La Pentecoste è una festa missionaria

Gesù aveva promesso agli Apostoli che avrebbe mandato lo Spirito Santo: “Non vi lascerò soli, vi manderò lo Spirito Santo…. Io sarò con voi tutti i giorni, fino alla fine dei tempi”. Infatti, pochi giorni dopo l’Ascensione al Cielo, mentre gli Apostoli erano nel Cenacolo con Maria “per paura dei giudei”, lo Spirito scende su di loro sotto forma di fiammelle di fuoco e li trasforma, li fortifica nella fede e dà loro il coraggio di annunziare che Cristo crocifisso, morto e risorto è il Figlio di Dio, il Messia atteso dal popolo ebraico, il Salvatore.

Non solo, ma quei poveri pescatori si sono divisi il mondo e sono usciti dalla Palestina per raggiungere tutti i popoli allora conosciuti. San Tommaso arriva in India. San Bartolomeo in Persia (Iran), San Filippo in Etiopia, San Paolo in Grecia e nella Roma imperiale e San Pietro lo segue. Lo Spirito Santo ha dato a tutti gli Apostoli la forza e il coraggio di andare in popoli diversi e tutti sono stati martirizzati come testimoni di Cristo. Questo il primo intervento dello Spirito, che nessuno poteva immaginare. Senza la forza di Dio, quei poveri pescatori, rifiutati dal loro mondo ebraico, come potevano suscitare comunità cristiane tra popoli  nuovi e dare a loro una continuità e una unità sotto un pescatore come loro?

Ancor oggi la Chiesa è missionaria, come negli Atti degli Apostoli, perché soprattutto in Asia. ma anche in Africa, molti popoli non hanno ancora ricevuto il primo annunzio del Vangelo. E là dove la Chiesa sta nascendo, lo Spirito di Dio infiamma i cuori e rinnova la Chiesa stessa. Ecco perché anche noi, cattolici italiani, dobbiamo avere uno spirito missionario, un interesse fattivo per le giovani Chiese e le missioni, e i missionari italiani. La Chiesa non è solo quella vaticana e italiana, ma è cattolica, cioè universale,  e là dove popoli nuovi entrano nell’ovile di Cristo, lo Spirito Santo compie le meraviglie che leggiamo negli Atti degli Apostoli, che danno speranza e rinnovano la Chiesa. San Giovanni Paolo II scrive  (Redemptoris Missio n. 21): “Lo Spirito è il protagonista di tutta la missione ecclesiale. La sua opera rifulge eminentemente nella missione alle genti”.

“Hanno una forza che viene dallo Spirito di Dio!”

Io sono devotissimo dello Spirito Santo, perché l’ho visto in azione in tante parti del mondo non cristiano, anche nelle isole più lontane, “agli estremi confini della Fede”. La sua fiamma mi ha emozionato ed è avvampata anche in me. Nel 2004 ho visitato la Malesia e il Borneo malese, i cui vescovi chiedevano al Pime di mandare missionari, poiché l’istituto milanese ha fondato la Chiesa in Borneo nel 1856-1862, con il prefetto apostolico spagnolo, mons. Carlos Cuarteron. Poi Propaganda Fide ci ha mandati ad Hong-Kong, dove c’era urgente bisogno di missionari e Cuarteron è rimasto da solo con pochi e precari sacerdoti spagnoli. Ma le piccole comunità cristiane sono sopravvissute fino al 1880, quando Propaganda Fide manda i missionari inglesi di Mill Hill.. Il piccolo cimitero cattolico nell’isola di Labuan, con le tombe dei primi fedeli, cippi antichi sbrecciati, sono importanti. Dimostrano che i missionari italiani sono giunti nel Borneo non sotto il colonialismo inglese, ma con i Sultani islamici, che li avevano accolti bene. Nel 2006, nel 150° della missione nel Borneo malese, si è realizzata, con l’aiuto del Pime, una grande Mostra storica sull’avvenimento e varie celebrazioni e pubblicazioni, Due nostri missionari hanno partecipato all’inaugurazione della Mostra a Labuan, dove nel 1856 erano arrivati i missionari milanesi.

