Proposta per Firenze 2015

Rispondo all’invito di mandare contributi al V° Convegno ecclesiale che si svolgerà a Firenze (9-13 novembre 2015), sul tema “Gesù Cristo il nuovo umanesimo” (Avvenire, 23 ottobre 2013), con lo scopo dichiarato “di proporre alla libertà dell’uomo contemporaneo la persona di Gesù Cristo e l’esperienza cristiana quali fattori decisivi di un nuovo umanesimo”. E’ un testo lungo, chiaro e ben articolato, con una buona inquadratura teologica e una sintesi storica dell’umanesimo cristiano. Mi pare però che manchi la proiezione verso l’esterno, come chiede Papa Francesco che vuole “una Chiesa missionaria” e come, almeno da trent’anni scrivono e dicono i vescovi italiani. Nel 1985 il card. Anastasio Ballestrero, arcivescovo di Torino e presidente della CEI, diceva al Convegno ecclesiale di Loreto (ero un delegato della diocesi di Milano): “Il popolo italiano deve essere rievangelizzato con spirito e metodi missionari, bisogna passare da una pastorale di conservazione ad una pastorale missionaria”. Nella “Nota pastorale“ della CEI (marzo 2007) dopo il IV Convegno ecclesiale nazionale di Verona si legge: “Desideriamo che l’attività missionaria italiana si caratterizzi sempre più come comunione-scambio tra Chiese, attraverso la quale, mentre offriamo la ricchezza di una tradizione millenaria di vita cristiana, riceviamo l’entusiasmo con cui la fede è vissuta in altri continenti… Abbiamo molto da imparare alla scuola della missione. Chiediamo pertanto ai Centri missionari diocesani a far sì che la missionarietà pervada tutti gli ambiti della pastorale e della vita cristiana”. L’Assemblea generale della CEI in Vaticano (21-24 maggio 2007) aveva il titolo: “Gesù Cristo unico Salvatore del mondo – La Chiesa in missione, ad gentes e qui tra noi”. Nei cinque giorni (ero invitato come perito dell’Ad Gentes) si è discusso su come rendere concrete queste buone intenzioni e aspirazioni, ma senza giungere a decisioni pratiche.

Ecco l’impressione che ho avuto leggendo il testo del Comitato preparatorio a Firenze 2015: si rischia di rimanere sulle dichiarazioni di principio, tante volte ripetute, ma non si vede il salto di qualità che dovrebbe portare le diocesi e parrocchie italiane “da una pastorale di conservazione ad una pastorale missionaria”. Senza dubbio nascono in Italia numerose e nuove esperienze di evangelizzazione “missionaria”, ma poi, sacerdoti e operatori pastorali seguono faticosamente le vie tradizionali, spesso travolti da troppe urgenze ed emergenze per poter fare qualcosa di nuovo, di diverso. La grande domanda che tutti ci facciamo è questa: Come essere e come agire, noi sacerdoti e operatori pastorali, per rendere missionaria la Chiesa italiana? Cosa significa “abbiamo molto da imparare alla scuola della missione”?

Penso si debba dare ai nostri fedeli il senso della drammaticità della situazione di abbandono della fede in cui ci troviamo. Un vescovo lombardo dice al suo consiglio pastorale: “Abbiamo ancora 10-20 anni per cambiare questa scivolosa deriva verso il paganesimo”. Senza condannare nessuno e senza pessimismi, ma ciascun credente deve capire che l’Italia non si rievangelizza se tutti noi credenti non ci impegnano a ritornare a Cristo, il cui amore ci rende testimoni e missionari. Perché nel mondo non cristiano, i nuovi battezzati in genere hanno l’entusiasmo della fede e diventano spontaneamente missionari? Nel 2004 ho visitato tre diocesi su 7 del Borneo malese, dove si registrano conversioni in massa di tribali dayak.

L’arcidiocesi di Kuching aveva 150 mila cattolici (oggi 180.000) con 25 preti (oggi 31). La parrocchia di Serian, 36.000 cattolici per tre preti, con 80 cappelle da visitare. Il parroco James Meehan dice che ogni anno ha circa 500 battesimi di adulti. Ho chiesto come fa a prepararli. Risposta: “Fanno tutto i catechisti e i laici dei vari movimenti, in parrocchia ne abbiamo una decina”. Jong Chung, parroco di Bunan Gega, ha 300 battesimi all’anno di adulti convertiti, con una cinquantina di cappelle da curare. Questa regione dei dayak, visitandola, pare che sia tutta cattolica, quasi in ogni villaggio c’è una cappella. Il parroco mi dice: “I tribali scelgono il cristianesimo non l’islam e quando incontrano Cristo sperimentano che cambia la loro vita personale, familiare e di villaggio. Loro stessi diffondono il Vangelo”.

