Il Natale di quando eravamo giovani

Nel deserto dei sentimenti di questi nostri tempi, per noi anziani è bello ricordare il Natale di quando eravamo bambini e adolescenti, perché pur nella povertà e poi nella guerra di allora, era un Natale di gioia autentica e profonda, che lasciava il segno tutto l’anno. Il pensiero mi riporta al tempo natalizio nel mio piccolo paese di Tronzano nella pianura vercellese, quando c’erano le grandi nevicate, mezzo metro di neve era comune. Noi tre fratelli avevamo perso mamma Rosetta nel 1934 con due gemellini prematuri: io avevo cinque anni, Franco quattro, Mario tre; e papà Giovanni, che diceva di volere 12 figli, era lontano, nella guerra di Russia e non è più tornato. Siamo stati allevati dalla nonna Anna (Neta) che per noi è stata una vera mamma (aveva avuto 11 figli), da zia Gina handicappata nelle gambe ma ci raccontava, con la sua bella voce, le storie di Gesù, Giuseppe e Maria; e poi la grande zia Adelaide, autorevole insegnante e direttrice didattica delle scuole elementari, un personaggio a Tronzano, “il paese del tuono” (in piemontese “trun”).

Il Natale era la festa di tutti, la festa della famiglia, delle luci e dei commoventi canti natalizi: Adeste fideles, Astro del Ciel pargol divin, Tu scendi dalle stelle. Era la festa dei Presepi che si incontravano ovunque, nelle case e in chiesa, nell’oratorio maschile e in quello femminile (tenuto dalle Suore della Carità di Sant’Antida), ma anche nelle scuole e nella sede del Comune, nell’Albergo del Sole, nell’Alecta (fabbrica di legno compensato) e in altri locali pubblici, come negozi, aziende e anche osterie. In quel giorno eravamo una sola famiglia, era la festa dell’amore e della pace. I parroci don Giovanni Ravetti e poi don Pietro Beuz, ancora ricordati e venerati, dicevano che Gesù Bambino porta il dono della pace, raccomandavano e facevano pregare per la pace nelle e fra le famiglie; e poi, tempo dopo, ringraziavano i tronzanesi perché a Natale diverse inimicizie si erano ricomposte.

In parrocchia il giorno del Natale era scandito dalle Messe, la Messa di mezzanotte, quella dell’alba e poi la scoperta dei “doni di Gesù Bambino” accanto al lettino di ogni bambino; e la “Messa grande” alle 10,30 con l’organo che suonava a piene trombe e faceva fatica a sovrastare le voci di tutto un popolo che cantava a gole spiegate, a tutta canna. La grande chiesa era strapiena e non pochi fedeli erano nella contigua “chiesa della Regola”, che apparteneva alla Confraternita del Rosario ed era unita alla parrocchiale da una porta, nella quale gli altoparlanti portavano le parole del sacerdote, le musiche, i canti. Quanta emozione nel trovarci assieme per festeggiare la nascita del Bambino Gesù appena svelato nel Presepio parrocchiale.

E poi la gioia del pranzo natalizio nelle famiglie e anche tra le famiglie, con lo scambio di auguri e di doni, quando i tronzanesi “avevano il cuore in mano” come diceva il vecchio parroco. Ricordo bene che mamma Rosetta e poi la nonna o la zia Adelaide ci portavano in una delle case di ringhiera del paese, dove all’ultimo piano c’era una famiglia come la nostra, povera e anch’essa con tre bambini. I doni di Gesù Bambino, specie i sacchetti di cioccolatini che le zie sorelle della mamma ci portavano da Torino (allora una novità quasi assoluta per gente di paese), venivano divisi in due parti e noi bambini portavamo la loro parte a quei nostri amichetti; che, avvisati in precedenza, ci aspettavano e facevano salti di gioia. E ricordo anche, anni dopo, papà Giovanni che mentre eravamo con la nonna sulla porta di casa passa il Giuanin a chiedere l’elemosina. Papà gli dà una moneta d’argento di cinque lire (una somma notevole a quel tempo, quando il nostro “pret” di adolescenti alla domenica erano 20 centesimi!) e quando Giuanin si è allontanato, nonna Neta dice a papà in tono di rimprovero: “Cinque lire! Ma Giovanni, lui le spende tutte per ubriacarsi!”. Papà risponde. “Oggi siamo tutti in festa perché è nato Gesù, lascia che faccia festa anche lui”.

Nel giorno di Natale, anche dove c’era divisione, regnava la pace, come cantavano gli angeli sulla stalla di Betlemme: “Gloria a Dio nell’alto dei cieli e pace in terra agli uomini di buona volontà”. Il Natale a Tronzano, lungamente preparato dalla frequentatissima Novena (con l’indimenticabile Regem venturum Dominum) e dalla raccolta di aiuti per i poveri casa per casa, non lasciava nessuno indifferente. Anche i non molti lontani per vari motivi, in quel giorno si vedevano in chiesa, almeno davanti al Presepio animato (ogni anno diverso e nuovo). A Tronzano c’era una cultura cristiana condivisa, che teneva uniti il paese e le famiglie nella comune letizia.