Oggi (e parlo del 2004) il movimento di conversioni è sostenuto. Ma dopo l’espulsione dei missionari inglesi nel 1982, mancano preti, suore e mezzi economici. I nativi (dayak) che vogliono entrare nell’ovile di Cristo sono tanti. Questi tribali che escono dalle foreste ed entrano nel mondo moderno hanno due scelte: cristiani o musulmani. Quasi tutti scelgono l’ovile di Cristo, l’islam è troppo lontano dalla loro cultura. Ma 40 anni fa nel Borneo malaysiano c’era un sacerdote ogni 3,000 cattolici, oggi uno ogni 8.000.

In Borneo vi sono situazioni esemplari per capire il ruolo dei laici. La parrocchia dell’isola di Labuan, da dove si va in barca a Mompracem (ricordate Salgari e Sandokan?) non ha avuto un prete residente dal 1972 al 2001: 29 anni senza sacerdote! Così è nato un forte movimento laicale.  Oggi la parrocchia di Labuan ha un solo prete di 78 anni per 5.000 cattolici e 200 battesimi di adulti l’anno. Don Aloysius Tung alla domenica celebra cinque Messe, in inglese, malese e cinese. “I battezzati – dice – sono entusiasti della fede, si prestano volentieri per servire la Chiesa, accettano ministeri e collaborazioni. Dare parte del proprio denaro e del proprio tempo alla parrocchia è entrato nella vita cristiana come un impegno a cui non si può rinunciare”. I credenti appartengono a comunità ecclesiali di base (Basic Christian Communities), a molti gruppi e movimenti laicali: Legione di Maria, Divine Mercy, Movimento carismatico, Neo-catecumenali, Labuan Youth Movement, Catholic Women’s League. Tutto questo è segno di vitalità della fede e della parrocchia, rimasta per trent’anni senza prete.

Il 14 febbraio 2004 da Labuan è passata una grande Croce, che visita ogni settimana una parrocchia dello stato di Sabah, per preparare la festa dei giovani. Nell’interminabile processione dal campo di pallone parrocchiale alla chiesa, dietro alla Croce lo stendardo: “We want to see Jesus” (Noi vogliamo vedere Gesù), il motto esaltante della festa  di agosto a Keningau: tutto è sempre centrato su Gesù Cristo, il Salvatore. Il corteo avanza di 30 metri e poi si ferma. Cinque gruppi di otto ragazze di diverse tribù (dayak è un termine generale che le comprende tutte), con i costumi tradizionali, eseguono danze diverse davanti alla Croce, accompagnate da musiche e canti della tradizione locale. Poi vengono le insegne dei vari gruppi, associazioni e movimenti, la banda musicale e tutta la gente, fedeli e non fedeli credo, perché sono tanti. Infine la Messa, davvero eccezionale per le cerimonie, i canti, le danze, gli applausi, la gioia partecipata. Dopo Messa, nel salone della parrocchia e nel cortile cena per tutti, con altri discorsi, canti, danze. Impressiona anche il fatto che i partecipanti sono in grandissima maggioranza giovani e ragazze, di persone anziane se ne vedono poche!