Chiedo a mons. William Sabang, vicario generale di Kuching e rettore del seminario, cosa insegnano i cattolici del Borneo a noi cristiani d’Italia. “Quando studiavo a Roma – dice – andavo da un sacerdote che aveva tre piccole parrocchie e si lamentava perché alla domenica doveva dire cinque Messe. Gli ho detto che a Kuching noi abbiamo preti che hanno otto-diecimila cattolici da assistere, dispersi in venti o trenta cappelle distanti l’una dall’altra e considerano normale dover celebrare quattro-cinque Messe o anche più. I nostri cristiani, essendo pochi i preti, fin dall’inizio si sono organizzati e provvedono a molte necessità delle loro comunità: riunioni di preghiera, catechesi, catecumenato, amministrazione, carità, costruzioni e riparazioni, ecc. S’è creata una tradizione e i cattolici sanno che debbono dare il loro tempo alla Chiesa. In Italia a volte mi stupivo di come i credenti si lamentano della Chiesa, ma fanno poco per evangelizzare, non prendono iniziative, aspettano tutto dal parroco o dal vescovo”. Concludo. Perché a Firenze 2015 non si discute su come trasmettere l’entusiasmo della fede che le missioni ci insegnano?

Piero Gheddo

La “Chiesa dialogante” da Paolo VI a Francesco

Paolo VI e il Concilio hanno lanciato il dialogo interreligioso con il Decreto “Nostra Aetate” e l’enciclica “Ecclesiam suam” (1964), due documenti da riprendere per leggerli e studiarli in riferimento non solo alle missioni (dove la Chiesa dialoga con le grandi religioni), ma al nostro Occidente cristiano, per la nuova evangelizzazione, che vuol riportare alla fede e alla vita cristiana i moltissimi battezzati che in chiesa non ci vengono più. L’“Ecclesiam Suam” presenta la Chiesa e la missione in una luce diversa da quanto noi immaginiamo:

1) Nella visione tradizionale la Chiesa ha il pieno possesso della Verità, i missionari sono mandati a tutti gli uomini per annunziare e convertire a Cristo. E’ una visione giusta ma statica, non dinamica.

2) Per Paolo VI la Chiesa è in cammino per raggiungere la pienezza della Verità, che noi uomini non conosciamo mai fino in fondo, perché Dio supera infinitamente la nostra mente e il nostro cuore. Nel corso dei secoli, lo Spirito Santo guida la Chiesa a fare passi in avanti verso la piena comprensione della Parola di Dio e del Vangelo.

3) Ecco il significato della “missione alle genti” e dell’annunzio, che non è una imposizione o una proclamazione, ma un dialogo con l’altro, per capirlo e farsi capire, per testimoniargli con la nostra vita e trasmettergli con la nostra povera parola la fede che salva; ma nel tempo stesso, ascoltarlo per conoscere i “semi del Verbo” che Dio ha messo in tutti gli uomini e conoscere i suoi valori religiosi e umani che il suo popolo e la sua civiltà hanno maturato. La missione non è solo un dare, ma un dare e un ricevere nel dialogo fraterno.

Tutto questo ha origine nella Trinità stessa, che salva l’umanità attraverso il “dialogo della salvezza” (“colloquium salutis”). Per Paolo VI il dialogo è un sinonimo di missione. Nel confronto e dialogo con i membri delle religioni non cristiane la Ecclesiam suam afferma: “Noi non possiamo evidentemente condividere queste varie espressioni religiose”, tuttavia non si può non avere per loro il “rispettoso riconoscimento dei valori spirituali e morali” che posseggono e occorre collaborare con esse “negli ideali che possono essere comuni nel campo della libertà religiosa, della fratellanza umana, della buona cultura”.

Nell’enciclica il dialogo è lo strumento attraverso il quale giungere insieme tra i dialoganti ad una più profonda comprensione della Parola di Dio. Per Paolo VI, il dialogo della Chiesa significa una totale e continua apertura a chiunque sia disposto ad ascoltare il messaggio di Cristo; è la natura stessa della Chiesa, nata per evangelizzare tutti gli uomini e le culture, che deve entrare in dialogo, cioè nel “colloquium salutis” (dialogo della salvezza), con tutti gli uomini.

Ho riletto l’Ecclesiam suam con crescente ammirazione per Paolo VI, che parla del dialogo con le grandi religioni, ma anche del “dialogo fra la Chiesa ed il mondo moderno” (n. 15), cioè con i non credenti, gli agnostici, gli atei, che sono soprattutto nell’Occidente un tempo “cristiano”; e poi delinea le virtù necessarie, le modalità , lo spirito del dialogo su temi religiosi. Leggendo l’Ecclesiam suam, pensavo a Papa Francesco, che sta realizzando l’insegnamento di PaoloVI e del Concilio, finora poco recepiti nella Chiesa. Questa la provvidenziale novità di Francesco, che vuole “una Chiesa dialogante”. La Ecclesiam suam scrive: “La Chiesa deve venire a dialogo col mondo in cui si trova a vivere. La Chiesa si fa parola; la Chiesa si fa messaggio; la Chiesa si fa colloquio” (n. 67). E il mondo, “ancor prima di convertirlo, anzi per convertirlo, bisogna accostarlo e parlargli. Dio non mandò il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma affinché sia salvato per mezzo di lui (Giov. 3, 17)” (nn. 70, 71).

