S. Giovanni XXIII e la missione alle genti

     Il 27 aprile 2014, fatto unico in duemila anni di storia, Papa Francesco ha proclamato Santi Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II. Idea geniale che esprime plasticamente quello che più unisce i due Vescovi di Roma così diversi tra loro: il Concilio Vaticano II (1962-1965), che il Papa bergamasco ha convocato e iniziato e il Papa polacco l’ha riportato con forza alla ribalta della Chiesa, in tempi di crisi della fede e della vita cristiana. Alla cerimonia era presente Benedetto XVI, mancavano i due Servi di Dio Pio XII e Paolo VI, speriamo vengano anch’essi beatificati assieme.

     Ho conosciuto bene e da vicino i due nuovi Santi, ambedue hanno promosso e rinnovato la “missione alle genti”, indicandola come fine primario della Chiesa: non hanno ceduto al pessimismo che portava i fedeli a chiudersi in difesa; anzi hanno lanciato la missione fino ai confini della terra come rimedio alla crisi della fede nel popolo cristiano. Li amo e li ricordo proprio in quest’ottica. Il Papa di Sotto il Monte donò la sua casa natale al Pime, oggi meta di tanti pellegrinaggi, per costruirvi accanto un seminario missionario e ne benedisse la prima pietra, il 3 marzo 1963 in Vaticano; un pesante macigno,  che avevo portato da Milano a Roma in una Topolino d’anteguerra da 70 km all’ora (l’Autostrada del Sole arrivava a Piacenza). Una cerimonia intima fra il Papa e una ventina di missionari. Giovanni XXIII parlava in bergamasco e diceva: “Se fate in fretta a costruire, vengo io a inaugurare il seminario”. E poi aggiungeva che ai suoi tempi nel seminario di Bergamo si leggevano le riviste missionarie e diversi chierici erano entrati nel Pime. “Io stesso – aggiungeva – ero innamorato delle missioni e ho chiesto al mio vescovo di poter entrare nel vostro istituto. Lui mi rispose di continuare gli studi teologici in seminario per essere ordinato sacerdote diocesano, poi potevo andare con i missionari. Però, quando mi ordinò sacerdote, mi nominò suo segretario particolare e ho seguito la santa obbedienza della volontà di Dio”.

     Negli anni venti, come direttore delle Pontificie Opere missionarie, mons. Roncalli aveva stretti rapporti col Beato Padre Paolo Manna, che definiva “il Cristoforo Colombo dell’animazione missionaria”. Il 3 marzo 1958, il Patriarca di Venezia card. Angelo Roncalli venne a Milano per portare al Pime le spoglie del nostro Fondatore (nel 1850), il Servo di Dio mons. Angelo Ramazzotti, suo predecessore a Venezia, oggi tumulate nella chiesa di San Francesco Saverio. Roncalli diceva che avendo studiato la vita dei Patriarchi veneziani: “Si è fatta profonda e schietta in me la convinzione che davvero a mons. Ramazzoti il titolo di Santo gli convenga e di Santo da Altare”. Ed esortava il Pime ad introdurre la sua Causa di beatificazione, cosa che, essendo il nostro un istituto non religioso ma di clero secolare fondato dalle diocesi lombarde, non aveva mai pensato di fare. In quei giorni del card. Roncalli a Milano c’è un episodio curioso. Era venuto a Milano il 2 marzo per mezzogiorno. Nel pomeriggio chiama me e padre Mauro Mezzadonna nel suo ufficio e ci dice: “Voi siete preti giovani e giornalisti, vi leggo il discorso che farò domani quando saranno presenti tutti i vescovi lombardi, ditemi cosa vi pare”. E ci legge il discorso, gli dico di scrivere frasi più brevi come si usa oggi. La sua semplicità era commovente. Il giorno dopo, prima di ripartire per Venezia, mi consegna una lettera al superiore, nella quale lodava la rivista del Pime “che leggevo da giovane e ancor oggi leggo con piacere”.

      Un segno di questa sua vicinanza al Pime è quando, nel settembre 1962, mi nominò uno dei “periti” del Concilio per il Decreto Ad Gentes e il direttore dell’Osservatore Romano, Raimondo Manzini, mi chiamò come redattore delle pagine dedicate al “Concilio”, col compito di seguire il tema missionario e intervistare i vescovi delle missioni. Ma prima del Concilio va ricordata l’enciclica “Princeps Pastorum” (28 novembre 1959), dedicata al clero e ai laici delle missioni. Le altre encicliche missionarie erano appelli dei Papi al mondo cattolico a favore del mondo non cristiano. Papa Giovanni, pur non tacendo questo aspetto,  rivolge la sua attenzione ai giovani cristiani, rendendoli protagonisti della missione alle genti nei loro paesi. Passaggio fondamentale, perché ha dato importanza massima ai catechisti, all’Azione cattolica e altre associazioni di formazione laicale.

     Nell’omelia dell’incoronazione a Pontefice romano ( 4 novembre 1958), Giovanni XXIII  affermava che la qualità più importante del Papa è lo zelo apostolico verso le pecorelle che non sono nell’ovile di Cristo. E aggiungeva: “Ecco il problema missionario in tutta la sua vastità e bellezza. Questa è la sollecitudine del Pontificato romano, la prima, anche se non la sola”. La convocazione del Concilio Ecumenico Vaticano II il 15 gennaio 1959, ha spalancato porte e finestre dell’ovile di Cristo sulla missione universale. I frutti dell’apostolato missionario erano ben visibili anche nelle lunghe  life dei vescovi nella Basilica Vaticana. I prelati  dalle “missioni” erano 800 su 2.500 e Giovanni XXIII proponeva al Concilio tre scopi:

1)    il rinnovamento interno della Chiesa (“aggiornamento”),

2)    la riunione di tutti i cristiani con iniziative ecumeniche,

3)    l’annunzio di Cristo al mondo non cristiano.