Il vescovo di Kota Kinabalu, mons. John Lee, dice: “La mia è una bella diocesi, la maggioranza dei cattolici sono giovani dayak. Quando vado a visitare le parrocchie e vedo assemblee giovanili molto numerose e fervorose, schiere di giovani che cantano, ne ringrazio il Signore: Noi abbiamo la grande responsabilità di educare questi giovani. Ma come fai se non hai preti? Le vocazioni adesso vengono dai tribali, ma ci vuol tempo per formare un prete. Ci fidiamo dello Spirito Santo”. La diocesi di Kota Kinabalu ha 26 sacerdoti in attività pastorale per 220 mila fedeli e poco meno di quattromila battesimi all’anno, metà dei quali di adulti. Quello dei dayak che si convertono alla Chiesa cattolica (e alle Chiese protestanti) è un movimento massiccio, ma i parroci non sono in grado di accogliere e formare tutti i nativi che vogliono entrare nell’ovile di Cristo. Il vescovo di Kota Kinabalu mi dice: “Ci fidiamo dello Spirito Santo! Noi facciamo tutto quel che possiamo, la mia azione pastorale è tutta orientata ad istruire i cristiani ed i neofiti. Siamo severi nel dare il Battesimo, ma poi non possiamo fare di più e affidiamo questi neofiti allo Spirito Sato. La missione è sua, ci pensi Lui!”.

A Keningau (Sabah), il vescovo Cornelius Piong mi dice: “La mia diocesi è giovane, ha 12 preti per più di 90 mila cattolici e dieci seminaristi. Preti e suore sono troppo pochi. Affidiamo molti compiti ai laici, alle comunità ecclesiali di base e a movimenti. I catecumeni entrano nelle comunità e vengono preparati al battesimo con la catechesi e anche con impegni di servizio alla parrocchia. Qui nel Sabah i membri della Chiesa sono in grandissima maggioranza giovani e lo Spirito Santo dà loro un  entusiasmo per la fede che mi stupisce. Amano Gesù e Maria, amano la Chiesa, sono disposti a sacrificarsi per servire la comunità. Noi possiamo dare loro ben poco, hanno una forza che viene dall’alto, dallo Spirito di Dio!”

“A Kuching le suore di Clausura motore della missione fra i dayak”

Tutto questo nel Nord Borneo (Sabah). Nel Borneo del Sud ho visitato l’arcidiocesi di Kuching capitale dello stato di Sarawak, con 150.000 cattolici e 25 preti. Chiedo al vicario generale mons. William Sebang, cosa i cristiani del Borneo possono insegnare alle Chiese d’Europa. Risponde: “I nostri battezzati si organizzano e aiutano la parrocchia, lo sentono come un impegno primario di vita cristiana: riunioni di preghiera, catechesi, catecumenato, amministrazione, carità, costruzioni e riparazioni, liturgia, assistenza ai malati e agli anziani, animazione di bambini e giovani, attività culturali e missionarie, tutto è fatto da laici: portano la parola di Dio ovunque, parlano di Gesù Cristo e del Vangelo, invitano a venire alla chiesa. Ogni parrocchia ha centinaia di battesimi di adulti, per iniziative dei fedeli non del prete”.

Con un viaggio avventuroso (la bellezza e i colori della natura, l’incontro con animali selvatici che attraversano la strada), William Sebang mi porta nella parrocchia di Serian, nel profondo delle foreste di Sarawak, lontana dalla presenza islamica, che per il momento si ferma nelle città e lungo le coste. Serian ha ottomila battezzati e ogni anno circa 500 battesimi di adulti. La parrocchia, vastissima, ha tre preti e cinque suore. Chiedo al parroco, don James Meehan, come mai tante conversioni. La sua risposta è fulminante: “Noi parliamo di Gesù Cristo e quando incontrano Cristo capiscono la bellezza della religione cristiana e si convertono”. L’intervento dello Spirito Santo, protagonista della missione, è evidente e commovente.

Don John Chung, parroco di Bunan Gega (con un vice-parroco), altra parrocchia in foresta, ha 300 battesimi all’anno di adulti convertiti, con una cinquantina di cappelle da curare. Questa regione forestale dei dayak, visitandola, pare che sia tutta cattolica, quasi in ogni villaggio c’è una cappella, fatta con materiale locale. Il parroco mi dice: “I tribali scelgono il cristianesimo non l’islam e quando incontrano Cristo sperimentano che cambia la loro vita personale, familiare e di villaggio. Loro stessi diffondono il Vangelo”.