“La Chiesa può rapportarsi col mondo rilevando i suoi mali, anatematizzandoli e muovendo crociate contro di essi” (n. 80); ma oggi ci vuole il dialogo, “suggerito dall’abitudine ormai diffusa di così concepire le relazioni fra il sacro e il profano, dal dinamismo trasformatore della società moderna, dal pluralismo delle sue manifestazioni, nonché dalla maturità dell’uomo, sia religioso che non religioso, fatto abile dall’educazione civile a pensare, a parlare, a trattare con dignità di dialogo” (n. 80)… Questa forma di rapporto indica un proposito di correttezza, di stima, di simpatia, di bontà da parte di chi lo instaura; esclude la condanna aprioristica, la polemica offensiva ed abituale” (n. 81). “Nel dialogo si scopre come diverse sono le vie che conducono alla luce della fede, e come sia possibile farle convergere allo stesso fine. Anche se divergenti, possono diventare complementari, spingendo il nostro ragionamento fuori dei sentieri comuni e obbligandolo ad approfondire le sue ricerche, a rinnovare le sue espressioni. La dialettica di questo esercizio di pensiero e di pazienza ci farà scoprire elementi di verità anche nelle opinioni altrui, ci obbligherà ad esprimere con grande lealtà il nostro insegnamento e ci darà merito per la fatica d’averlo esposto all’altrui obiezione, all’altrui lenta assimilazione” (n. 86).

L’enciclica di Paolo VI è profonda e profetica. Ci sono passaggi significativi: “Non si salva il mondo dal di fuori” dice il Papa e cita Gesù che si è fatto uomo per salvarci, partecipando alla vita degli uomini del suo tempo; così chi evangelizza deve “condividere, senza porre distanza di privilegi o diaframma di linguaggio incomprensibile… Bisogna, ancor prima di parlare, ascoltare la voce, anzi il cuore dell’uomo; comprenderlo, e per quanto possibile rispettarlo e dove lo merita assecondarlo. Bisogna farsi fratelli degli uomini nell’atto stesso che vogliamo essere loro pastori e padri e maestri. Il clima del dialogo è l’amicizia. Anzi il servizio. Tutto questo dovremo ricordare e studiarci di praticare secondo l’esempio e il precetto che Cristo ci lasciò” (n. 59).

E poi parla dei rischi del dialogo… “L’arte dell’apostolato è rischiosa. La sollecitudine di accostare i fratelli non deve tradursi in una attenuazione, in una diminuzione della verità. Il nostro dialogo non può essere una debolezza rispetto all’impegno verso la nostra fede. L’apostolato non può transigere con un compromesso ambiguo rispetto ai principi di pensiero e di azione che devono qualificare la nostra professione cristiana. L’irenismo e il sincretismo sono in fondo forme di scetticismo rispetto alla forza e al contenuto della Parola di Dio, che vogliamo predicare. Solo chi è pienamente fedele alla dottrina di Cristo può essere efficacemente apostolo” (n. 91). “E solo chi vive in pienezza la vocazione cristiana può essere immunizzato dal contagio di errori con cui viene a contatto” (n. 92).

Oggi è tramontata “l’epoca della cristianità”, quando fede e civiltà, Chiesa e Stato, mondo religioso e mondo laico erano strettamente collegati e collaboravano. Oggi la Chiesa vive in un mondo secolarizzato, con cristiani la cui fede è vacillante e quelli che si dichiarano senza religione: in Polonia sono il 9,3%, in Italia il 14-15% (circa 10 milioni!), in Spagna il 19,5%, in Germania il 21%, in Francia il 27%, in Inghilterra il 31%! Anch’essi sono creati da Dio e redenti da Cristo; anch’essi vanno evangelizzati e hanno dei valori morali e spirituali.

La pista per la Nuova Evangelizzazione è già aperta, ma il cammino per una “Chiesa dialogante” è ancora lungo. Il “dialogo delle salvezza” vale anche per le diocesi e parrocchie della nostra Italia. Ma finora si va avanti col faticoso tran-tran tradizionale di scarsa apertura e dialogo con chi è fuori del gregge di Cristo, anche perché i preti a volte si comportano come il parroco di Milano che diceva al card. Martini: “Ringrazio il cielo che vengono in chiesa solo il 15% dei miei parrocchiani, perchè se venissero tutti, mi sarebbe impossibile portare avanti la mia parrocchia”. Ma la missione della Chiesa non riguarda solo i preti e le suore. Papa Francesco insiste nel dire che vuole “una Chiesa missionaria” e questo, come nelle missioni, riguarda tutti i battezzati credenti e praticanti! Ecco la “rivoluzione” che il Concilio e i Papi propongono e che Francesco porta alla ribalta nel suo modo simpatico ed esplosivo.