Ma allora, si dice, erano altri tempi. E’ vero, ma anche nei nostri tempi bisogna ritrovare quello spirito di fede, di speranza, di gioia e di fraternità che animava i Natali di allora, quando in Italia eravamo molto più poveri, meno istruiti e meno democratici di adesso e ci bombardavano dall’alto, senza che potessimo fare altro che pregare. Cosa abbiamo perso mezzo secolo dopo? Senza alcun dubbio la fede in Gesù unico Salvatore dell’uomo, e con la fede la preghiera e la vita cristiana. Il Bambino che rinasce per noi anche in questo Natale 2013 può ridarci quello spirito, basta che gli apriamo la porta del nostro cuore.

Piero Gheddo

Con il Natale il blog si ferma per qualche giorno: ritornerà dopo il 6 gennaio

Analfabetismo e sottosviluppo africano

Dopo l’animismo (prima causa del sottosviluppo nell’Africa nera – vedi Blog del 5 dicembre), la seconda causa è l’analfabetismo e la scarsa educazione del popolo a produrre ricchezza. Nell’Africa a sud del Sahara gli analfabeti sono in media sul 35-40% della popolazione e con gli “analfabeti di ritorno” si supera il 50%. Nelle campagne, le scuole valgono poco, spesso hanno 60-80 alunni per classe, senza libri, quaderni, strumenti didattici. Nelle città si trovano anche buone scuole e alcune università eccellenti, ma nei villaggi l’istruzione e la sanità fanno pietà. I paesi africani sono in genere molto estesi e poco popolati. Le grandi distanze, la mancanza di strade e la forte corruzione della classe politico-amministraiva, spiegano perché i governi trascurano le regioni rurali, che invece dovrebbero produrre la base dello sviluppo, il cibo. Già nel 1962 un famoso agronomo francese, René Dumont (1904-2001), consulente di diversi governi africani indipendenti, con “L’Afrique noire est mal partie”, denunziava il fatto che i giovani governi africani trascuravano i villaggi rurali e scriveva che l’Africa, “se continua a trascurare i contadini e privilegiare i cittadini, tra dieci o vent’anni sarà alla fame”.

“La cultura africana ostacola lo sviluppo”

Nel 2007 sono tornato in Guinea Bissau e ho visitato una giovane volontaria dell’Alp (Associazione Laici Pime), Nicoletta Maffazioli, che a Bambadinca ha fondato e gestisce con altri volontari un “Centro di formazione” dei giovani africani che vengono dalle campagne: “Uomini e donne dai 16 ai 25 anni scelti dalle singole missioni, per farne dei leaders del mondo rurale ancora molto arretrato. Sono giovani di buona volontà, cordiali e vivaci, molto motivati, ma ai primi passi nel mondo moderno. Nicoletta mi dice: “I nostri corsi sono gratuiti e accogliamo al massimo 30 persone, facciamo corsi di agricoltura, sistema di irrigazione, allevamento animali, malattie delle piante degli orti (che è il grosso problema di qui) e degli animali, conservazione dei prodotti, trasformazione dei frutti ad esempio in marmellate e sughi, coltivazione delle api per il miele, come nutrire i bambini con prodotti locali non pesanti, la contabilità (contano fino a una certa misura, poi dicono…”tanti”); e poi questi giovani prendono contatto con le case in muratura, come si aprono i rubinetti dell’acqua e le maniglie delle porte, l’uso dei fornelli elettrici e a gas. Mentre il resto del mondo corre, qui ci sono ancora una marea di giovani vivaci e intelligenti in questa situazione, ma è la realtà dei villaggi lontani dalle città che sono davvero tanti, quasi abbandonati a se stessi”.

Ancora in Guinea Bissau un missionario del Pime, padre Luigi Scantamburlo, ha fondato nei villaggi delle isole Bijagos un’ottantina di piccole cooperative di pesca, portando strumenti moderni e chiamando da Chioggia (Venezia) alcuni tecnici per insegnare ad usarli. Con un mare pescosissimo, prima si moriva di fame, oggi si è elevato il livello di vita, vendono il pesce a Bissau. Ho chiesto a padre Luigi: “Qual’è la maggior difficoltà che hai incontrato?”. Risponde: “Convincere gli anziani e i capi villaggio ad accettare le nuove forme di pesca comunitaria, barche, reti, cooperative, ecc. Per la mentalità tradizionale africana il futuro non sta nel cambiare e migliorare i sistemi di produzione e di vita, ma mantenere il villaggio così come l’hanno lasciato gli antenati, affinché i loro spiriti, tornando a visitarlo, si ritrovino, altrimenti si vendicano contro i loro discendenti. Ho dovuto procedere con i piedi di piombo. Mi sono fatto loro amico, imparando la lingua locale, partecipando ai loro riti, portando medicine. Quando si sono convinti che ero loro amico, allora è partita l’educazione dei giovani, che mi seguono con gran voglia di imparare”.