     Nel volume “Missione senza se e senza ma” (Emi 2013) spiego le difficoltà incontrate dall’Ad Gentes, riscritto sette volte, ma poi approvato quasi all’unanimità il 7 dicembre 1962: 5 voti contrari su 2.394. Il Concilio aveva decretato numerosi e provvidenziali passi in avanti per la “Missio ad gentes”, recependo le esperienze e tendenze che venivano dal Sud del mondo. Ecco un breve elenco che fa capire quanto il Vaticano II ha cambiato la Chiesa:

     1) Secondo la Lumen Gentium, la missione alle genti non è più un’appendice della Chiesa: come comando di Cristo è il compito primario dei credenti in Cristo. 

     2) La Nostra Aetate capovolge il giudizio sulle religioni non cristiane: non più nemiche di Cristo, ma preparazione a Cristo.

     3) Il Dignitatis Humanae sulla libertà religiosa: la missione è una proposta di libertà. Protagonista della missione è lo Spirito Santo, non spetta a noi “convertire le anime”, ma allo Spirito.

     4) La Sacrosantum  Concilium sulla Liturgia introduce l’uso delle lingue locali nella Messa e ammette altri riti e forme di preghiera, oltre a quelli latini.

      5) La Gaudium et Spes esalta la povertà e coinvolge la Chiesa per il rispetto dei diritti umani e la pace del mondo, collaborando con tutte le forze positive per l’uomo.

      6) Il Christus Dominus decreta la collegialità dei vescovi col Papa, non più monarca assoluto, ma centro della Chiesa, con strumenti di consultazione.    

      7) Il Decreto Inter mirifica (sui mezzi di comunicazione sociale), dove la Chiesa riconosceva in giornali, radio e Tv strumenti preziosi per trasmettere l’annunzio di Cristo. Prima era più comune condannare che apprezzare) e mi ha convinto della bontà di quanto mi chiedevano i superiori del Pime, quando chiedevo di partire per l’ India dove ero stato destinato: “La tua missione è questa”.

     8) E poi, naturalmente, il Decreto Ad Gentes, che presentava un’altra immagine delle missioni ai non cristiani: dal missionario fondatore e protagonista al missionario a servizio delle giovani Chiese e tanti altri aspetti. E la prima enciclica di Paolo VI “Ecclesiae Sanctae” (1964), che presentava la missione come un dlalogo (dare e ricevere) con i non cristiani e i non credenti.

     Il Concilio è stato, per noi giovani di quel tempo, una meravigliosa esperienza di fede e di missione universale, aveva suscitato grandi speranze in tutti i credenti, ma specialmente nel mondo missionario.  Il Papa di Sotto il Monte aveva detto: “Il Concilio sarà una nuova Pentecoste per la Chiesa”. Pareva quasi che il mondo intero fosse pronto a ricevere l’annunzio di Gesù Cristo  e mi veniva spesso in mente lo slogan col quale all’inizio del 1900 si era concluso il primo Congresso mondiale delle Chiese e società missionarie protestanti: “Convertire il mondo a Cristo entro il 2000”. A me la meta pareva plausibile, dato il volto trasparente e accogliente della Chiesa.

                                                                            Piero Gheddo

Isidoro Ngei Ko Lat, il primo Beato birmano – Mario Vergara, 19° martire del Pime

Il pomeriggio del sabato 24 maggio 2014, nella Cattedrale di Aversa (Caserta) verranno beatificati il padre Mario Vergara e il suo catechista Isidoro Ngei Ko Lat, martirizzati all’alba del 25 maggio 1950 a Shadaw nella Birmania orientale (Myanmar). Padre Vergara è il 19° missionario del Pime morto martire e il quinto  che la Chiesa eleva alla gloria degli altari. In un tempo di gravi difficoltà per l’Istituto missionario, per la forte diminuzione delle vocazioni sacerdotali e laicali, il Signore ci concede questo nuovo Beato, anche lui testimone della tradizione di santità e di dedizione totale alla missione fino ai confini della terra, che caratterizza la storia del Pime.

     La cerimonia della beatificazione sarà preceduta da un convegno storico il 15 maggio al pomeriggio a Frattamaggiore presso il cineteatro De Rosa; il 22 maggio sera veglia di preghiera a Frattaminore presso la Parrocchia di san Simeone, presieduta dal Superiore Generale del Pime, padre Ferruccio Brambillasca. Il sabato 24 maggio alle 17,30 nella Cattedrale di Aversa il card. Angelo Amato, prefetto della Congregazione dei Santi, presiederà la cerimonia della beatificazione di Mario Vergara e di Isidoro Ngei Ko Lat; il 25 maggio alle 18 Messa di ringraziamento nella basilica di San Sossio in Frattamaggiore, presieduta dal vescovo di Aversa mons. Angelo Spinillo. Infine, domenica 1 giugno nella casa del Pime a Ducenta (Caserta) si celebra il 69° congressino missionario; se qualcuno desidera ospitalità presso la comunità di Ducenta lo faccia sapere entro il 18 maggio.