I nostri vescovi dicono e scrivono spesso che “abbiamo molto da imparare dalla Chiesa missionaria”, però sono dichiarazioni che non trovano applicazioni concrete nella pastorale ordinaria di diocesi e parrocchie. Adesso arriva dalle missioni Papa Francesco che in modo del tutto imprevisto spiazza tutti col suo modo di agire e di parlare e conquista i cuori, anche di molti non cristiani. Non c’è alcuna rottura fra Francesco, Benedetto, Giovanni Paolo I e II, Paolo VI, ecc., ma Francesco porta la novità del metodo missionario. Nel nostro mondo post-cristiano dove, mi dicono parroci e viceparroci, che circa la metà dei giovani non sanno più nemmeno il Padre Nostro e l’Ave Maria, Papa Francesco è mandato dallo Spirito Santo, porta la Chiesa a livello della gente comune, parla a braccio (a rischio di dire anche cose poco esatte!) e provoca gli ascoltatori, dice che il Padre è misericordioso e perdona tutti, provoca gli ascoltatori, dice che vuole “una Chiesa povera per i poveri”, spariglia le carte e conquista i cuori. Insomma a me pare che sia all’inizio di un cammino che cambierà il volto della Chiesa, casa di tutti e per tutti. Non sappiamo come, non sappiamo dove andrà a finire, non sappiamo niente. Noi ci fidiamo dello Spirito Santo, che ha preso Jorge Mario Bergoglio “dalla fine del mondo” e l’ha mandato nelle nostre antiche Chiese d’Europa quasi come una sfida al nostro modo di concepire la parrocchia, la pastorale e la vita cristiana. Papa Francesco è davvero provvidenziale. Ho avuto grandi esperienze missionarie in ogni parte del mondo e ho toccato con mano quanto le vie di Dio sono diverse dalle nostre! A noi credenti spetta pregare, dare buon esempio, seguire con amore Papa Francesco e fidarci dello Spirito Santo. Certamente anche facendo le nostre osservazioni, ma senza accanimento critico, senza dividere il “Corpo mistico di Cristo”, senza diminuire l’ondata benefica che questo Papa sta seminando anche nel mondo non cristiano: una cordiale attenzione e simpatia per Cristo e la sua Chiesa.

Papa Francesco è il vento nuovo dello Spirito che soffia forte, perché viene da Chiese giovani che noi visitiamo ma non comprendiamo. Ad esempio, quando Francesco parla di una “Chiesa povera tra i poveri”, noi pensiamo ai nostri poveri, lui pensa a quelli del suo mondo: l’Argentina (estesa sette volte l’Italia con 40 milioni di abitanti) ha un Pil medio pro-capite di 11.000 dollari, l’Italia 37.000. In Africa e Asia, le differenze con noi diventano abissali. Quando parlo alla gente, dico sempre che noi siamo i privilegiati dell’umanità, perché abbiamo ricevuto il dono della fede e siamo nati in Italia dopo duemila anni di cristianesimo! Gran parte dell’umanità vive ancora nell’Antico Testamento, come il popolo ebraico prima di conoscere Gesù!

 

Un amico mi scrive sulla missione alle genti

Oggi, domenica 20 ottobre, è la Giornata missionaria mondiale. Volevo scrivere un Blog ma l’ha scritto per me un caro amico da lungo tempo, padre Augusto Luca, missionario Saveriano in Giappone, oggi in Italia. Padre Luca ha scritto parecchi libri sulla missione alle genti. Segnalo l’ultimo, la biografia del Santo Fondatore del Missionari Saveriani: “Guido Maria Conforti, Vescovo e Missionario”, (Paoline, pagg. 312, Euro 12,80), il Vescovo di Parma che nel 1895 fondò l’Istituto missioni estere nella sua città, i cui missionari sono oggi presenti in una trentina di paesi. Dall’albero buono sono venuti i frutti buoni, come dice Gesù e la biografia del Santo Guido Maria Conforti (1865-1931) dimostra come già nel 1800 c’erano Vescovi italiani con un forte spirito missionario, che hanno contribuito a proiettare la Chiesa italiana verso le “periferie dell’umanità”. Ringrazio padre Luca per questa sua lettera, che è un commento personale al mio ultimo volume, in cu racconto la mia esperienza della missione alle genti nell’ultimo mezzo secolo. Piero Gheddo.

Caro Padre Gheddo, grazie del tuo nuovo libro “Missione senza se e senza ma” (Emi, 2013, pagg. 254), ti ringrazio di cuore. L’ho voluto leggere tutto prima di scriverti. L’ho trovato molto interessante e ho potuto conoscere varie cose che non mi erano note, anzitutto il tuo contributo all’Ad Gentes e alla Redemptoris Missio. Ho letto con particolare interesse il capitolo sul Sessantotto. In qualche modo l’ho vissuto anch’io, perchè sono tornato dal Giappone nel 1966 e fui Consigliere generale dei Missionari Saveriani fino al 1971. Il Sessantotto è stato una rivoluzione che ha scardinato i fondamenti del cristianesimo, facendo precipitare la nostra società occidentale in un baratro nel quale regna l’anarchia degli individui e la ricerca della libertà senza limiti, con la conseguenza di far precipitare nella schiavitù della droga, nella dissolutezza del sesso senza amore e nella perdita della coscienza del bene e del male.