Il famoso proverbio cinese che dice: “Ad un affamato non dare un pesce, ma insegnagli a pescare” è più che giusto. Ma chi va, per anni, ad insegnare a produrre ed a pescare nell’Africa profonda delle campagne abbandonate dai propri governi?

Le prime industrie del Camerun sono cinesi

“Educazione” vuol dire cambiare la mentalità, la cultura che ancora prevale nell’Africa rurale, contraria ad ogni cambiamento della tradizione; e insegnare a lavorare nel mondo moderno, a produrre. A Vercelli produciamo 80 quintali di riso all’ettaro, nell’Africa rurale (escluse le fattorie moderne) solo 5-6 quintali all’ettaro. Le vacche lattifere italiane producono 25 litri di latte al giorno, in Africa non producono latte, eccetto uno o due litri al giorno quando hanno il vitello. In Tanzania, nel 1995, mi dicevano: “Se ogni anno non importassimo del Sud Africa il 30% che mais che consumiamo, il paese sarebbe alla fame”.

Secondo i No Global “il 20% degli uomini possiede l’80% delle ricchezze del mondo e l’80% degli uomini possiede il 20% delle ricchezze”. Non “possiedono”, ma “producono” le ricchezze! L’abisso tra ricchi e poveri del mondo è questo: la cultura, la capacità di produrre (non solo risorse minerarie e forestali!), di esportare, di entrare nel commercio del “mondo globalizzato”, che è “il treno per lo sviluppo”. Se non si sale sul treno,s rimane a terra. L’Africa nera (escluso il Sud Africa) partecipa a mala pena al 2% del commercio mondiale. Le capitali degli Stati africani hanno il “quartiere industriale”, con fabbriche moderne importate da paesi europei; mi dicono che circa la metà non producono, sono ferme e a volte saccheggiate, altre producono al 30-40-50% di quanto dovrebbero.

Il Camerun è uno dei migliori paesi dell’Africa, con stampa libera, partiti di opposizione ed elezioni passabilmente democratiche, un governo “paternalista” assicura l’aumento del Pil (circa 1.300 dollari all’anno pro capite): ebbene, questo paese importa ancora biciclette, lampadine, ventilatori, frigoriferi, moto, ecc. Padre Carlo Scapin, missionario del Pime da 40 anni in Camerun, mi dice che negli ultimi anni i cinesi portano dalla Cina i componenti per moto, biciclette e altri veicoli e li rimontano per i camerunesi. Sono le prime vere industrie, ma di proprietà cinese.

“Il problema dello sviluppo in Africa è educare l’uomo”

Nella mia seconda visita in Mozambico nel 1991 ho incontrato un cappuccino della Basilicata, padre Prosperino Gallipoli di Montescaglioso (Matera), che aveva fondato la “Uniào Geral das Cooperativas Agro-Pecuarias” (agricole e di allevamento animali) e ne rimaneva il maggior animatore. Un impero agro-industriale, di proprietà degli stessi agricoltori e allevatori, diretto da africani, che era il principale rifornitore di cibo alla capitale Maputo e altre città. Produceva riso, miglio, granoturco, polli, uova, conigli, anitre, maiali, latte, uova, frutta, verdura e altro. Ho visitato le strutture agro-industriali della “Ugac”, che comprende campi e allevamenti di animali, centri di formazione agricola, trasporti, rete di distribuzione e negozi di vendita, 35 asili per 2.500 bambini delle famiglie associate, dispensari medici, officine di riparazione attrezzi agricoli, parchi di macchine agricole, magazzini e celle frigorifere.

Mi raccontava le difficoltà degli inizi negli anni settanta, con al potere il Frelimo (Fronte di Liberazione del Mozambico), dipendente dall’Urss. Diceva: “L’africano lavora bene, deve solo essere istruito sulle tecniche di produzione e poi deve godere dei frutti del suo lavoro. Il Frelimo ha fallito con le sue “aldeias comunais” simili si kolkhoz sovietici. La gente era depressa, non lavorava. Ho preso in mano le comunità agricole attorno a Maputo e le ho riorganizzate in base a tre principi che sono martellati in testa a tutti quelli che si uniscono a noi: 1) Chi non lavora non mangia – 2) Chi lavora deve produrre di più – 3) Chi produce di più deve godere i frutti del suo lavoro. Ma questi principi, mi diceva, non sono accettati in un paese “socialista” e nel 1979 mi hanno espulso dopo 20 anni di Mozambico, perché riuscivo a far produrre di più con una gestione del lavoro diversa da quella massificante imposta dal partito unico. Pochi mesi dopo sono rientrato in Mozambico perché ho incontrato in Tanzania Joachim Chissano , allora Ministro degli Esteri. L’ho quasi aggredito dicendogli che erano stati ingiusti con me e che, se mi davano la possibilità, avrei dimostrato come si organizza il lavoro comunitario per far produrre di più”.

