimonianza così appassionata e convincente di quello che significa essere cristiano e prete. Don Giussani ci faceva incontrare con la persona di Gesù, toccando il cuore di molti. Era il carisma di questo grande prete e Maestro: commuoveva e convinceva chi lo ascoltava senza pregiudizi e col cuore libero e aperto. Alla domenica mandava i suoi studenti di GS tra i baraccati della periferia milanese (la “Bassa”), per aiutare le parrocchie nascenti e conoscere i problemi dell’uomo nel contatto amichevole con i poveri. I parroci erano ammirati, non poche decine di studenti, ma migliaia!

Poi ho incontrato don Giussani quando il “Sessantotto” ha sconvolto l’Occidente e la Chiesa: era un mix di laicismo, individualismo, marxismo, radicalismo. In 2000 anni il cristianesimo non ha creato il “mondo migliore”, ripartiamo da zero, il marxismo è la ricetta “scientifica”. Il Sessantotto è stato  molto negativo per la scuola, la famiglia, la politica, la società italiana, la Chiesa. E’ nato come protesta degli studenti contro i “baroni” delle Università, poi contro i politici, la scuola meritocratica, i “padroni” delle fabbriche, la Polizia e la giustizia, i vescovi e anche contro Paolo VI, “il Papa martire del secolo XX”.  Nelle “assemblee studentesche”  prevaleva “il pensiero unico”: chi proponeva qualcosa di diverso era minacciato, a volte picchiato. I sessantottini volevano un “uomo nuovo”, una “società giusta”, la “pace nel mondo”. Questo è possibile, ma solo a partire da Gesù Cristo. Nessun gruppo di “contestatori” cattolici aveva il coraggio di proclamare questa grande verità della nostra fede. La Chiesa italiana e le associazioni cattoliche tradizionali erano passive, impotenti, soggiogate della cultura dominante. I cattolici si ritiravano  nella “scelta religiosa” e lasciavano ai “laici” l’università, le scuole, la cultura, i giornali.  Erano comuni in quegli anni le comunità di fedeli che si staccavano dal vescovo; non pochi sacerdoti uscivano per “sperimentare un nuovo modo essere prete”. Quasi nessuno è rientrato. Non era facile conservare la fede e l’appartenenza alla Chiesa e andare contro-corrente era pericoloso.

All’inizio degli anni settanta nasce Comunione e Liberazione, reazione provvidenziale alle ideologie anti-cristiane. Ha reso visibile la presenza dei cristiani nelle Università, nelle scuole, nei giornali e nella società. Nel 1973 CL non aveva una sede e non trovava spazi nelle strutture diocesane. Nel marzo 1973 ritorna da Hong Kong padre Giacomo Girardi come direttore del Centro Pime di via Mosè Bianchi 94 a Milano; apre subito le porte a Cl: tutto il terzo piano del nuovo edificio (18 locali abitabili, circa 600 mq). La presenza di don Giussani e di Cl nel Centro missionario Pime dura vent’anni (1973 – 1993) e crea una simbiosi tra Cl e animatori missionari del Pime, che riceve una trentina di vocazioni.  Nell’ottobre 1973 Girardi organizza la prima Veglia missionaria alla vigilia della Giornata missionaria mondiale . Era un gesto coraggioso, in tempi in cui i cortei erano sempre e solo di protesta e di violenza. Invece, con Madre Teresa in testa, migliaia di persone sfilarono da una chiesa al centro fino al Duomo dove ci attendeva il card. Colombo, tutto andò bene. CL era sempre in prima linea in queste e molte altre manifestazioni simili.  Memorabile  la Veglia dell’ottobre 1975, con circa 100.000 giovani che sfilavano dal Castello per la Via Dante pregando e cantando, sotto gli striscioni delle Beatitudini. Al sabato sera Via Dante era solcata dai contestatori, che imbrattavano i muri, lanciavano blocchetti di pietra contro le vetrine dei negozi e i poliziotti. Il giorno dopo “Il Corriere della Sera” dedicava all’insolito avvenimento una pagina col titolo: “Dunque, i  cattolici ci sono ancora!”.