La Chiesa, nonostante il Concilio, si è trovata di fronte a un abbandono della fede e ad un ateismo pratico che fa vivere come se Dio non esistesse. Era l’intuizione di Papa Giovanni XXIII, quando diceva che il Concilio non si propone di combattere qualche eresia, ma lamentava l’ esistenza di un ateismo militante, operante su un piano mondiale (Costituzione Apostolica “Humanae Salutis” di indizione del Concilio Vaticano II, n. 3): “Questo si richiede ora alla Chiesa: di immettere l’energia perenne, vivificante, divina del Vangelo nelle vene di quella che è oggi la comunità umana, che si esalta delle sue conquiste nel campo della tecnica e delle scienze, ma subisce le conseguenze di un ordine temporale che taluni hanno tentato di riorganizzare prescindendo da Dio…. Ciò che va considerato nuovo e temibile, si è formata ed ha raggiunto molti popoli una corrente di persone, agguerrita come un esercito, che negano l’esistenza di Dio”.

Di qui la crisi delle Missioni. Come nel 1700, quando col sorgere dell’Illuminismo si è diffusa la diminuzione e l’abbandono della fede e di conseguenza la Chiesa, preoccupata per i problemi interni, ha diminuito e quasi azzerato lo slancio missionario (che riprende poi nell’Ottocento), così è anche nel nostro tempo. Ora si aggiungono anche i dubbi che la Redemptoris Missio elenca al n.4: “E’ ancora attuale la missione tra i non cristiani?”. Ecco gli elementi ricordati dall’enciclica, che si pensa possano sostituire e rendere inutile la missione alle genti: il dialogo inter-religioso, la promozione umana, il rispetto della coscienza e della libertà, le varie religioni via di salvezza. In quel tempo le riviste missionarie hanno inserito collaboratori e redattori laici e questo ha spostato l’attenzione dalle attività di evangelizzazione a quelle di assistenza sociale e, più recentemente, ai problemi politici dei popoli del cosiddetto Terzo mondo, o addirittura dell’Italia, dimenticando i missionari e la loro evangelizzazione in paesi non cristiani.

Il richiamo dei Papi alla missione tra i non cristiani, da Paolo VI a Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, dome tu ben documenti, non è stato ascoltato. La crisi è anche degli stessi missionari, che non sono più sostenuti da una motivazione forte sul perchè della Missione. La più bella pagina che hai scritto è quella a pagina 218-219, dove dici che per essere missionari è necessario essere innamorati di Cristo “Se io amo il Signore Gesù e sperimento la la bellezza di questo amore, sento il bisogno di comunicare questa esperienza a chi non ha ancora potuto farla”. E’ questa la grande molla che spinge alla missione! Che cosa fare? E’ difficile dirlo. Non ci resta che pregare il Signore, che illumini le nostre menti e muova i cuori per una risorta della volontà di Dio, che è sintetizzata in quelle parole di Gesù: “Questa è la vita eterna che conoscono TE, Padre e Colui che hai mandato, Gesù Cristo” (Giov. 17, 3). Continua la tua campagna per la missione ad gentes e che il Signore ci benedica tutti. Tuo aff.mo

P. Augusto Luca, Missionari Saveriani di Parma

Qual è il vero islam?

Non si può più tacere. Troppe notizie giungono da ogni parte del mondo islamico e sono tutte dello stesso segno: gli estremisti islamici (salafiti) sono all’attacco dei cristiani. Un italiano, tornato in questi giorni dalle Filippine, mi dice che nella grande  isola di Mindanao centinaia di estremisti sono giunti nella notte dall’interno del territorio e da isole minori e hanno attaccato un quartiere periferico della città di Zamboanga, saccheggiando e bruciando case e capanne. Si sono ritirati portando via decine di ostaggi  e lasciando sul terreno morti e feriti. L’italiano dice che uccisioni o rapimenti mirati sono frequenti ma forse è la prima volta che succede un attacco così massiccio ai cristiani. Nella regione s’è sparso il terrore per nuovi assalti e niente sarà più come prima. Il governo manderà l’esercito e si prevedono nuovi scontri, vendette, distruzioni. Chi può scappa in altre regioni del paese, la vita della gente e l’economia sono bloccate. Dai paesi del Golfo Arabo giungono copiosi finanziamenti agli ulama di moschee e scuole coraniche affinchè educhino i giovani alla lotta e al “martirio per l’islam” contro lo Stato cristiano, al quale i salafiti chiedono una regione autonoma per la minoranza islamica dell’isola di Mindanao, che si unirebbe alla Malesia e al vicino Borneo malese, per formare un unico Stato islamico.