Chiedo a Prosperino come mai Chissano l’ha riammesso in Mozambico. Dice che nel 1979, quattro anni dopo l’indipendenza, “il socialismo era fallito e, in un paese che sotto i portoghesi, grandi agricoltori, esportava riso, con il socialismo era iniziata la tragedia della fame. Io ho detto subito: dalle mie cooperative il partito rimane fuori, la formazione dei contadini la faccio io. Con i miei collaboratori abbiamo insegnato l’orticultura, l’agricoltura, l’allevamento degli animali, le tecniche d’irrigazione, la falegnameria e tutto il resto. Poi ho educato alla libertà e alla dignità dell’uomo e della donna; poi corsi di contabilità, di programmazione. Soprattutto ho insegnato ai contadini ad essere responsabili, ad impegnarsi non solo nella produzione, ma anche nelle decisioni da prendere, distribuendo equamente il frutto del loro lavoro. Nelle cooperative di Stato, non solo non si dà lo stipendio in modo regolare, ma non si distribuisce nulla in più dello stipendio minimo. Io ho incominciato a distribuire il di più che avevamo prodotto suscitando entusiasmo, fedeltà, impegno.

“Il problema di fondo dello sviluppo in Africa è questo: gli africani sono persone di grande umanità, con grandi valori umani, ma non riescono ad esprimersi nel mondo moderno, non ne conoscono il linguaggio, i ritmi, la mentalità, la cultura. Questo in campo agricolo, ma anche in campo industriale, politico. Producono poco, se ricevono uno stipendio per un po’ di giorni non vengono più a lavorare perché hanno già da mangiare. Il problema di base per lo sviluppo in Africa è educare l’uomo”.

“Quando sono arrivato in Africa più di 30 anni fa – continua Prosperino – mi sono subito reso conto che il contadino è l’ultima categoria sociale, anche se è il fondamento della società africana, la classe più importante. Non solo il contadino, ma la donna contadina, l’unica che in Africa lavora per davvero. Mi son messo in testa fin dall’inizio di aiutare i contadini e le donne. E’ strano che noi preti , che in Italia siamo ritenuti antifemministi, qui, in Africa, siamo quelli che fanno di più per l’elevazione delle donne (con le nostre suore naturalmente). Il mio lavoro è stato quello dell’animatore rurale e l’ho sempre inteso come pre-evangelizzazione. Non si evangelizza uno schiavo, se non rendendolo libero, dandogli fiducia in se stesso. Il segreto del successo è stata l’educazione, sia tecnica che ai valori del Vangelo: dignità della persona umana, libertà, responsabilità, impegno, senso del bene comune”

Piero Gheddo

 

Padre Mario Vergara e Isidoro Ngei Ko Lat beati martiri della Chiesa in Myanmar

Il 9 dicembre 2013 Papa Francesco ha firmato il Decreto che approva il martirio dei servi di Dio Mario Vergara, sacerdote del Pontificio Istituto Missioni Estere, e Isidoro Ngei Ko Lat, laico e catechista, uccisi in odio alla fede a Shadaw in Birmania (oggi Myanmar) il 24 maggio 1950. Il Processo diocesano per la Causa di Beatificazione era stato iniziato nel 2003 da mons. Sotero Phamo, vescovo di Loikaw e figlio di un catechista di padre Vergara. La Chiesa birmana festeggia così il suo primo beato e il Pime il suo quinto missionario elevato alla gloria degli altari.

Padre Mario Vergara nasce a Frattamaggiore (diocesi di Aversa) il 16 novembre 1910. Nel 1929, dopo gli studi presso il seminario minore dei gesuiti a Posillipo, viene ammesso al seminario di Monza del Pime. Il 26 agosto 1934 è ordinato sacerdote dal cardinal Ildefonso Schuster e a fine settembre parte per la Birmania, allora colonia inglese. Al suo arrivo, p. Vergara viene accolto dal vescovo Sagrada, vicario apostolico di Toungoo, che nel 1936 gli affida del distretto di Citaciò, una vasta regione di montagna e foreste abitata dai cariani Sokù, una delle più popolazioni povere e primitive della Birmania. Padre Mario è uno dei primi missionari che annunziano Cristo a questa etnia. Visita i villaggi, fonda scuole elementari, costruisce cappelle e porta in missione i bambini orfani, ammalati, denutriti. Aiutato dalle Suore della Riparazione, allo scoppio della seconda guerra mondiale, aveva 82 piccoli nel suo orfanotrofio, accanto al quale un ospedaletto e un sanatorio, per i malati di tubercolosi, malattia allora comunissima.