Poi la campagna contro la legge sull’aborto. Il 22 aprile 1977 nello Stadio San Siro si svolge la Festa per la Vita,  80.000 giovani e sul campo 18 vescovi delle diocesi lombarde e missionari, 200 preti concelebranti e Madre Teresa tiene il suo discorso sulla vita. Poi le campagne per i  profughi da Vietnam e Cambogia, con l’impegno della Caritas e delle parrocchie che hanno accolto circa 3.000 profughi; per i cristiani e la pace in Libano, contro la fame nel mondo. Don Giussani approvava e sosteneva tutto.

Don Giussani era un santo prete e un eccezionale animatore di giovani alla fede in Cristo. Ringrazio il Signore di averlo conosciuto e Alberto Savorana per questa sua biografia, dove c’è tutto, proprio tutto di lui. Nel  teatro e nella “Sala rossa” del Centro missionario Pime, al sabato si teneva la “Scuola di comunità”  per gli studenti. L’afflusso esauriva spesso la capienza delle due strutture (circa 1.000 posti a sedere), non pochi erano seduti per terra. Quando parlava don Giussani, noi del Pime andavamo a condividere la passione di quei giovani, seduti anche per terra. Don Gius parlava animato ed esprimeva concetti teologico-culturali di non facile comprensione. Ma quei ciellini, attenti e concentrati, scrivevano sui loro quadernetti quel il grande Gius diceva. Chissà cosa scrivevano, ma quella partecipazione di massa era un “segno dei tempi” al contrario. Nella confusione di idee, voci e ipotesi di quel tempo, i giovani volevano riscoprire le certezze della fede, per un dare un orientamento sicuro alla loro vita. E Giussani era l’uomo giusto per questo. Negli anni settanta, le ideologie del Sessantotto non attaccavano Gesù Cristo “il primo socialista”, ma la Chiesa, che Giussani difendeva con tutte le sue forze. Quando scandiva: “Ricordatevi, Gesù Cristo è l’unica ricchezza che abbiamo e Gesù lo incontriamo solo nella Chiesa cattolica, nel Papa e nei vescovi a lui uniti!”, qualche volta scoppiavano spontanei gli applausi.

 Piero Gheddo

“Il Vangelo del dialogo” di Franco Cagnasso

Fra i 16 documenti del Concilio Vaticano II (1962-1965), il più breve ma il più rivoluzionario è la “Nostra Aetate”, che ha capovolto l’atteggiamento che il popolo cristiano e i missionari avevano di fronte alle religioni non cristiane: erano viste come le nemiche di Cristo da combattere, oggi le consideriamo una preparazione a Cristo, una ricchezza dei popoli che la Chiesa deve conoscere e accogliere con discernimento, se vuol essere veramente “cattolica”, cioè universale e rappresentare tutti i popoli del mondo.

La Nostra Aetate ha rivoluzionato specialmente la missione alle genti, anche se siamo ancora ai primi passi nella sua attuazione. Padre Franco Cagnasso, esperto di islam che ha studiato l’arabo ed è missionario in Bangladesh, dopo 18 anni alla guida del Pime (1983-2001, prima da vicario e poi da superiore generale), dà con il volume “Il Vangelo del dialogo – A cura di Sergio Bocchini” (Centro editoriale Dehoniano, Bologna 2013, pagg. 194) un contributo interessante e importante di esperienza personale in un paese islamico, ma avendo visitato decine di altri paesi con altre religioni. Il sottotitolo del libro (“Riflessioni di un missionario a 50 anni dal Concilio”) ne chiarisce meglio i contenuti. Il Concilio e la prima enciclica di Paolo VI (“Ecclesiam suam”, 1964)  hanno lanciato il “dialogo” per orientare la missione primaria della Chiesa, annunziare Cristo ai non cristiani, in modo diverso dal passato: non solo annunzio, proclamazione della salvezza in Cristo, ma anche dialogo con tutti gli uomini ai quali la missione trasmette la Buona Notizia. Padre Franco, mezzo secolo dopo, esprime le sue riflessioni ed esperienze con “Il Vangelo del dialogo”.