      Questa una delle notizie che non giungono alla ribalta dell’informazione internazionale, ma non è la sola. Il Bangladesh è sempre stato un paese e un popolo di islam moderato, ancor oggi ammette missionari e suore stranieri; ma negli ultimi anni i numerosi movimenti e gruppi islamisti hanno infiammato il popolo, chiedono che il governo dichiari la “Sharia” (legge coranica) legge dello Stato e bloccano il paese per giorni con continui scioperi e manifestazioni che si risolvono spesso in violenze gratuite (chi viaggia o lavora viene fermato, battuto, a volte accoltellato o ucciso). Le piccole minoranze cristiane, indù e buddiste sono sotto pressione e subiscono ogni giorno condanne pretestuose, ingiustizie, violenze. Si teme che il Bangladesh, in occasione delle prossime elezioni politiche, volga al peggio. Il Centrafrica è “uno degli Stati più destabilizzati del continente”, a causa delle bande armate di islamici venuti dall’esterno (Nigeria, Ciad, Niger, Sudan), che hanno preso il potere nella capitale Bangui, scalzando il Presidente Bozizé. Come denunzia “Mondo e Missione” (ottobre 2013), “durante l’offensiva delle forze di Seleka (così si chiamano gli islamisti al potere), ospedali e centri sanitari sono stati saccheggiati e il personale medico è fuggito. La situazione sanitaria è drammatica”. Un pastore protestante dichiara: “ I cristiani sono presi di mira dai militari islamici: vengono legati, picchiati e costretti a consegnare i soldi per salvarsi la vita… I ribelli di Seleka devastano e saccheggiano luoghi di culto, uccidono e costringono alla fuga centinaia di migliaia di persone, prendendo di mira specialmente i cristiani”. Quattro diocesi del Centrafrica sono state pesantemente saccheggiate, almeno metà dei beni della Chiesa sono stati distrutti o portati via. Mons. Juan José Aguirre, vescovo di Bangassou, afferma: “La gente scappa ovunque, i civili vengono uccisi e le ragazzine violentate. In diocesi hanno rubato tutto quel che potevano: auto, moto, persino frigoriferi, televisori, coperte. Hanno distrutto tutto, dai centri scolastici ai servizi di pediatria”.
Un rapporto della diocesi di Bohong denunzia: “A Bohong non è stata risparmiata nessuna capanna appartenente agli abitanti non musulmani, da parte dei militari di Seleka venuti dall’estero. In tutta la città, esclusa la parte musulmana, la stessa scena: case senza tetto, muri anneriti e vuoti….”. Superfluo ricordare cosa succede in altri paesi dell’Africa nera. Il grande Nord del Mali è praticamente governato dalle bande islamiste, il Sud si è salvato solo per l’intervento delle forze speciali francesi. In Nigeria i frequenti assalti di Boko Aram a chiese e istituzioni cristiane rivelano il piano di scacciare i non musulmani da tutti gli Stati del Nord. Nel solo mese di settembre 2013 le vittime cristiane di queste violenze sono state circa 500!
     
L’Occidente si illude dicendo: “Ma questo non è il vero islam”. Ma qual è il vero islam? In verità, dato che i terroristi e i salafiti stessi si dichiarano islamici e che agiscono in favore dell’islam, giunge alla ribalta solo l’islam violento. So bene che la maggioranza dei credenti in Allah e Corano sono persone pacifiche che aspirano solo a vivere in pace e in libertà. Ho visitato tutti i paesi islamici dall’Indonesia al Marocco, dalla Somalia al Senegal, dal Mozambico all’Egitto e alla Turchia, e l’ho sempre sentito ripetere da cristiani e anche da missionari, suore, sacerdoti e vescovi locali. Ma allora è lecito chiedersi: perché queste masse umane di moderati non protestano mai; perchè non nascono associazioni e gruppi musulmani per condannare le violenze dei salafiti e il “martirio per l’islam” dei kamikaze terroristi? Nella nostra Italia ci sono dai due ai tre milioni di musulmani, i cui diritti alla libertà religiosa sono riconosciuti. Perchè non protestano mai contro queste violenze sistematiche compiute dai loro correligionari? Queste domande non sono offensive. Desidero solo evitare che anche in Italia si pensi quello che ha dichiarato a “Tempi.it” Domenico Quirico, inviato e “La Stampa” in Siria e per mesi prigioniero dei guerriglieri islamici: “Noi non vogliamo capire che l’islam moderato non esiste, che la Primavera araba è finita e che la sua nuova fase consiste nel progetto islamista e jihadista di costruire il Grande Califfato islamico. Un progetto politico preciso che ha armi, eserciti, soldi e che si sta realizzando a partire dalla Siria”. Noi credenti in Cristo e nella Chiesa cattolica continuiamo nella preghiera, nel dialogo, nell’accoglienza e solidarietà verso i musulmani bisognosi, ma certe domande è bene che ce le poniamo e le discutiamo.