La missione di Citaciò fiorisce anche attraverso l’opera dei catechisti, ma nel 1941 padre Vergara viene internato nel campo di prigionia inglese di Dehra Dum in India insieme ad altri missionari italiani, considerati “nemici” dagli inglesi. Dopo 4 anni segnati da gravi problemi di salute, nel corso dei quali subisce persino l’asportazione di un rene, viene rilasciato e parte in treno per Hyderabad in India, dove c’erano i confratelli del Pime. Nell’autunno del 1946 riesce a tornare in Birmania e viene inviato dal vescovo Lanfranconi a Pretholé sui monti dei cariani a 2000 metri di altezza, dove oggi c’è la diocesi di Loikaw (una delle sei fondate dal Pime in Birmania), per far rinascere la missione abbandonata durante la guerra mondiale.

Il 1° gennaio 1948, la Birmania diventa indipendente dall’Inghilterra e pochi mesi dopo scoppia la “guerra dei cariani” (1948-1953), la tribù maggioritaria, che chiedevano l’indipendenza dalla Birmania, dominata dai birmani, loro nemici storici prima della colonizzazione inglese. Il distretto di Pretholé è però lontano dalla guerra e Vergara continua nella sua missione, aiutato, dal settembre 1948, dal giovane missionario padre Pietro Galastri di Arezzo (1918-1950). In una delle sue prime lettere da Pretholé (1947) Vergara scriveva: “Abito in una capanna di bambù, posta su un cocuzzolo di monte. Vento e sole entrano liberamente, se piove ho il bagno a domicilio, proprio come i grandi signori… eh, quando uno nasce fortunato! Per mobilio due sedie e un tavolino che ho fatto col coltellaccio del mio catechista; per cibo un po’ di riso con erbe di bosco. A sinistra catene di monti digradanti fino alla pianura di Loikaw e popolatissimi: sono duecento i villaggi di cariani rossi e alcuni di shan. I protestanti vi giunsero vent’anni fa, capite?”.

Padre Mario, oltre a una grande fede, bel carattere e capacità di realizzare iniziative a favore dei cariani (in campo educativo e sanitario), godeva della fama di guaritore. Un bambino moribondo guarisce bevendo un sorso di vino da Messa, uno storpio che si trascina penosamente guarisce dopo alcuni massaggi del missionario alla gamba ammalata. Il martirio del padre Vergara e del catechista birmano Isidoro va inquadrato storicamente nel tempo della guerra dei cariani contro i birmani, disastrosa per i cariani e la Birmania, ma da essa inizia la conversione a Cristo di questa grande e forte tribù dei monti. I battisti erano fra i cariani da vent’anni prima dei missionari cattolici, cioè d’inizio del 1900 e avevano già compiuto un’ opera di pre-evangelizzazione, con scuole e primo annunzio di Cristo e un certo numero di fedeli, soprattutto avevano formato la élite cristiana della tribù.

Oggi, con l’ecumenismo vissuto in tutte le missioni, questo sarebbe impossibile, ma i primi missionari cattolici tra i cariani erano letteralmente perseguitati. Facile immaginare la reazione dei battisti verso i due preti cattolici di Pretholé “concorrenti” che attiravano molta gente. Padre Mario racconta: “Mentre sono in cerca di maestri, i protestanti si portano sul luogo a sparlare della nostra religione. La gente, disgustata, non prende più né me né loro. Soffro indicibilmente, solo la preghiera di chi mi vuol bene mi può sostenere”. I battisti spargevano calunnie infamanti e proibizione ai locali di prestare ai preti cattolici qualsiasi servizio, nemmeno di vendere terre o cibo. La missione cattolica comunque si afferma, per la testimonianza di sacrificio e di paziente sopportazione di missionari e suore e si distingue perché aiuta, cura e accoglie tutti i cariani anche quelli non cattolici; inoltre i due missionari difendono i loro fedeli dalla persecuzione autentica che alcune forze ribelli, di religione battista esercitano contro i loro fedeli. Quando scoppia la guerra dei cariani, gli stessi cristiani si dividono: i battisti proclamano e dirigono la “guerra d’indipendenza” del popolo cariano, i cattolici rifiutano la resistenza violenta al governo della Birmania riconosciuto dall’Onu, anche per un motivo molto pratico: impossibile uno stato separato dalla Birmania, quando i birmani sono il 59-60% degli abitanti e i cariani solo il 9-10%, sia pur concentrati in una regione abbastanza ristretta. Nel 1949 la guerra arriva anche nella regione di Pretholé. Ben presto la situazione precipita: il 24 maggio 1950 padre Mario Vergara viene arrestato insieme al maestro catechista Isidoro Ngei Ko Lat. I due vengono trucidati dai ribelli il giorno seguente e i loro corpi, chiusi in un sacco, vengono abbandonati alla corrente del fiume Salween. Anche p. Galastri, arrestato mentre è in preghiera, viene ucciso poco tempo dopo.