 

Il catechista Isidoro Ngei Ko Lat è il primo birmano che è beatificato. Non sono molte le notizie riguardanti questo attivo collaboratore di padre Vergara, ma le lettere di padre Mario sono sufficienti per farci un’idea di quest’umile, ma splendida figura di apostolo laico: una vita donata, a servizio del Vangelo e dei fratelli, coronata dal martirio. Battezzato dal padre Domenico Pedrotti il 7 settembre 1918 a Taw Pon Athet dov’era nato, Isidoro appartiene a una famiglia di agricoltori, già convertita al cattolicesimo dal Beato padre Paolo Manna. Perde i genitori ancora adolescente e va a vivere con un fratellino presso una zia. Nel corso dell’Inchiesta diocesana nella Curia di Loikaw, una sua cugina, che viveva nello stesso villaggio, testimonia che sin da piccolo Isidoro frequentava i missionari e andava spesso con loro. Sorge così in lui il desiderio di diventare sacerdote ed entra nel seminario minore di Toungoo. Antichi compagni di seminario testimoniano sul suo zelo e la sua serietà. È un giovane semplice, onesto e umile. Rivela una squisita sensibilità religiosa e una spiccata attitudine allo studio.

     Ma a causa della salute cagionevole – soffre di asma bronchiale – è costretto a rientrare in famiglia. Non può realizzare il suo sogno di diventare sacerdote, ma rimane in lui un grande desiderio di fare qualcosa per il Signore. Così decide di non sposarsi. Non è ancora catechista, ma è sempre pronto ad aiutare il catechista del villaggio. Nel suo villaggio di Dorokhò apre una scuola privata gratuita, in cui insegna ai bambini il birmano e l’inglese, impartisce lezioni di catechismo, musica e canzoni sacre. È in buoni rapporti con la gente e tutti gli vogliono bene.

Il primo incontro con padre Vergara, che era sempre a caccia di catechisti, avviene a Leikthò. È il 1948. Isidoro accoglie subito con gioia l’invito a svolgere il servizio di catechista a Shadaw. Rimane al fianco del missionario frattese fino al momento del martirio. Isidoro era anche interprete di padre Galastri che ancora non conosceva bene la lingua locale. La popolazione di Shadaw era composta da contadini analfabeti, la cui maggioranza era stata evangelizzata dai battisti, ostili ai cattolici. Isidoro, pur muovendosi tra mille difficoltà, collabora attivamente con padre Vergara nell’opera di elevazione culturale, sociale e religiosa di quella gente.

Già prima del 24 maggio 1950 si era registrata, in diverse circostanze, un’azione intimidatoria contro i missionari cattolici da parte di una fazione fanatica di ribelli battisti. Erano bande armate che facevano capo sul piano militare al comandante Richmond e sul piano politico-religioso al capodistretto Tiré. Anche i catechisti, agendo in stretto contatto con i missionari Vergara e Galastri, diventano bersaglio dell’intolleranza della soldataglia ribelle. È proprio a causa di uno di questi catechisti, Giacomo Còlei,  è incarcerato e si determina la vicenda che porterà al martirio di Isidoro e Vergara. Ambedue infatti, temendo per la vita di Còlei, decidono coraggiosamente di rischiare andando a incontrare il capodistretto per indurlo a liberare il prigioniero. Ma era probabilmente una trappola architettata per sopprimere gli apostoli del Vangelo. Questi, infatti, non trovano Tiré, ma devono vedersela con il comandante Richmond, in combutta con il capodistretto e partecipe dell’odio contro i missionari. Il resto della vicenda lo racconto più avanti per il martirio di padre Vergara.

I vescovi della Chiesa del Myanmar hanno definito la beatificazione del padre Vergara e del suo catechista «un grande incoraggiamento per l’intera comunità cattolica del Myanmar a vivere una fede più in conformità con il Vangelo e a testimoniarla in maniera coraggiosa ed eroica, sull’esempio del catechista Isidoro che non ha esitato a offrire la sua stessa vita per il Vangelo insieme con padre Vergara».

      Padre Mario Vergara era nato a Frattamaggiore (Napoli), diocesi di Aversa, il 18 novembre 1910. Ordinato sacerdote nel Pime il 28 agosto 1934, a fine settembre parte per la Birmania, destinato alla diocesi di Toungoo (vedi il Blog del 15 dicembre 2013), Nel 1935 gli è affidato il distretto di Citaciò sulle montagne e foreste dei Sokù, una delle tribù cariane. Attraversa tempi durissimi fra l’altro una grande carestia causata dalla moltiplicazione abnorme dei topi. Durante la II guerra mondiale, nel 1941 padre Vergara è internato, con tutti i missionari italiani, nei campi di concentramento inglesi in India. Tornerà in Birmania solo nel 1946 fortemente indebolito nel fisico e rischia la vita dopo l’asportazione di un rene.

     Si offre generosamente al vescovo di Toungoo, mons. Alfredo Lanfranconi, per l’apertura di un nuovo distretto tra i Cariani rossi a est di Loikaw, verso il fiume Salween, con numerosi villaggi da evangelizzare. Privo di mezzi, osteggiato dai protestanti battisti, studia la lingua locale, si sobbarca a ogni genere di sacrifici, coprendo lunghe distanze a piedi, amando e curando tutti, cattolici, catecumeni, pagani. Dal 1948 è coadiuvato da un giovane confratello, padre Pietro Galastri, di Partina (Arezzo), che costruisce gli edifici utili alla missione: scuola, chiesa, orfanotrofio e dispensario. In seguito all’indipendenza dall’Inghilterra (1948), scoppiano disordini e la guerra civile tra i governativi e i ribelli cariani.