Non sappiamo più guardare lontano

In questo tempo di grave crisi politica ed economica, la politica non sa più offrire grandi e nobili ideali, capaci di appassionare specialmente i giovani. C’è una generale mancanza di senso che obbliga tutti a vivere giorno per giorno. I mass media centrano l’attenzione dell’opinione pubblica sui temi ripetitivi che l’immediata attualità ci offre, le lotte interne dei vari partiti, gli alti e bassi quotidiani del governo, cosa dice questo o quell’eletto dal popolo, temi che quasi non interessano più.  Parlo con l’amico ing. Italo Girardi, che con l’aiuto della moglie Augusta e dei figli anch’essi laureati in architettura e ingegneria riesce ad avere del lavoro per tutti i componenti della sua ditta. Mi dice: “Mi sono proposto di non interessarmi della politica italiana. Se ci fossero elezioni, allora mi informerò per sapere a chi dare il mio voto, adesso non ne vale la pena”. La disaffezione degli italiani dalla politica viene anche da questa mancanza di visioni, di prospettive. Di qui la generale decadenza della politica, la disintegrazione della società. Una politica animata da grandi ideali potrebbe ridare all’Europa, e in particolare all’Italia, la speranza, l’ottimismo, il coraggio e la forza di impegnarsi per mete che chiedono il sacrificio di tutti. La Costituzione europea più volte votata e poi bocciata e rimandata, tratta solo di temi politici, giuridici, economici, militari, commerciali…  Ma i popoli europei, soprattutto i giovani, mancano di ideali per i quali valga la pena di spendere la vita.

Sessant’anni fa, nell’immediato dopoguerra, noi giovani cattolici ci sentivamo protagonisti nella ricostruzione dell’Italia dopo le distruzioni della guerra, per fondare una repubblica democratica, superare le barriere di odio e di violenza che dividevano gli italiani e scongiurare il pericolo, allora molto concreto, di scivolare dietro la “cortina di ferro”. La vigorosa ed entusiasta Azione cattolica di quel tempo ci animava per questi ideali, insistendo sui forti sacrifici che il dopoguerra richiedeva a noi giovani. Eravamo pieni di fede e con una grande carica di donazione della nostra stessa vita per costruire un’Italia nuova. Oggi, al contrario, noi soffochiamo nel superfluo, nello spreco, nell’indifferenza, nell’aridità dei sentimenti. I giovani sono le prime vittime di questo spirito di declino, che porta alla morte.

Il grande ideale che il mondo globalizzato oggi ci impone è la solidarietà e l’integrazione con i “popoli altri” che premono alle nostre frontiere e chiedono di avere il necessario alla vita. Questa la massima sfida del nostro tempo. Ma all’orizzonte non si vedono soggetti educativi che prendano sul serio questo orientamento: governi, partiti, sindacati, scuole, mass media, associazioni, famiglie, sembrano orientati all’inseguimento del produrre di più, avere di più, consumare di più, come se questo potesse risolvere la nostra crisi esistenziale. Manchiamo di visioni messianiche, non siamo capaci di “guardare lontano”. Noi insegniamo ai giovani a protestare “contro” (l’Italia è intasata di scioperi e di manifestazioni contro le molte cose che non funzionano), ma incapaci di chiedere sacrifici “per”. Chi guida l’opinione pubblica deve fare una proposta forte ai giovani per impegnarli, con gravi sacrifici personali, a costruire un “mondo nuovo”.

Nel 1982 il Comitato ecclesiale contro la fame nel mondo della Cei lanciò lo slogan: “Contro la fame cambia la vita”, (citato dalla “Redemptoris Missio” n. 59); nel proclama iniziale si legge: “Le proteste hanno senso se accompagnate da una conversione del nostro modello di sviluppo all’austerità di vita. Altrimenti sono un alibi ipocrita: le multinazionali che sfruttano i poveri siamo noi, col nostro vivere nello spreco, nel superfluo, nel voler avere sempre di più. Per essere fratelli dei poveri occorre andare contro-corrente, sostituire il divertimento con il sacrificio. Ad esempio, perché voi giovani non vi impegnate a rifiutare e protestare contro lo sballo disumano delle discoteche? Non si può essere solidali con i poveri e sprecare le notti in quei divertimenti che sono il simbolo della nostra società nichilista e allo sbando. Perchè non vi impegnate negli istituti, gruppi e  Ong missionari per dare una mano o tutta la vostra vita alla missione universale della Chiesa?”.

Papa Francesco vorrebbe “una Chiesa povera per i poveri” e richiama spesso la parola di Gesù: “Ama il prossimo tuo come te stesso” (Mt, 19, 19) e testi simili.  Come tradurre queste indicazioni della fede in progetti operativi concreti in campo politico, culturale, educativo ed economico? Questo il tema che dovrebbe essere al centro dell’attenzione dei mass media, della politica, della scuola, della stessa Chiesa e formazione cristiana. Ecco la proposta da fare, in positivo.