     In quale situazione avviene il martirio di padre Vergara e di Isidoro? Nel dicembre 1949 il capo missione padre Vergara è invitato a partecipare a un convegno dei guerriglieri con i capi-villaggio della regione. Va con alcuni suoi catechisti e, richiesto del suo parere, anzitutto protesta perché i guerriglieri hanno ucciso alcuni cristiani e un suo catechista e poi si mostra del tutto contrario all’arruolamento di altre reclute cariane anche perché la sconfitta era quasi certa: l’esercito nazionale era molto ben equipaggiato e la gente cariana avrebbe ancor più sofferto la fame e le prevedibili  ritorsioni.  Questo suo atteggiameno gli attira l’odio del capo politico dei ribelli, un certo Tiré, battista fanatico, già maldisposto verso il missionario per le conquiste che faceva alla religione cattolica.

Nel gennaio 1950 la cittadina di Loikaw cade in mano alle truppe governative e divide in due la missione di Vergara e Galastri. I missionari sono costretti ad attraversare le linee per andare a Loikaw, unico luogo di rifornimento; incominciano a circolare voci che i padri sono spie del governo. Tale accusa prende consistenza quando l’11 maggio 1950 i guerriglieri cariani tentano di riprendere la cittadina di Loikaw, ma sono sconfitti e si ritirano lasciando sul terreno molti morti. La sera del 24 maggio padre Vergara è invitato ad andare dal capo Tiré. Ci va col suo catechista Isidoro e incontra Richmond, capo dei ribelli a tutti noto per le sue violenze e crudeltà. Richmond accusa il missionario di essere una spia e di altri crimini mai commessi. Discutono in inglese, i presenti non capiscono cosa dicono, ma vedono padre Vergara e il suo catechista uscire dalla casa ammanettati e avviarsi verso la foresta vicina, dove, a 24 chilometri, scorre il fiume Salween.

Poi i ribelli vanno alla missione dove trovano il giovane padre Galastri in preghiera e gli ordinano di seguirli. I due missionari e il catechista Isidoro sono fucilati sulla riva del Salween e gettati nel fiume chiusi in sacchi. Padre Galastri è ucciso il giorno dopo, quando al mattino del 26 maggio dal vicino villaggio la gente sente gli spari della fucilazione. Nel commentare la morte violenta dei due missionari e del catechista, padre Pasquale Ziello scriveva che erano stati vittime di una persecuzione ispirata dall’odio verso la Chiesa e la loro carità e auspicava che la Chiesa potesse un giorno sanzionare la sua convinzione dichiarandoli “martiri della fede e dell’amore. E il beato padre Paolo Manna ha dichiarava: “Si deve ritenere che padre Vergara e p. Galastri siano stati uccisi e fatti scomparire proprio in odium fidei”.

La prossima beatificazione rappresenta una fonte di grande gioia anche per la Chiesa birmana, che in Isidoro Ngei vede il suo primo beato, dopo il beato padre Clemente Vismara (1897-1988), con 65 anni di vita in Birmania, beatificato nel 2011. Nel maggio del 2008, la Conferenza episcopale scrive una lettera a Benedetto XVI per “chiedere umilmente al Papa di autorizzare lo studio della causa”. La beatificazione di p. Vergara e del suo catechista, scrivevano i vescovi, “sarebbe un grande incoraggiamento per l’intera comunità cattolica del Myanmar a vivere una fede più in conformità con il Vangelo e a testimoniare in maniera coraggiosa ed eroica la propria fede, incoraggiati dall’esempio del catechista Isidoro che non ha esitato ad offrire la sua stessa vita per il Vangelo insieme a p. Vergara”.

Perché l’Africa nera non si sviluppa?

Il 29 novembre 2013 si è svolto in Vaticano il Simposio sullo sviluppo solidale e sostenibile dell’Africa, organizzato dalla Pontificia Accademia delle Scienze e dalla Fondazione Sorella Natura di Assisi. Nella sede della Pontificia Accademia, la Casina di Pio IV, un centinaio di partecipanti qualificati (su invito) hanno ascoltato (ore 9,30-17) le relazioni che verranno poi stampate dalla Fondazione Sorella Natura. Il prof. Roberto Leoni, presidente della Fondazione di Assisi, ha presentato i relatori e il card. Giovanni Battista Re ha aperto i lavori, rimarcando “il bisogno sia di pensiero che di azione a favore dello sviluppo del continente africano”. L’Arcivescovo di Kinshasa, Card. Laurent Mosengwo Pasinya Primate dell’Africa, ha tenuto la “lectio magistralis” al Simposio, elencando i mali dell’Africa nera e indicando “i bisogni essenziali degli africani: nutrizione, educazione, sanità, abitazione, libertà…dei quali gli africani debbono essere considerati non solo come beneficiari, ma come attori del cambiamento”. Ha poi specificato come la Chiesa, nella “Caritas in Veritate” di Benedetto XVI, orienta le soluzioni per uno sviluppo giusto, solidale e integrale.