Chiedo a mons. William Sabang, vicario generale di Kuching e rettore del seminario, cosa insegnano i cattolici del Borneo a noi cristiani d’Italia. “Quando studiavo a Roma – dice – andavo da un sacerdote che aveva tre piccole parrocchie e si lamentava perché alla domenica doveva dire cinque Messe. Gli ho detto che a Kuching noi abbiamo preti che hanno ottomila-diecimila cattolici da assistere, dispersi in venti o trenta cappelle distanti l’una dall’altra e considerano normale dover celebrare quattro-cinque Messe o anche più. I nostri cristiani, essendo pochi i preti, fin dall’inizio si sono organizzati e provvedono a molte necessità delle loro comunità: riunioni di preghiera, catechesi, catecumenato, amministrazione, carità, costruzioni e riparazioni, ecc. S’è creata una tradizione e i cattolici sanno che debbono dare il loro tempo alla Chiesa. In Italia a volte mi stupivo di come i credenti si lamentano della parrocchia, ma fanno poco per evangelizzare, non prendono iniziative, aspettano tutto dal parroco o dal vescovo”.

A Kuching ho visitato il convento delle Carmelitane Scalze, con due anziane suore spagnole e 23 giovani suore e novizie malesi. Sono entrato nel convento, ho avuto una lunga conversazione con queste giovani donne e ammirato l’entusiasmo con cui parlano della loro vocazione. Mi hanno fatto molte domande sulle suore di Clausura in Italia e ho potuto rispondere raccontando che dal 1980 mando tutti i miei libri in omaggio (e anche altri del Pime) a circa 550 conventi di Clausura e ne visito diversi, proiettando le diapositive dei miei viaggi. Poi ho parlato con le due suore spagnole (la superiora è malese) e mi dicono che l’entusiasmo di quelle giovani suore è autentico: “Quando una giovane entra in convento si chiede sempre qual è l’origine della sua vocazione e ciascuna scrive una letterina con le sue intenzioni. Una ragazza entrata l’anno scorso ha scritto che nella sua famiglia, in parrocchia e nel movimento neo-catecumenale, ha imparato ad amare Gesù e vuole consacrare la sua vita a Lui. Poi ha sentito dire che le preghiere delle Carmelitane sono la benzina per il motore della missione diocesana fra i suoi fratelli e sorelle dayak”.

Mons. Sebang, al quale ho riferito questa conversazione mi dice: “Per la nostra diocesi, il  Convento delle Carmelitane è stato provvidenziale. Ci ha spinti ad andare sempre più nel profondo del nostro vasto territorio a portare il Vangelo di Gesù e abbiamo riscontrato una rispondenza inaspettata. Quanto ha scritto quella novizia è voce comune e ha dato ai nostri preti e ai fedeli una visione missionaria della pastorale parrocchiale”.

Nella “Nota pastorale“ della CEI (marzo 2007) dopo il IV Convegno ecclesiale nazionale di Verona, i vescovi italiani scrivevano: “Desideriamo che l’attività missionaria italiana si caratterizzi sempre più come comunione-scambio tra Chiese, attraverso la quale, mentre offriamo la ricchezza di una tradizione millenaria di vita cristiana, riceviamo l’entusiasmo con cui la fede è vissuta in altri continenti… Abbiamo molto da imparare alla scuola della missione. Chiediamo pertanto ai Centri missionari diocesani a far sì che la missionarietà pervada tutti gli ambiti della pastorale e della vita cristiana”.

Concludo con due citazioni dell’enciclica missionaria “Redemptoris Missio” di San Giovanni Paolo II (1990):

“E’ lo Spirito che spinge ad andare sempre oltre, non solo in senso geografico, ma anche al di là delle barriere etniche e religiose, per una missione veramente universale” (n. 25).