     La guerriglia era sostenuta dai protestanti battisti, presenti tra  cariani da prima dei cattolici e avevano formato l’élite della tribù. I cariani volevano l’indipendenza dal governo di Rangoon formato dai birmani, il popolo buddista maggioritario in Birmania. Padre Vergara condanna la guerra e prende la difesa del popolo oppresso da una guerra che portava distruzioni e morti, senza alcuna possibilità di ottenere l’indipendenza e il riconoscimento internazionale. Attira l’odio dei ribelli per i soi interventi di pacificazione.

     Il 24 maggio 1950 padre Vergara si reca al centro di Shadaw insieme al maestro catechista Isidoro per convincere il capodistretto Tire a liberare un altro catechista cattolico che era stato arrestato. Si trova invece di fronte il capo dei ribelli Richmond che, dopo di averlo sottoposto a un duro interrogatorio, ordina l’arresto del missionario e di Isidoro. Dopo un penoso tragitto notturno nella foresta, ambedue sono uccisi sulle rive del fiume Salween, all’alba del 25 maggio 1950, con fucilate udite dal villaggio vicino. I loro corpi, chiusi in sacchi, sono gettati nel fiume Salween e mai più ritrovati. Padre Pietro Galastri, catturato mentre pregava con gli orfanelli nella cappella della missione, dopo un giorno di sequestro è anche lui ucciso dai ribelli e gettato nel grande fiume. Anche padre Galastri, non meno generoso ed eroico del confratello, merita di essere essere beatificato.

                                                                              Piero Gheddo 

 

Siamo pieni di gioia nel Signore risorto

                                                                                        
     La Pasqua è la festa della gioia cristiana, perché Gesù è Risorto dai morti. La Risurrezione di Cristo è la garanzia della nostra immortalità. Essere cristiano vuol dire credere fermamente che Cristo è risorto. San Paolo dice: “Se Cristo non è risuscitato, la nostra predicazione è senza fondamento e la vostra fede è senza valore… e se noi abbiamo sperato in Cristo, siamo i più infelici degli uomini” (1 Cor 15, 14-19). E poi aggiunge: “Ma Cristo è veramente risorto, primizia della Risurrezione per quelli che sono morti”.
    Questo è l’augurio che ci facciamo a vicenda: la Pasqua del Signore ci porti la pace del cuore e in famiglia e la gioia di vivere. Noi che crediamo con gioia nella Risurrezione di Gesù non possiamo più essere uomini e donne tristi, scoraggiati, senza speranza. Il cristianesimo non è la religione della Croce, ma di Cristo morto e risorto. La Croce è un passaggio, la Risurrezione uno stato decisivo e definitivo, è la speranza  che anche noi risorgeremo. Anzi, siamo sicuri di questo fatto, che risorgeremo con Cristo alla vera vita, quella eterna in braccio a Dio.
 
      La realtà del mondo in cui viviamo sembra dire  il contrario: quante  sofferenze attorno a noi e in noi, nella mia stessa vita: quante ingiustizie, quante disgrazie, quante notizie negative ci bombardano ogni giorno. Come facciamo ad essere gioiosi, sereni, pieni di speranza e di coraggio? Che senso ha la nostra gioia, se non quello di una grande ingenuità che chiude gli occhi di fronte alla realtà della vita?
      Non è così, perché è vero che se guardiamo con i nostri il mondo in cui viviamo, e attraverso quello che  trasmettono giornali e televisione, siamo tentati di pessimismo e di tristezza. Però questa realtà drammatica e angosciante noi credenti in Cristo Risorto dobbiamo vederla con gli occhi di Dio, che è Padre buono e misericordioso, Dio che vuole bene a tutti, vuole bene a me, più di quanto io voglio bene a me stesso! Questo mi insegna la fede e questo cambia la mia vita e la mia percezione della realtà.
 
     Nella Pasqua 2013, la prima del suo pontificato, Papa Francesco ha detto : “La buona notizia” che Gesù è Risorto, per noi significa “che l’amore di Dio è più forte del male e della stessa morte; significa che l’amore di Dio può trasformare la nostra vita, far fiorire quelle zone di deserto che ci sono nel nostro cuore”.
     La gioia della Pasqua viene dalla fede. Gesù, risorgendo ha sconfitto il peccato, la morte e tutto quello che è la causa delle nostre tristezze: le nostre passioni e tutte le realtà negative che vengono dal peccato. Vivendo la nostra stessa vita, Gesù ha partecipato alla nostra debolezza umana, ha patito la fame e la sete, la stanchezza e la tristezza, ha conosciuto l’ingiustizia, le crudeltà spaventose della flagellazione e della crocifissione.  La Risurrezione rappresenta la liberazione da tutto questo, è l’inizio di una nuova vita vissuta in intimità con Dio. Vivere con fede la Risurrezione significa anche per noi iniziare una vita nuova, liberandoci da tutti i pesi spirituali, morali e psicologici, da tutti gli attacchi terreni che ostacolano il nostro cammino verso Dio, che è la somma felicità per l’uomo.
 
     Per la cultura moderna la vita è un cammino verso il benessere, il potere, il piacere e il divertimento; per noi cristiani è un cammino verso Dio, anche con sofferenze e rinunzie, ma verso Dio. San Paolo dice:  «Le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà essere rivelata in noi» (Rom 8,18). Non c’è proporzione tra quanto ci tocca soffrire e quanto attendiamo con fiducia nel Regno di Dio. Questo non significa che la fede risolve i nostri problemi materiali, ma che noi possiamo vedere le nostre difficoltà in modo diverso, appunto con gli occhi di Dio, la misericordia e la bontà di Dio, che ci vuole bene più di quanto noi vogliamo a noi stessi. Ecco perché i Santi erano sempre sereni e  pieni di gioia.