Le altre relazioni, del Ministro per l’Integrazione del Governo italiano, On. Cecilia Kyenge, e del prof. Romano Prodi, Rappresentante dell’Onu per il Sahel, e di alcune altre personalità, verranno stampate dalla Fondazione Sorella Natura. Il titolo del mio intervento “Lo sviluppo dell’Africa viene dal Vangelo e dall’educazione” , brevissimo per mancanza di tempo, ma il testo era consegnato in stampa ai presenti (vedi nel sito www.gheddopiero.it). Sono stato invitato a parlare avendo fatto decine di visite e anche lunghe permanenze nel continente, per incontrare e intervistare i missionari specialmente italiani e le giovani Chiese.

E’ opinione comune dei missionari sul campo che c’è un abisso fra la vita dei popoli africani e le analisi di politici, economisti, studiosi e giornalisti occidentali. Questi vedono l’Africa dall’esterno e parlano delle cause esterne del mancato sviluppo: debito estero, commercio internazionale ingiusto, multinazionali che sfruttano le risorse africane, aumento o diminuzione dei prezzi dei prodotti agricoli africani, vendita di armi, governi locali sottomessi alle imposizioni dei paesi più forti, ecc. Invece, chi conosce la vita dei popoli africani, vivendo per 20-30 e più anni con la gente comune, parla delle cause interne, storico-culturali, religiose ed educative. Ho chiesto al padre Pietro Bianchi missionario della Consolata di Torino in Tanzania da trent’anni, quali sono le cause fondamentali del sottosviluppo africano. Risponde:

1) La religione animista, che tiene l’africano, anche istruito e modernizzato nel livello di vita, prigioniero di superstizioni venefiche, malocchio, tabù, timore di vendette, culto degli spiriti con violenze e crudeltà inaudite anche sull’uomo.

2) L’analfabetismo e la mancanza di scuole. In media gli analfabeti sono sul 40% degli africani e con gli “analfabeti di ritorno” si supera il 50%. In molti villaggi dell’Africa rurale le scuole in genere valgono poco, spesso con 60-80 alunni per classe, senza libri, quaderni, strumenti didattici. Lo stesso si può dire della sanità.

3) Il tribalismo e la corruzione ad ogni livello della vita pubblica, fino ai minimi livelli. Il potere politico (e ogni altro potere pubblico) sono in genere intesi come occasione per arricchirsi e aiutare la propria famiglia, il villaggio, l’etnia. Il concetto di bene pubblico si sta formando, ma è normale che sia così, per Stati che sono nati un secolo fa dalle divisioni politiche imposte dalla colonizzazione (l’Italia è nata 150 anni fa e ha lo stesso problema). Solo un esempio. Nel 2009 la Banca Mondiale denunziava che il debito estero della Nigeria era di 7 miliardi di dollari, ma i depositi bancari in Occidente dei privati nigeriani erano di 10 miliardi di dollari.

4) I militari sono la prima casta di potere, controllano la politica e l’economia, abusano della forza in tanti modi (anche facendo guerre tribali o territoriali), sono implicati in commerci illegali a favore di importatori stranieri, ecc.

L’Occidente non capisce come mai l’Africa nera, dopo mezzo secolo di indipendenza, non si sviluppa. Ecco perchè. Dopo la II guerra mondiale, dal 1947 al 1953 gli USA varano il Piano Marshall, mettendo a disposizione dei paesi dell’Europa occidentale distrutti dalla guerra 20 miliardi di dollari, restituiti con un interesse annuo dell’1%. Quei 20 miliardi hanno rimesso in piedi l’Europa occidentale, che ha avuto il suo boom economico. Il Pew Research Centre di Washington calcola che nei 50 anni dell’indipendenza africana (1960-2010) i doni, gli aiuti, i prestiti e i finanziamenti del “Piani di sviluppo” per l’Africa nera sono stati di 300 miliardi di dollari. Perché questo diverso rendimento? Perché i popoli europei, nonostante nazismo e fascismo, erano preparati da tutta la loro storia, educazione, cultura e religione, a far fruttare il denaro lavorando e fondando nuove industrie; i popoli africani, per la loro storia, cultura e religione tradizionale, semplicemente non erano stati preparati a questo dalla colonizzazione, durata però solo circa 60-70 anni, con due guerre mondiali in mezzo!

