Rispondo all’invito di mandare contributi al V° Convegno ecclesiale che si svolgerà a Firenze (9-13 novembre 2015), sul tema “Gesù Cristo il nuovo umanesimo” (Avvenire, 23 ottobre 2013), con lo scopo dichiarato “di proporre alla libertà dell’uomo contemporaneo la persona di Gesù Cristo e l’esperienza cristiana quali fattori decisivi di un nuovo umanesimo”. E’ un testo lungo, chiaro e ben articolato, con una buona inquadratura teologica e una sintesi storica dell’umanesimo cristiano. Mi pare però che manchi la proiezione verso l’esterno, come chiede Papa Francesco che vuole “una Chiesa missionaria” e come, almeno da trent’anni scrivono e dicono i vescovi italiani. Nel 1985 il card. Anastasio Ballestrero, arcivescovo di Torino e presidente della CEI, diceva al Convegno ecclesiale di Loreto (ero un delegato della diocesi di Milano): “Il popolo italiano deve essere rievangelizzato con spirito e metodi missionari, bisogna passare da una pastorale di conservazione ad una pastorale missionaria”. Nella “Nota pastorale“ della CEI (marzo 2007) dopo il IV Convegno ecclesiale nazionale di Verona si legge: “Desideriamo che l’attività missionaria italiana si caratterizzi sempre più come comunione-scambio tra Chiese, attraverso la quale, mentre offriamo la ricchezza di una tradizione millenaria di vita cristiana, riceviamo l’entusiasmo con cui la fede è vissuta in altri continenti… Abbiamo molto da imparare alla scuola della missione. Chiediamo pertanto ai Centri missionari diocesani a far sì che la missionarietà pervada tutti gli ambiti della pastorale e della vita cristiana”. L’Assemblea generale della CEI in Vaticano (21-24 maggio 2007) aveva il titolo: “Gesù Cristo unico Salvatore del mondo – La Chiesa in missione, ad gentes e qui tra noi”. Nei cinque giorni (ero invitato come perito dell’Ad Gentes) si è discusso su come rendere concrete queste buone intenzioni e aspirazioni, ma senza giungere a decisioni pratiche.
Ecco l’impressione che ho avuto leggendo il testo del Comitato preparatorio a Firenze 2015: si rischia di rimanere sulle dichiarazioni di principio, tante volte ripetute, ma non si vede il salto di qualità che dovrebbe portare le diocesi e parrocchie italiane “da una pastorale di conservazione ad una pastorale missionaria”. Senza dubbio nascono in Italia numerose e nuove esperienze di evangelizzazione “missionaria”, ma poi, sacerdoti e operatori pastorali seguono faticosamente le vie tradizionali, spesso travolti da troppe urgenze ed emergenze per poter fare qualcosa di nuovo, di diverso. La grande domanda che tutti ci facciamo è questa: Come essere e come agire, noi sacerdoti e operatori pastorali, per rendere missionaria la Chiesa italiana? Cosa significa “abbiamo molto da imparare alla scuola della missione”?
Penso si debba dare ai nostri fedeli il senso della drammaticità della situazione di abbandono della fede in cui ci troviamo. Un vescovo lombardo dice al suo consiglio pastorale: “Abbiamo ancora 10-20 anni per cambiare questa scivolosa deriva verso il paganesimo”. Senza condannare nessuno e senza pessimismi, ma ciascun credente deve capire che l’Italia non si rievangelizza se tutti noi credenti non ci impegnano a ritornare a Cristo, il cui amore ci rende testimoni e missionari. Perché nel mondo non cristiano, i nuovi battezzati in genere hanno l’entusiasmo della fede e diventano spontaneamente missionari? Nel 2004 ho visitato tre diocesi su 7 del Borneo malese, dove si registrano conversioni in massa di tribali dayak.
L’arcidiocesi di Kuching aveva 150 mila cattolici (oggi 180.000) con 25 preti (oggi 31). La parrocchia di Serian, 36.000 cattolici per tre preti, con 80 cappelle da visitare. Il parroco James Meehan dice che ogni anno ha circa 500 battesimi di adulti. Ho chiesto come fa a prepararli. Risposta: “Fanno tutto i catechisti e i laici dei vari movimenti, in parrocchia ne abbiamo una decina”. Jong Chung, parroco di Bunan Gega, ha 300 battesimi all’anno di adulti convertiti, con una cinquantina di cappelle da curare. Questa regione dei dayak, visitandola, pare che sia tutta cattolica, quasi in ogni villaggio c’è una cappella. Il parroco mi dice: “I tribali scelgono il cristianesimo non l’islam e quando incontrano Cristo sperimentano che cambia la loro vita personale, familiare e di villaggio. Loro stessi diffondono il Vangelo”.
Chiedo a mons. William Sabang, vicario generale di Kuching e rettore del seminario, cosa insegnano i cattolici del Borneo a noi cristiani d’Italia. “Quando studiavo a Roma – dice – andavo da un sacerdote che aveva tre piccole parrocchie e si lamentava perché alla domenica doveva dire cinque Messe. Gli ho detto che a Kuching noi abbiamo preti che hanno otto-diecimila cattolici da assistere, dispersi in venti o trenta cappelle distanti l’una dall’altra e considerano normale dover celebrare quattro-cinque Messe o anche più. I nostri cristiani, essendo pochi i preti, fin dall’inizio si sono organizzati e provvedono a molte necessità delle loro comunità: riunioni di preghiera, catechesi, catecumenato, amministrazione, carità, costruzioni e riparazioni, ecc. S’è creata una tradizione e i cattolici sanno che debbono dare il loro tempo alla Chiesa. In Italia a volte mi stupivo di come i credenti si lamentano della Chiesa, ma fanno poco per evangelizzare, non prendono iniziative, aspettano tutto dal parroco o dal vescovo”. Concludo. Perché a Firenze 2015 non si discute su come trasmettere l’entusiasmo della fede che le missioni ci insegnano?
Piero Gheddo