     Nel 1930, il Servo di Dio Giorgio La Pira, a 26 anni diventa incaricato di diritto romano all’Università di Firenze. In seguito partecipa al concorso per la cattedra universitaria, i risultati del quale, affissi nella bacheca dell’Università, lo dichiarano vincitore con i voti più alti di quelli degli altri partecipanti. Le autorità universitarie gli chiedono di prendere la tessera del PNF (il Partito Nazionale Fascista) e La Pira risponde che come cattolico non può prenderla. Così, la cattedra non è affidata a lui ma ad un altro. I suoi amici gli dicono di protestare e si dichiarano disposti a firmare con lui la lettera di protesta. La Pira risponde: “Vi ringrazio, ma è inutile. So che sono vittima di un’ingiustizia, ma cosa volete che sia questo quando so che Cristo è risorto?”. Ecco la vita vista non con occhi umani ma con gli occhi di Dio e questo esempio vale anche per tutti i milioni di martiri della fede che ancor oggi accettano di subire una morte ingiusta pur di non tradire la fede in Cristo Risorto.

                                                            Piero Gheddo

I 50 anni del “Gruppo Bangladesh” a Varallo 15 apr 2014

I missionari del Pime sono in Bengala (e in India) dal 1855, una delle missioni più difficili che la Santa Sede ci ha affidato e ancor oggi il Bangladesh, nato nel 1971 dal Pakistan, è una delle nazioni più povere dell’Asia e senza risorse naturali: 160 milioni di abitanti quasi tutti musulmani in un territorio meno di metà di quello italiano, con una minoranza indù, cristiana e buddista del 5%; il reddito medio pro-capite annuale è di 678 dollari (quello italiano 36.000). Il primo annunzio di Cristo è rivolto soprattutto alle minoranze tribali di religione animista (santal, oraon) e alle basse caste indù, con un discreto numero d conversioni a Cristo.

Mezzo secolo fa, quando si celebrava il Concilio Vaticano II (1962-1965), il popolo e la Chiesa italiani si erano appassionati alla “fame nel mondo”, i missionari erano spesso sulle prime pagine dei giornali e i “gemellaggi” all’ordine del giorno. Nel marzo 1964 nasceva al Pime “Mani Tese” e pochi mesi dopo don Ercole Scolari, assistente diocesano dei giovani di Azione cattolica di Novara, veniva a Milano proponendo un “gemellaggio” fra le diocesi di Novara e Dinajpur, che iniziava con la costruzione della “Novara Technical School” di Suihari, alla periferia di Dinajpur, oggi diretta da fratel Massimo Cattaneo del Pime, che è una delle opere più apprezzate della Chiesa cattolica per il popolo bengalese, non solo per le migliaia di giovani e ragazze che ha formato, ma per l’esempio concreto che ha proposto (era la prima scuola di questo genere) di come avviare i contadini alle professioni produttive industriali, con il seguito di opere che ha suscitato; fra le quali la Scuola tecnico-professionale di Rajshahi, gemella di quella di Dinajpur.

La domenica 6 aprile 2014 sono stato a Varallo Sesia (provincia di Vercelli e diocesi di Novara) per celebrare il 50° anniversario del “Novara Centre” e del “Gruppo Bangladesh”. Alla Messa solenne del mattino, con la chiesa strapiena e alla presenza delle autorità cittadine, il presidente dell’associazione Giorgio Brunetti ha presentato il volumetto sui “50 anni di solidarietà 1964-2014 Novara-Dinajpur” e il rapporto fraterno che si è creato tra il Bangladesh e Varallo, dove don Scolari è stato parroco per 32 anni (1966-1998) e dove è nato il “Gruppo Bangladesh”, che coinvolge con diverse iniziative i cittadini di Varallo e la diocesi di Novara.

Nell’omelia ho detto che oggi, nella crisi di fede e di vita cristiana che stiamo vivendo, le missioni ci vengono in aiuto e il primo dono è Francesco, il Papa missionario che viene “dall’altra parte del mondo” e sta riformando la Chiesa universale con spirito, metodi e contenuti in uso dove il primo annunzio di Cristo è ancora attuale. Il rapporto col Bangladesh è ottimo, ma deve mobilitarci tutti non solo per continuare ad aiutare le opere sociali-educative in Bangladesh, ma soprattutto per seguire con fede e amore Papa Francesco, che vuole riportare a Cristo ciascuno di noi, le nostre famiglia, la nostra società italiana. Il Papa propone a tutti la conversione del cuore a Dio e al prossimo, specie quello più povero e abbandonato. Solo così la crisi della nostra Italia di cui tutti soffriamo, che non è solo economica e politica, ma prima di tutto religiosa e morale, potrà essere superata. Allora, anche i rapporti e gli scambi con il mondo missionario saranno benefici per tutti.

Alla Messa è seguito il pranzo comunitario dalle Suore di Gesù eterno Sacerdote e al pomeriggio la tavola rotonda nel salone dell’oratorio, con vari interventi. Il parroco don Roberto Collarini e il sindaco Eraldo Botta hanno illustralo i valori educativi che il “Gruppo Bangladesh” ha avuto e ancora ha per la popolazione di Varallo, che si ritrova unita nelle varie iniziative e incontri e manda ogni anni una delegazione a visitare la missione del Pime in Bangladesh; però quest’anno, a gennaio, questa visita programmata è stata bloccata dallo stato di disordini e scontri anche a fuoco che ha dilaniato il paese, in occasione delle elezioni politiche. Si è poi ricordato don Ercole Scolari, fondatore del gemellaggio Novara Bangladesh e grande parroco di Varallo ancora ricordato, che ha fatto numerose visite al Bangladesh portandovi i suoi parrocchiani perché, diceva, che nulla è più educativo per la nostra vita umana e cristiana che il passare 10-15 giorni a contatto con tanti uomini e donne, bambini e giovani di una povertà e miseria commovente, che ci fanno riflettere sul nostro benessere; e una Chiesa nascente in cui tutti sono missionari perché apprezzano il dono della fede gratuitamente ricevuto da Dio.