“Il nostro tempo, con l’umanità in movimento è in ricerca, esige un rinnovato impulso dell’attività missionaria della Chiesa. Gli orizzonti e le possibilità della missione si allargano, e noi cristiani siamo sollecitati al coraggio apostolico, fondato sulla fiducia nello Spirito. E’ Lui il protagonista della missione” (n. 30).

Maria a Fatima; “Per avere la pace, recitate il Rosario”

“Carissimi Pellegrini! – ha gridato Papa Francesco il 13 maggio scorso al milione di fedeli accorsi a Fatima – noi abbiamo in Cielo una Madre! Abbiamo una Madre! Aggrappati a Lei come dei figli, viviamo della speranza che poggia su Gesù, …. di essere un giorno con Lui e con Maia alla destra del Padre nel Regno di Dio.. Questa speranza sia la leva della vita di tutti noi! Una speranza che ci sostiene sempre, fino all’ultimo respiro…. Sotto la protezione di Maria, noi siamo nel mondo le sentinelle del mattino, che sanno contemplare il vero volto di Gesù Salvatore, quello che brilla a Pasqua, e riscoprire il volto giovane e bello della Chiesa, che risplende quando è missionaria, accogliente, libera, fedele, povera di mezzi e ricca di amore”

Ai tre pastorelli di Fatima, Lucia, e i santi Giacinta e Francesco, la Madre di Gesù e nostra, presentandosi come ‘la Madonna del Rosario’, raccomandò con insistenza di “recitare il Rosario tutti i giorni, per ottenere la fine della guerra e la pace”. Cento anni fa, quando Maria appariva ai tre bambini portoghesi, era il 1917. Infuriava “l’inutile strage” della prima Guerra Mondiale (come aveva predetto il Papa Benedetto XV); e in Russia il rivoluzionario comunista Vladimir Ilych Lenin aveva preso il potere con un colpo di stato e fondato la Repubblica Socialista Sovietica Russa, la radice da cui sono germogliate, nel “secolo breve”del 1900, una trentina di altre Repubbliche Socialiste, tutte fallimentari. Nessuna delle quali ha portato ai popoli la “liberazione” promessa.

Anche a Lourdes, a Pompei e in altre apparizioni, Maria la Vergine Madre nostra, ha raccomandato di recitare il Rosario. Ma a Fatima la sua insistenza su questa preghiera ha un qualcosa di straordinario. Dopo il 13 maggio 1917, di cui ho già detto, il 13 luglio incalza: «Voglio che recitiate il Rosario tutti i giorni». E il 13 agosto dello stesso anno: «Continuiate a recitare il Rosario tutti i giorni». Un mese dopo, il 13 settembre 1017, disse: «Per ottenere la fine della guerra, continuate a recitare il Rosario tutti i giorni». Il 13 ottobre, il giorno del grande miracolo del sole che roteava e si avvicinava alla terra, visto da più di 70.000 persone, anche a 20 Km di distanza, Maria tornò a dire: «Continuate sempre a recitare il Rosario ogni giorno, la guerra sta terminando…». Maria, Regina della Pace, ci chiede la recita quotidiana del Rosario, per avere il dono della Pace che viene da Dio. Per due motivi:

La Pace di Dio nelle famiglie, nelle nazioni, nel mondo

1) Il Rosario è la preghiera più semplice, più facile e più, diciamo, contemplativa, perché propone, uno ad uno, i misteri della vita di Cristo. E’ la preghiera che unisce grandi e piccoli, colti e incolti, ricchi e poveri, sani e ammalati. E’ la preghiera che unisce e tiene unite le famiglie. Una volta si diceva: “La famiglia che prega unita, rimane unita”.