Non  quindi un libro di riflessioni teologiche o di inquadratura sistematica dei problemi che il dialogo ha suscitato e suscita nelle missioni e giovani Chiese, ma una testimonianza di Vangelo annunziato secondo la sua esperienza, di lui, che ha preso sul serio la formula del “dialogo”. Tratta tutti i temi della missione alle genti, ma nello spirito del “dialogo”, perché la sua vita missionaria è stata ed è questa. Tra l’altro, in Bangladesh padre Franco è stato padre spirituale e insegnante di teologia nel seminario maggiore di tutte le diocesi bengalesi e ha contatti di amicizia con musulmani, indù e buddisti  locali, trovando anche il tempo, e gli aiuti economici, per “sporcarsi i sandali” aiutando i poveri senza idealizzarli o umiliarli ed esercitando la missione fra gli immigrati da ogni parte del paese a Dacca. Ha contribuito alla fondazione di un Centro pastorale (futura parrocchia) all’estrema periferia della metropoli, che conta 14-16 milioni di cittadini fra i quali anche molti giovani tribali convertiti a Cristo nei loro villaggi e che poi, nella grande capitale, rischiano di perdere la fede se non trovano una chiesa, un prete una suora pronti ad accoglierlo.

Il libro è interessante perché aiuta a capire e seguire la vita e la mentalità di un missionario figlio del Concilio in azione sul campo. Mi pare che queste “riflessioni a 50 anni dal  Concilio” indichino una direzione ben precisa. Noi missionari abbiamo soprattutto in mente che la nostra missione è di annunziare Cristo, testimoniare Cristo, convertire a Cristo, fondare la Chiesa. Partiamo dal Vangelo, dalla Chiesa, dalla Tradizione missionaria, per scendere agli uomini e donne non cristiani, con i nostri duemila anni di cristianesimo e di cultura teologica. Poi, il missionario conosce le sue “pecorelle”, si impegna ad aiutare i poveri, esercita la sua missione con tutti gli strumenti di cui dispone, catechesi, Sacramenti, lettura e meditazione della Parola di Dio, carità, formazione, ecc.

Franco Cagnasso, nello spirito del dialogo, rendendosi conto dell’abisso di incomprensione che esiste fra lui e i bengalesi, non solo per la lingua ma in ogni aspetto della vita,  illustra un altro tipo di approccio: lui parte dall’uomo concreto, che in Bengala è così diverso dall’italiano! Vuole conoscerlo anche nella sua fede islamica, amarlo, capirlo, condividere i suoi problemi e le sue difficoltà ed entrare in dialogo amichevole con lui, apprezzando i suoi valori umani e religiosi, per poter capire ed essere capito. Naturalmente rimanendo ben attaccato alla fede in Cristo Salvatore e al motivo per cui il Pime (cioè la Chiesa) l’ha inviato missionario in Bangladesh, ma aprendosi anche all’altro e alle diverse esperienze umane e spirituali di fratelli e sorelle nati in un popolo non cristiano.

L’approccio è diverso e scorrendo queste pagine mi rendo conto della complementarietà dei due approcci. Non sono alternativi, ma complementari e ambedue necessari. Non è sempre facile viverli assieme, ma si arricchiscono a vicenda. Per questo il volumetto di padre Franco Cagnasso merita di essere letto e anche meditato, perché ci sono pagine davvero commoventi e convincenti, che aprono il cuore e la mente a comprendere le “meraviglie dello Spirito Santo”, sempre in azione in tutti gli uomini e tutti i popoli, anche quando noi non ce ne accorgiamo.