La tavola rotonda è continuata sul tema “Non c’è pace senza giustizia”, con il mio intervento sul Bangladesh e l’India, suor Chiara Piana, missionaria varallese della Consolata che ha illustrato la situazione in vari paesi africani (Centro Africa, Sud Sudan, Somalia, Ruanda) e don Walter Fiocchi, diocesano di Alessandria, che ha parlato della Terrasanta e dei cristiani presenti nel Medio Oriente, con una puntuale descrizione delle ingiustizie di cui sono vittime.

Piero Gheddo

 

Matrimonio e famiglia nelle Trobriand 10 apr 2014

 

     In preparazione al Sinodo sulla famiglia (ottobre 2014 e 2015) è bene conoscere i costumi tradizionali dei popoli ai quali la Chiesa annunzia Gesù Cristo. Dopo Giappone, Africa nera e India, ecco la Papua Nuova Guinea, indipendente dall’Australia nel 1975, dove i missionari del Pime sono tornati nel 1981, nei luoghi del martirio del Beato Giovanni Mazzucconi nel 1855, invitati dal Nunzio apostolico, oggi cardinale Andrea di Montezemolo. Il Blog è ripreso da tre articoli pubblicati su “Venga il Tuo Regno” (Napoli, febbraio e maggio 1991 e febbraio 1994) da padre Giuseppe Filandia, missionario in PNG dal 1986 al 1997 e poi in Amazzonia brasiliana. Piero Gheddo

 

    L’arcipelago delle Trobriand è all’estremo sud-ovest della Papua Nuova Guinea, una trentina di isole con circa 30.000 abitanti, 28.000 dei quali nell’isola di Kiriwina, lunga 60 km. e larga 20. Gli etnologi (fra i quali i famosi Bronislaw Malinowsky e Margaret Mead) le hanno definite “le isole dell’amore”, perché l’assenza di ogni regola morale nel rapporto uomo-donna si è quasi istituzionalizzata. Gli stessi genitori e parenti si preoccupano perché ragazzi e ragazze possano avere rapporti normali secondo la tradizione. Nella loro cultura non esiste un’educazione che li prepari al vero significato della vita a due. Le pratiche sessuali sono un gioco che devono praticare fin dall’età di sette-otto anni. Spetta agli zii materni trovare la ragazzina (scherzando la chiamano “la futura sposa”) con cui il nipotino possa passare la notte insieme. I bambini di 5-6 anni vedono a cominciano ad imitare i fratelli e le sorelle maggiori. Così le storielle, i racconti del passato, i giochi, i canti, le danze, le feste (a cui partecipano piccoli e grandi) hanno questa dimensione. Ci sono ragazze che volte sentono la naturale ripugnanza ad essere oggetto di piacere per i loro fratelli o per il loro padre e si suicidano gettandosi giù dall’alto di una palma da cocco.

     Si può capire com’è difficile per il missionario fare discorsi sulla purezza, la castità, sulla preparazione ad un matrimonio cristiano. Ciò diventa ancor più difficile quando le nostre isole sono meta di turisti da paesi che si dicono cristiani, generando nel nostro popolo la convinzione che in tutto il mondo si fa così. Eppure qualcosa sta cambiando nella cultura locale, quando il missionario, fiducioso nella grazia di Dio  nella potenza del Vangelo, dona la sua vita perché a cominciare dalla famiglia il Regno di Dio arrivi anche in queste isole alla fine del mondo.

     Il matrimonio non avviene per attrazione sessuale, ma per interesse materiale: sposare una donna per l’uomo significa garantirsi una sicurezza economica…. Per la donna i motivi per contrarre matrimonio si riducono al bisogno concreto di avere accanto qualcuno, per sentirsi protetta, avere una casetta propria e un focolare da custodire…. L’educazione dei figli non esiste. Il padre ne lascia l’incarico ai cognati, secondo la tradizione, e questi, regolarmente, non se ne interessano. Per cui i bambini crescono senza principi morali, senza freni, si permettono di fare tutto quel che vogliono e non sono rimproverati né corretti, perché la loro tradizione è molto permissiva in ciò che noi consideriamo il male: come la vendetta, la prepotenza, il furto, l’inganno, la pigrizia e qualsiasi altra immoralità… L’uomo non coopera affatto alla nascita dei figli, sono degli spiriti speciali che danno i bambini alle donne, attraverso la loro testa! Quindi l’uomo non ha nessuna responsabilità e partecipazione nella procreazione. I mariti che stanno lontani dalle mogli per anni (in genere per lavoro) non si meravigliano se al loro ritorno trovano uno o due figli in più. Tanto, non è l’uomo ma sono gli spiriti che danno i bambini alle donne.   