Il più bel ricordo che ho dei miei genitori, i servi di Dio Rosetta Franzi e Giovanni Gheddo, e della mia famiglia, sono i Rosari che recitavamo alla sera, dopo cena, seduti attorno al tavolo di cucina; quando ci insegnavano a tenere le mani giunte e ad imparare le semplici preghiere mariane, ad andare sempre d’accordo, noi tre bambini e poi ragazzini. Come poi è avvenuto. Noi tre, Piero, Francesco (morto nel 1997) e Mario, ci siamo sempre voluti bene, non c’è mai stata alcuna lite o divisione o rancore! Oppure, nelle sere d’inverno (quando le case non erano riscaldate), si andava nella stalla più vicina a dire il Rosario con altre famiglie, cantare il Salve Regina e le litanie, seduti sulla paglia e riscaldati dalla presenza di mucche e buoi, cavalli e capre, vitelli, conigli, anitre, galline. Allora, negli anni trenta del 1900, in paesi come Tronzano Vercellese dove sono nato, non c’era né radio, né telefonini, né televisione, né tanto meno discoteche e vita notturna. Si pregava assieme e si creava, nelle famiglie, nei vicini, nel paese, una comunità di vita, di amicizia e di fede.

Oggi prevale l’individualismo, tutti ci lamentiamo che ci sono troppe famiglie divise, troppe liti e violenze familiari. Quando si sfascia la famiglia, la società va in crisi e si sfascia anche lei. Contro questa deriva che porta all’auto-distruzione della nostra Italia, si invocano aiuti economici dallo stato, leggi, provvedimenti di assistenza sociale, si consultano psicologi e avvocati matrimonialisti. Tutto giusto e saggio. Ma bisogna anzitutto fare qualcosa per unire gli spiriti, i cuori, le volontà, altrimenti tutto diventa inutile.

L’egoismo individuale non si vince con le leggi e gli aiuti economici, ma con l’amore, con la preghiera, perché solo l’aiuto di Dio in molti casi è efficace: Dio sa cosa c’è nel cuore dell’uomo e della donna. Dio solo lo sa e può cambiare il cuore dell’uomo e della donna, portandoli verso l’imitazione di Cristo. Ecco perché recitare il Rosario, che educa all’amore e all’unità, da recitare assieme, specialmente in questo mese di maggio.

Il tramonto del sole è l’ora del Rosario. La famiglia si riunisce per invocare la Santissima Vergine e Madre di Gesù e nostra, Maria. Tutte le attività si interrompono per elevare la mente e il cuore al Padre che sta nei Cieli, per presentare a Dio i propri bisogni, pregare per i defunti, chiedere il perdono dei peccati e il dono della Pace in famiglia e tra le famiglie. L‘atto di amore e le richieste di chi recita il Rosario arrivano in Cielo e sono presentate dalla Madre di Dio al suo Figlio Gesù Cristo. Recitiamo anche noi il Rosario, come chiede la Vergine e Madre Maria, per chiedere la Pace di Dio nelle famiglie, nelle nazioni e nel mondo intero.

Maria porta le anime e i cuori a Cristo

2) Secondo motivo per recitare il Rosario. Perché la nostra Mamma del Cielo porta le anime a Cristo, anche le persone che sono lontane da Gesù e dalla Chiesa. Ricordo che all’inizio anni novanta (del 1900), nel Consiglio pastorale diocesano di Milano (di cui ero membro) il card. Carlo Maria Martini lamentava la diminuzione della devozione a Maria e della recita del Rosario. Diceva: “Si è disprezzata la devozione popolare verso Maria, che in tanti secoli ha conservato la fede in Cristo delle nostre popolazioni cristiane. Si critica il Rosario come forma ,superstiziosa di “mariolatria” (cioè, adorazione di Maria). Ma si dimentica che la Madre di Dio porta le anime al Figlio suo, Cristo Gesù. Ritorniamo a recitare assieme il Rosario nelle famiglie, perché siano più unite e i giovani vengano educati, attraverso Maria, alla fede e all’amore di Cristo ”.