Termino con due righe di “fuori onda”, come si dice. “Il Vangelo del dialogo – Riflessioni di un missionario a 50 anni dal Concilio” mi ha interessato molto perché conosco l’amico padre Franco e il Bangladesh (ho scritto nel 2009 “Missione Bengala”, la storia del Pime in questo paese), ma anche perché proprio nel giugno 2013 (senza sapere l’uno dell’altro) la Emi pubblicava il mio ultimo libro: “Missione senza se e senza ma – La missione alle genti dal Concilio Vaticano II a Papa Francesco” (Emi, 2013, pagg. 250), che rappresenta l’approccio tradizionale della “Missio ad gentes”. Padre Franco fa riflessioni e riporta la sua esperienza di missionario che crede nel dialogo; io racconto la storia della missione alle genti negli ultimi 50 anni e dimostro, con dati concreti, che la missione alle genti non è affatto al tramonto, ma ha un grande futuro. “L’attività missionaria è solo agli inizi”, si legge nella “Redemptoris Missio” (n. 30).

Molti non ci credono, ma leggendo l‘opera di padre Franco potranno convincersi meglio di questo. E forse, ma Dio solo lo sa, il futuro della missione sarà proprio verso questa direzione del “dialogo”, poichè lo Spirito non cessa mai di stupire e di inventare, lungo la storia dell’umanità  formule nuove, “dummodo Christus annuntietur” scrive San Paolo, “purchè Cristo sia annunziato” (Fil. 1, 8).

Piero Gheddo

 

Preghiera e digiuno contro la guerra in Siria

L’invito di Papa Francesco per una giornata di preghiere e di digiuno (sabato 7 settembre) per ottenere da Dio la pace in Siria, ha avuto risposte corali e positive. Una vera e propria mobilitazione di diocesi, parrocchie, istituti religiosi, associazioni, movimenti non solo ecclesiali ma anche laici. Il nostro ministro degli Esteri, Emma Bonino, ha dichiarato che non si unirà alla preghiera del Papa “in quanto laica”, ma “è probabile” che si unirà al digiuno.  E questo avviene non solo nella nostra Italia, ma un po’ in tutto il mondo si registrano adesioni, anche nei paesi islamici, in India e Sri Lanka, in Indonesia e Giappone.  Papa Francesco, che viene “dalla fine del mondo”, ha detto che si fa “interprete del grido che sale da ogni parte della terra, da ogni popolo,  dal cuore di ognuno dall’unica grande famiglia che è l’umanità  con angoscia crescente: è il grido della pace!”. E’ vero, nessun altro grande leader al mondo ha l’autorità morale e spirituale del Vescovo di Roma, per appellarsi al sentimento profondo dei popoli  e trovare poi rispondenza. Papa Francesco, che ha suscitato grandi simpatie per il suo modo di essere e di agire, si sta affermando come leader internazionale non solo per il miliardo e 200 milioni di cattolici o i due miliardi di cristiani, ma per tutti i popoli, tutti gli uomini.

Ne siamo felici e ringraziamo il Signore che guida i suoi passi, ma non basta. Nei suoi brevi commenti alla Parola di Dio che tiene ogni giorno alla S. Messa nel pensionato Santa Marta, Papa Francesco richiama sempre la responsabilità personale di tutti coloro che lo ascoltano, di noi che lo leggiamo. La parola del Papa (come quella del Vangelo naturalmente), è sempre provocatoria della nostra vita di credenti in Cristo. Se la fede non cambia la vita, la mia vita, rendendomi sempre più simile al Signore Gesù, non conta, non serve. Non basta la partecipazione emotiva alle tragedie dell’umanità, di chi si limita ad assistere alle guerre e ad altre calamità davanti allo schermo televisivo, con qualche sospiro di compassione e il segreto pensiero: meno male che questi disastri sono lontani da me, da casa mia!