     Accenno a queste miserie per ricordare ai lettori, se ce ne fosse bisogno, quanto meravigliosa è la nostra morale cattolica, che è sicura difesa della vita, della persona e salva amore e unità delle famiglie…. Fa pena vedere i nostri ragazzi e le nostre ragazze delle Trobriand, che seguono ciecamente certe tradizioni senza mai capire cosa sia il vero amore, il senso della vita, del “diventare due in una sola carne”. Qui la famiglia è per tradizione monogamica, avere più moglie è privilegio solo del re, dei capi e dei parenti stretti del re. I capi villaggio debbono accontentarsi di due mogli. Quando il re poligamo vuole una ragazza come moglie, nessuno vi si può opporre, pena la morte. La vendetta non avviene in pubblico, ma per vie segrete, avvelenamento, magie,ecc. Quando i giovani decidono di sposarsi, dovrebbero smettere ogni altro gioco sessuale con diversi partner e giurare fedeltà. In teoria è così, ma in pratica l’adulterio è molto comune, sembra accettato, a meno che ci sia una pubblica accusa, allora si deve fare un po’ di scena per salvare la faccia. Il colpevole paga le sue ventimila lire di multa e tutto finisce lì.

    In questo ambiente, noi portiamo avanti l’evangelizzazione, sono pochissimi coloro che possono ricevere il sacramento del matrimonio. Riteniamo che concederlo potrebbe essere un’imprudenza, data la mancanza di valori spirituali e morali ai riguardo. Quindi, dobbiamo accontentarci di un primo annunzio, anche questo difficile. Tentiamo di organizzare corsi di formazione familiare per tutti, ma pochissimi rispondono al nostro appello. Cinquant’anni di cattolicesimo sono ancora pochi per cambiare la cultura tradizionale. Noi seminiamo senza la soddisfazione di vederne il risultato. Voi che avete la gioia di vivere in una famiglia cristiana, abbiate un pensiero e una preghiera per questo nostro popolo della Papua Nuova Guinea. Cari amici lettori, questa è una cultura non cristiana, non nelle cartoline turistiche, nei romanzi e documentari televisivi, ma nella concretezza della vita quotidiana di un popolo che ancora non conosce il Vangelo. E il nostro popolo italiano, che ha ricevuto il Vangelo da duemila anni, quanto è lontano da queste miserie “pagane”?

                                                                          Giuseppe Filandia

 



Il matrimonio tra i paria in India

 

Due padri del Pime raccontano il matrimonio in India, secondo la loro esperienza, uno scriveva nel 2001, l’altro nel 1975. L’India è un continente con un miliardo e 100 milioni di abitanti, una federazione di 28 stati con loro parlamenti e leggi, ad esempio le “Personal Laws” sul matrimonio e le eredità nelle diverse comunità religiose. I due testi di questo Blog riguardano i paria dell’Andhra Pradesh, però danno un’idea di cos’è il matrimonio in un popolo non cristiano o da poco convertito al cristianesimo. Piero Gheddo

Padre Luigi Pezzoni (1931-2013) in una lettera da Nalgonda del 18-X-2001 (registrata n. 95) al gruppo missionario di Mornico (Bergamo):

Sono felice di scrivervi per ringraziarvi del grande aiuto che ci avete dato per il Progetto: “Figlie di Abramo”. Avete già salvato la vita a 10 ragazze che abbiamo “sostenuto” per pagare la dote del matrimonio. Secondo la Costituzione Indiana la dote è stata abolita … sulla carta ma non in pratica! Per cui questa crudele Tradizione del maschio che domanda una grossa cifra per sposare la ragazza propostagli dai genitori, continua ad infliggere alle ragazze una Tremenda CROCE. Ogni giorno, sui giornali appare la notizia che una giovane sposa si butta addosso il kerosene e si brucia viva, perchè il marito la perseguita e la maltratta perchè non ha pagato la dote promessa al matrimonio. Col vostro aiuto avete già salvato una decina di ragazze da questa tragica fine. Siate felici! Grande sarà la vostra ricompensa in Cielo. Un fraterno abbraccio e CONTINUATE ad aiutarci! Vostro padre Luigi

Luigi Pezzoni

Nel 1975 padre Augusto Colombo (1927-2009) scriveva da Warangal questo articolo per le riviste del Pime (registrato al n. 38):

È un fatto che il diavolo sa usare la sua coda avvelenata non solo in un modo, diciamo così, violento, ma anche in un modo altamente scientifico. E tutti sanno che il mezzo più scientifico per rompere i piatti quando si tratta di cristianesimo è il matrimonio. Per rendere l’idea ricorrerò all’esempio classico che capita qui dalle mie parti e che è abbastanza frequente. Due genitori hanno una bambina quindicenne. Arriva la stagione dei matrimoni e viene loro offerto un ottimo partito: un suo cugino secondo, di diciotto anni, con un po’ di terra al sole ed un paio di bufale legate davanti alla casa. Rifiutare sarebbe pazzesco.

Il matrimonio viene combinato dai capi dei due villaggi e quando tutto è preparato: dote della sposa, riso per il pranzo da darsi a tutti i membri della casta, vestiti nuovi, ecc. ecc. le parti interessate si presentano al Padre chiedendo di andare a benedire il matrimonio. Davanti agli impedimenti di età e consanguineità il Padre dapprima si rifiuta, poi consiglia una dilazione, ma dopo una mezz’ora di discussione, capisce che non c’é nulla da fare e che il matrimonio avverrà lo stesso, benedice validamente e lecitamente il matrimonio, sperando poi nella divina Provvidenza. La bambina, sposa felice, viene portata nella casa dello sposo. Qui però c’è la suocera che aspettava la nuora per avere un po’ di aiuto nei pesanti lavori di casa. Ma la nuora, come tutte le bambine, è abituata ancora a giocare da mattina a sera e quando vede che nella nuova casa deve lavorare, e lavorare sul serio, un bel mattino si alza, se ne va dalla propria mamma e comincia a raccontare una lunga storia di sevizie, battiture, digiuni, ecc. ecc.