La radice del sottosviluppo africano è storico-educativa-culturale-religiosa, ma l’Occidente materialista non capisce l’Africa perchè ignora i fattori culturali, educativi, religiosi dei popoli, che danno all’uomo la sua identità, il senso di appartenenza, le motivazioni per vivere e agire. Data la brevità del mio discorso, ho precisato meglio le due prime cause, che i missionari ritengono fondamentali. Il 21 marzo 2009, in Angola Benedetto XVI ha detto ai vescovi angolani: “Tanti dei vostri concittadini vivono nella paura degli spiriti, dei poteri nefasti da cui si credono minacciati. Disorientati, arrivano al punto di condannare bambini di strada e anche i più anziani, perché – dicono – sono stregoni. Qualcuno obietta: «Perché non li lasciamo in pace? Essi hanno la loro verità e noi la nostra. Cerchiamo di convivere pacificamente, lasciando ognuno com’è, perché realizzi la propria autenticità”. Ma, continua il Papa, se noi siamo convinti e abbiamo fatto l’esperienza che senza Cristo la vita è incompleta, le manca una realtà – la realtà fondamentale – dobbiamo essere convinti anche del fatto che non facciamo ingiustizia a nessuno se gli presentiamo Cristo e gli diamo la possibilità di trovare, in questo modo, anche la sua vera autenticità, la gioia di avere trovato la vita. Anzi, è un obbligo nostro offrire a tutti questa possibilità di raggiungere la vita eterna”. I vescovi africani hanno ringraziato il Papa di aver toccato questo tema. Ho citato parecchi esempi. Eccone due.

In Costa d’Avorio, p. Giovanni De Franceschi del Pime si è affermato come studioso della tribù e della lingua dei Baoulé con diverse pubblicazioni su questa tribù maggioritaria nel paese. Ha imparato il baoulé, lingua non scritta, che richiede anni di impegno. In genere i missionari parlano il francese che è studiato e capito, almeno nei termini e concetti comuni, da buona parte degli africani, ma padre Giovanni mi dice: “Parlare e capire bene una lingua africana vuol dire penetrare nel loro mondo storico, tradizionale, religioso, conoscere i proverbi e le parabole, che sono la base della saggezza e della cultura popolare. Secondo la mia esperienza, la cosa più importante per il missionario è di sapere bene la lingua locale, che è l’anima di un popolo. Quante volte mi sono sentito dire: “Tu capisci bene quel che diciamo, la nostra mentalità, i nostri problemi. Ormai sei uno di noi”. Questo è il più bell’elogio che il missionario può attendersi dalla sua gente. Anche i pagani vengono ad ascoltarmi quando predico e parlano volentieri con me, mi invitano a bere il vino di palma, diventiamo amici, parliamo di tutti i loro problemi”.

Ebbene, padre Giovanni De Franceschi ha scritto[1]: “Noi cristiani non ci rendiamo conto di come la vita del pagano è una continua paura che gli vien messa dentro fin dall’infanzia: temono di aver fatto torto al feticcio, che il feticcio si vendichi per motivi misteriosi. Ho sentito parecchie volte delle persone adulte, colte, psicologicamente mature, dire: “Mi arriverà una disgrazia perchè ho trascurato il feticcio, ho offeso il feticcio”. Hanno la fermissima convinzione che la disgrazia gli capiti da un momento all’altro, ma non sanno cosa sarà. Può essere un incidente d’auto, un avvelenamento, un cadere dalle scale, un mal di pancia improvviso. Vivono male. Il terrore psicologico può distruggere una persona.

“Il dato di fondo – continua De Franceschi – è questo: il paganesimo non conosce Dio e il perdono di Dio. Non sanno che Dio è un Padre amorevole che ci vuole bene e ci perdona. Pensano Dio come lontano, misterioso, vendicativo. Per questo sentono l’influsso degli spiriti e del feticcio che vivono accanto a loro. Il cristianesimo è libertà, gioia, amore, fiducia nel Padre, liberazione da tutte le paure…. Il primo passo verso lo sviluppo è liberare l’uomo dalle paure antiche, rivelargli l’amore di Dio che lo rende libero e gioioso. Ecco perché sono convinto, per esperienza personale, che il maggior contributo che noi missionari portiamo allo sviluppo dell’Africa non sono gli aiuti economici o le scuole o gli ospedali (tutte cose indispensabili), ma la rivelazione dell’amore di Dio in Gesù Cristo per tutti gli uomini”.

Nel 2008 a Maroua in Camerun intervisto padre Giovanni Malvestìo del Pime, da otto anni rettore del seminario maggiore del Nord Camerun, che mi dice: “Ci vorrà ancora tempo perché la cultura cristiana superi quella pagana anche nei nostri seminaristi, giovani entusiasti della fede e pieni di buona volontà. Ho avuto qui in seminario dei seminaristi cristiani, figli di catechisti e di famiglie cristiane e altri seminaristi nati da famiglie musulmane o pagane e poi diventati cattolici. Il seminarista nato da una famiglia cristiana ha una serenità di spirito, è in pace con se stesso, col latte materno ha ricevuto la fede, l’amore a Dio e a Cristo, la fiducia nella Provvidenza; il seminarista che è stato battezzato a 15 anni ed è figlio di una famiglia pagana, la sua cultura è pagana, non puoi cambiarla in un attimo o in un anno”.

(Nel prossimo Blog spiegherò perché l’analfabetismo è causa del sottosviluppo africano).

Piero Gheddo