Le due proposte di Papa Francesco per questa Giornata per la Pace in Siria: preghiera e digiuno. La preghiera è indispensabile anche per evitare una guerra. I “laici” non ci credono, ma noi ci crediamo. Papa Francesco ha detto: “Con tutta la mia forza, chiedo alle parti in conflitto di ascoltare la voce della propria coscienza, di non chiudersi nei propri interessi, ma di guardare all’altro come ad un fratello e di intraprendere con coraggio e con decisione la via dell’incontro e del negoziato, superando la cieca contrapposizione”. Ecco: “ascoltare la voce della propria coscienza”, perché le guerre nascono nella testa di chi le dichiara e la testa, il cuore, la coscienza di tutti è il primo campo di battaglia in cui Dio, lo Spirito Santo si fa sentire, lasciando però libero l’uomo di decidere. Papa Francesco grida “con tutta la mia forza”. A questa sua forza si aggiunge quella della nostra preghiera. Se non è solo un pensierino, ma un sacrificio del nostro tempo per parlare seriamente con Dio e chiedergli il dono della pace. Ad esempio, recitare il Santo Rosario, ricevere Gesù nell’Eucarestia, far celebrare una o più Sante Messe, un’ora di adorazione per questo scopo. Come individui noi contiamo poco o nulla, come oranti che danno a Dio il tempo della preghiera, contiamo molto di più. Gesù ha detto: “Qualunque cosa chiediate al Padre mio nel mio nome, egli ve la concederà” (Giov. 14, 13-14).

Il digiuno. E’ una forma di partecipazione, una forza importante per il nostro benessere spirituale e per chiedere a Dio la pace in Siria, nel mondo. Anche il digiuno non è una passeggiata, deve costarci sacrificio: significa saltare un pasto o non mangiare per tutto il giorno (questo ci rende più forti, non più deboli!); oppure rinunziare alla televisione per un giorno intero; c’è anche il “digiuno della lingua”, rinunziare a chiacchiere inutili, al gossip quotidiano, ecc. Insomma, qualcosa che morda nella nostra carne viva, per renderci partecipi, non solo emotivamente, ma fisicamente, alle sofferenze del popolo siriano. Noi credenti sappiamo che Gesù è morto in Croce per salvarci. Noi accettiamo una piccola Croce di rinunzia per dare una mano ai nostri fratelli e sorelle siriani.

  Piero Gheddo

Molti applausi a Martini ma non «santo subito»

Fra le troppe notizie negative di questa lunga estate, una positiva mi allarga il cuore. Il 31 agosto ricorre il primo anniversario della morte del card. C. M. Martini. L’anno scorso avevo scritto tre articoli sui miei rapporti con lui, ma l’ultimo non l‘ho pubblicato subito. La buona notizia è che la tomba dell’Arcivescovo nel Duomo di Milano continua ad essere frequentata da molti devoti che vi accendono candele e lumini, si fermano in preghiera. Questo articolo interpreta una “fama di santità” popolare che continua dal giorno della sua morte. Ecco l’articolo:

La morte del card. C.M. Martini (31 agosto 2012) ha suscitato commozione, devozione, lunghe file per visitare la sua “Camera ardente” e per la S. Messa di suffragio nel Duomo di Milano, i mass media anche internazionali hanno pubblicato pagine per ricordarlo. Nessuno però ha detto che era un santo, cioè non si è notata quella diffusa “fama di santità” nel popolo di Dio, che è uno dei segni per iniziare una Causa di beatificazione.

Non è facile capire perché. Non era davvero un santo? Ma questo lo giudica solo Dio. La fama di santità nasce certamente dalla vita santa del possibile “servo di Dio”, ma anche dall’immagine che egli dà di sé non solo ai vicini, ma al popolo di Dio e in genere all’opinione pubblica e ai mass media, che leggono poi tutto sulla base di preconcetti e di visioni anche parziali dei fatti. Chi ha avuto occasione di accostare il cardinal Martini e seguirlo da vicino nella giornata di lavoro (com’è successo a me una volta al mese per sei anni, nel Consiglio pastorale diocesano), ha sempre ammirato la sua serenità di spirito, il riferimento continuo alla Parola di Dio, la sua S. Messa e la preghiera, lo spirito di sacrificio, la capacità di avere uno sguardo paterno e misericordioso sul prossimo e di soffrire con pazienza anche le delusioni più scottanti. Ricordo quando a metà anni ottanta lamentava che il Rosario e la devozione popolare alla Madonna erano contestati proprio da gruppi di credenti.