La storia viene creduta fino all’ultima virgola e così quando lo sposo si presenta alla casa della sposa a reclamare la propria moglie, viene investito da una tale fiumana di improperi e di minacce che, per non rischiare di peggio fa immediatamente dietro front, e tornato al proprio villaggio comincia a raccontare come è sfuggito per miracolo da sicura morte, dopo avere rischiato il linciaggio per salvaguardare la sua fedeltà coniugale. La storia viene creduta fino all’ultima parola e così nasce un odio cordiale fra le due famiglie. Dopo un conveniente periodo di tempo, la sposa viene riportata dallo sposo, ma siccome la suocera non vuole rinunciare al privilegio di farsi aiutare nei lavori, dopo quindici giorni ecco una nuova fuga ecc.ecc. Lo sposo non osa presentarsi di nuovo alla casa della sposa, ed allora va dal Padre missionario e gli dice: “Quella sposa l’hai benedetta tu, ma essa non vuole venire, va’ tu e portamela”. Cosa fare?

Pro bono pacis il Padre va e con le buone o con le cattive fa riportare la ragazza dallo sposo; ma oramai le pentole sono in ebollizione e dopo quindici giorni o anche meno, la ragazza è di nuovo dalla propria mamma, lacrimante come una vitellina e decisa a non più ritornare nella casa dei suoi tormenti. Ed anche i genitori sono del suo parere, dal momento che hanno ricevuto l’offerta di un partito molto migliore, ed essi sono ancora pagani, avendo fatto battezzare la figlia a causa del matrimonio con il ragazzo che era cattolico. Di nuovo il Padre interviene con minacce, scongiuri, ecc.ecc. ma quando c’è di mezzo l’interesse, le parole trovano il tempo che trovano. Conclusione, la ragazza viene risposata ed il ragazzo, a diciotto anni resta vedovo, con una moglie vivente. Cosa fare?

Il ragazzo dice che egli non si era mai sognato di sposare quella ragazza ma che gli era sta data forzatamente dai genitori. E probabilmente è la verità. Quando è il ragazzo che si sposa e la ragazza a rimanere vedova, allora la ragazza afferma che non ha mai voluto sposarsi, e che solo la minaccia e le botte dei genitori l’hanno indotta a pronunciare il sì che però equivaleva ad un no: ed anche questo in molti casi è vero. Ma ormai quello che è stato è stato ed ora una vedova di quindici anni e un vedovo di diciannove vogliono risposarsi, e di fatto si risposano, perché nella loro mentalità è inconcepibile che un uomo possa vivere e morire senza lasciare in questo mondo una continuazione della propria esistenza; senza poi tenere conto anche di altri fattori non meno importanti.

Per la Chiesa il nuovo matrimonio è un concubinaggio ed i peccatori devono essere esclusi dai sacramenti, assieme ai genitori, complici volenti e necessari. Cosa ci può fare il missionario?….Piangere ed aspettare che la Provvidenza mandi la circostanza favorevole affinché la situazione possa essere regolarizzata. Ma anche questa gente è proprio del tutto condannabile? Quando io ho da fare con questi casi, immancabilmente mi viene in mente quella pagina del Vecchio Testamento, ove il Signore, dopo avere quasi distrutto l’umanità con il diluvio, si rattrista perché gli uomini e specialmente il suo popolo eletto non vuole fare giudizio e gli uomini corrono dietro alle donne proibite, ed allora, “propter duritiam cordis eorum” allarga un po’ le maglie, e concede qualche moglie extra.

Ora però siamo nel nuovo Testamento, e le cose devono essere fatte sul serio. Ed il missionario non può fare altro che pregare, gridare, minacciare, ricorrere, quando è consigliabile, anche a qualche altro mezzo più persuasivo per far entrare nella testa dura di tanta gente anche questa necessità di santificare il matrimonio cristiano. Ma non sempre egli riesce. E la ragione è evidente. Il matrimonio è la benedizione e la consacrazione dell’istinto di procreazione che Dio ha messo in ogni uomo. Un istinto che nella sua forza ed importanza viene subito dopo l’istinto della conservazione.

Il paganesimo spesso non è altro che il culto degli istinti naturali, ed in questo caso, specialmente in mezzo ai popoli primitivi, il culto della procreazione è quello tenuto più in auge, perché oltre che a perpetuare la vita di un individuo, serve anche a dare forza ed importanza alla tribù.

Di conseguenza il matrimonio, presso i popoli pagani, ha sempre un posto eminente, e le leggi e tradizioni che lo governano sono considerate tra le più essenziali nell’ordinamento della comunità. Quando una tribù od una casta si converte a Cristo ed entra nella Chiesa, tutto quanto vi è di superstizioso nelle tradizioni matrimoniali viene abolito e sostituito con qualcosa di cattolico; ma ciò che può essere lasciato viene lasciato, per non imporre inutili fardelli a povera gente che di fardelli ne deve già portare, vivendo nella estrema miseria. Solo si spera che il tempo ed una vita più civile possa far loro capire l’utilità di abolire certe tradizioni e seguirne altre; ma come si fa ad imporre con la forza ciò che noi non abbiamo il diritto di imporre?….

E così il missionario deve correre ad accalappiare mogli fuggite od a minacciar la collera divina a mariti impenitenti; e siccome quando si tratta: di una donna o di un uomo, anche questi argomenti perdono molto della loro forza persuasiva, il missionario deve rassegnarsi spesso a vedere anime, guadagnate alla religione con tanta fatica, ritornare sulla via sbagliata e vivere male, anche se non proprio ritornare al paganesimo. E questa è una croce pesante del missionario.

Augusto Colombo