 Piero Gheddo

«Non capisco perché recitare il Rosario»

Un amico presente alla mia conferenza nella parrocchia di Renate (Mb) per il Centro culturale “Pèguy”, mi ha scritto questa lettera:
     “Caro padre, ieri sera lei ha detto che il beato Vismara diceva ogni giorno la preghiera del Rosario e mi è rimasta una domanda in canna. Per prima cosa: a me fa molta fatica recitare le preghiere ripetitive, non ne capisco il senso. Secondo, non credo molto nell’efficacia della preghiera visto che noi non sappiamo cosa chiedere e Dio, il quale ci ama e sa già meglio di noi qual è il nostro bene, comunque non si lascia certo influenzare dalle nostre richieste. Mi aiuta a chiarire la questione? Grazie ancora suo ….”.
 
      Ecco la mia risposta che penso possa servire anche ad altri: “Caro amico, rispondo brevemente alla sua lettera di cui la ringrazio.
      1)  Il Rosario, preghiera ripetitiva, è raccomandato dalla Madonna in molte sue apparizioni e dalla Chiesa, non ho ancora trovato un santo che non dicesse il Rosario e spesso due-tre Rosari al giorno, anche camminando o facendo un lavoro manuale che lascia libero il pensiero e il cuore. Perché? La preghiera non è ripetere una formula, è amare Dio, parlare con Dio, mettersi in comunicazione con Dio, con Gesù, con la Madonna. Se uno si mette col pensiero in contatto con Dio e poi dice il Rosario, proprio la sua ripetitività favorisce lo scambio amoroso, di affetti e pensieri, di richieste di perdono e ispirazioni dello Spirito.
        Ma poi, caro amico, quante volte il  bambino chiama la mamma di giorno e di notte, durante il giorno e sempre? Si stanca di ripetere sempre la stessa invocazione? E la mamma si stanca di sentire che il suo bambino ha bisogno di lei? No, anzi! L’amore, il bisogno di sentirsi amato e protetto  spinge il bambino a ripetere questa invocazione: Mamma!….. Con la Madonna dobbiamo comportarci come piccoli bambini che hanno sempre e ovunque bisogno della nostra Mamma del Cielo, che è anche la Mamma di Gesù.
      2)  Non è Dio che ha bisogno di noi e della nostra preghiera, siamo noi che abbiamo bisogno di Dio. La preghiera più bella è dire a Dio: sia fatta la tua volontà. E’ chiaro che Lui la fa lo stesso! Ma siamo noi che dobbiamo entrare in questa logica del “fare la volontà di Dio”  e non la nostra! Non è facile “fare la volontà di Dio” e proprio per questo è bene pregare tanto con questa intenzione, in modo che il Signore ci aiuti a scegliere sempre la via stretta che porta al Paradiso e noi possiamo seguire le ispirazioni dello Spirito e la volontà di Dio.
       3)   La preghiera frequente ed autentica (ripeto: amare e parlare e comunicare con Dio, non ripetere formule pensando ad altro), a poco a poco ci aiuta a vedere la nostra vita e il mondo che ci circonda non con i nostri occhi, i nostri limiti e le nostre passioni umane, ma con gli occhi e l’amore di Dio. Questo è il cammino della vita cristiana, che ci porta ad essere sempre più simili a Gesù, l’uomo-Dio che è modello a cui dobbiamo sempre ispirarci per la nostra vita.
      4)  Pregando tanto, ciascuno secondo le sue possibilità, ma col sacrificio di tempo che la nostra salute spirituale (come quella fisica) richiede, raggiungiamo un’altra meta a cui tutti aspiriamo: la serenità di vita, la gioia di vivere, la forza per sopportare le malattie, le avversità, le sofferenze e i fallimenti inevitabili per tutti. Quanto più noi siamo uniti a Dio, con la preghiera e facendo la sua volontà, tanto più ci sentiamo sereni, contenti, protetti, amati, illuminati, confortati, sicuri che Dio ci vuole bene ed è con noi.
          Il beato Clemente Vismara, di cui ho scritto la biografia che è un vero romanzo d’avventure autentiche (“Fatto per andare lontano – Clemente Vismara, missionario e beato (1897-1988)”, Emi 2013, pagg. 500), ha fatto 65 anni di missione fra i tribali delle foreste birmane, fra guerriglie, dittatura, briganti, popolazioni poverissime, soffrendo la fame e rischiando parecchie volte la vita. Eppure la gente lo chiamavano “il padre che sorride sempre”, perché era sempre sereno e gioioso, non si arrabbiava mai. I suoi confratelli dicevano: “E’ morto a 91 anni senza mai essere invecchiato”, non si era lasciato indurire dalle fatiche e dalle sofferenze. E non perché fosse diverso da noi (che spesso siamo tristi, abbattuti, scoraggiati, pessimisti), ma perché pregava molto e cercava di fare la volontà di Dio. Insomma, aveva una marcia in più e la Chiesa lo propone a tutti come modello di vita cristiana. 
                                                                       Piero Gheddo