La stoffa del santo c’era. Ma per capire l’uomo e il prete-vescovo Martini va anche tenuto conto del suo spirito missionario, che lo portava come mentalità di fondo verso i lontani, in due direzioni prioritarie non sempre condivise. Per annunziare Cristo in modo credibile il card. Martini riteneva che la Chiesa (cioè tutto il popolo di Dio) deve convertirsi al Vangelo in due sensi:

– da un lato avvicinarsi e accogliere i lontani, i diversi, non giudicarli, capire le loro ragioni, non polemizzare, amarli come fratelli ed esporre la fede in Cristo nello spirito del Vangelo: la fede è un dono di Dio, lo Spirito soffia dove vuole, anche nei lontani e nei non credenti ci sono semi di Vangelo, noi non siamo migliori degli altri. Insomma, la Chiesa deve sempre convertirsi a Cristo, come dice spesso Papa Benedetto, ma quando lo diceva Martini suscitava opposizioni e antipatie nel gregge al sicuro nell’ovile di Cristo, proprio per quell’inquadratura a volte negativa della sua personalità;

– dall’altro lato, il card. Martini pensava che “la Chiesa è rimasta indietro 200 anni”, come ha detto lui stesso nella sua ultima intervista. E questo non per colpa delle curie o dei preti, ma perché la fede nel nostro Occidente vacilla in molti, la frequenza alla S. Messa domenicale diminuisce e la tentazione è di chiuderci in difesa dell’ovile minacciato da ladri e da lupi rapaci; Martini pensava che questi segnali fossero invece “segni dei tempi” che ci invitano ad una vita più evangelica.

E’ vero però che non pochi fedeli rimanevano a volte scandalizzati da certe sue uscite (specie negli ultimi anni) che sembravano disobbedienza alla Chiesa e acquiescienza al mondo. Ed è anche vero che il nostro caro arcivescovo era spesso strumentalizzato da chi non amava e non ama la Chiesa! Anche a me quelle esaltazioni improprie davano fastidio e lo davano certo anche a lui e nel Consiglio Pastorale tutte le volte che faceva un intervento importante citava sempre Giovanni Paolo II e tutti lo notavano: “Vediamo se questa volta cita ancora il Papa!”, si diceva.

Com’è complesso l’uomo! Ciascuno di noi è una persona unica, irripetibile, incomprensibile dall’esterno. Solo Dio giudica perché vede nel profondo le nostre intenzioni.

– I non credenti ammiravano nel card. Martini il suo non giudicare nessuno e non polemizzare, il non imporre nulla, il suo impegno civile e sociale, il suo porre problemi alla Chiesa affinchè si aprisse agli altri condividendo le sofferenze delle persone in difficoltà e facendo il possibile per aiutarle e farle sentire a casa propria nella Chiesa. La “Cattedra dei non credenti” è stata per me una delle sue più profetiche iniziative pastorali e missionarie.

– I credenti invece lamentavano diverse sue uscite, che apparivano un “contr’altare” al magistero e alla Tradizione ecclesiale, ma erano una provocazione “missionaria” al corpo mistico di Cristo (un miliardo e 200 milioni!) che si muove lentamente, perché la Chiesa misura il tempo non ad anni ma a secoli. La sua era una fede che “si è fatta prossimo”, non un “vogliamoci bene perché questo solo è importante”. La fede di Martini era ferma e chiara, ma anche aperta alla ricerca del confronto con le ragioni degli altri. Non voleva una vita cristiana abitudinaria, voleva una fede che non lascia tranquillo il credente, ma lo mette di fronte ai non credenti e quindi a dare ragione del suo credere e ad interrogarsi se la propria vita rende testimonianza a Cristo, se è una luce che riscalda e illumina, oppure una fiammella di candela vacillante o un lievito che non sa di niente. La presenza dei non credenti vicini a noi, nella nostra stessa famiglia e società, deve interrogarci e convertirci a Cristo. Anche questo è spirito missionario.

Sono convinto che più passa il tempo, e svaniranno gli aspetti non comprensibili o anche discutibili del suo magistero, più il card. Martini sarà compreso e apprezzato per l’atteggiamento che aveva, autenticamente missionario, di fronte ai non credenti o comunque ai “lontani” da Cristo e dalla Chiesa.

Piero Gheddo