Visitando le giovani Chiese e le missioni in tutto il mondo non cristiano, ho visto tante volte che a Vergine Madre Maria è venerata e onorata da tutti e attraverso lei lo Spirito porta l’amore e la pace di Cristo. Nella Corea del Sud ho visto parecchie chiese cattoliche, che all’ingresso della chiesa mettono una grande statua della Madonna, che sorride e col braccio teso invita ad entrare nella casa di Dio; la Chiesa cattolica è chiamata dal popolo “la Chiesa della Madre”. Nel Borneo (dove nel 1856-1862 il Pime fondò la Chiesa), nel 2004 sono stato nel sultanato di Brunei, stato indipendente tutto islamico, esteso come la Liguria con mezzo milione di abitanti e 20.000 cattolici, filippini, bengalesi, indonesiani, immigrati per fare i lavori più pesanti. Il Vicario apostolico e Vescovo, mons. Cornelio Sim, mi diceva: “Il Sultanato è seduto sul petrolio e le famiglie del Sultano sono ricchissime… Nella capitale Bandar Seri Begawan la Chiesa cattolica è in un vastissimo terreno cintato, dove ci sono le scuole, l’ospedale e altre opere educative ed caritative. La nostra chiesa è vicina all’entrata principale e alla strada. Avevamo messo davanti alla porta della chiesa una grande statua di Maria, venerata anche dai musulmani, che invita a venire in chiesa. Venivano anche non pochi musulmani. Ci è stato imposto di girare la grande statua verso il muro della chiesa. Così oggi dalla strada si vede solo la grande statua girata al contrario!”.

Nel febbraio 1964 ero a Vijayawada, una delle 12 diocesi fondate dal Pime in India, che oggi ha circa 3,5 milioni di abitanti e 270.000 cattolici. Il missionario padre Paolo Arlati, nel 1924 portò dall’Italia una grande statua della Madonna di Lourdes e i Fratelli del Pime (missionari laici consacrati a vita) la posero sul punto più alto della collina di Gunadala, che domina la città di Vijayawada, costruendo le strade e la scalinata che portano fin sotto ai piedi di Maria, posta in una grotta aperta per cui si vede anche da lontano. A poco a poco, prima i cristiani e poi indù e musulmani, sono andati sulla collina di Gunadala a pregare Maria, che è venerata come la protettrice della città perché, nell’anno 1947, poco prima dell’indipendenza dell’India (15 agosto), le lotte sanguinose fra indù e musulmani insanguinavano l’India (circa 4-5 milioni di morti ammazzati) e portarono alla divisione fra India e Pakistan. Vijayawada, città con molti musulmani, venne salvata da quelle stragi fratricide dalla Madonna di Gunadala, alla quale tutti accorrevano in preghiera. I pellegrinaggi avevano creato un clima di fraternità.

L’11 febbraio 1964 si celebrava, come ogni anno, la festa della Madonna di Lourdes. Per tutta la giornata precedente e nel giorno della festa, nelle strade che portavano sulla collina un continuo sali e scendi di devoti che vogliono toccare i piedi della Madonna, pregano, offrono incenso, qualcuno si fa tagliare i capelli in quel giorno, adempiendo il voto che aveva fatto. Un mare di gente invade Gunadala, con lebbrosi, handicappati, ammalati portati su barelle o su carretti fino ai piedi di Maria. In due giorni, circa 150.000 devoti di Maria, non pochi dei quali col Rosario al collo, anche i non cristiani, perché il Rosario è il segno sacro della “Bella Signora di Gunadala” che protegge la città e le famiglie. Ancor oggi, più di mezzo secolo dopo, la statua di Maria è sulla collina e si ripetono anche durante l’anno i pellegrinaggi anche da lontano verso la Madonna di Lourdes. Le voci popolari parlano di guarigioni miracolose. Il primario dell’ospedale di Viajayawada mi diceva, nel 1964, di poter testimoniare la guarigione di almeno due lebbrosi e di altri malati. Ma il miracolo più grande è di aver portato indù e musulmani a vivere insieme in pace.

«Il Vangelo del dialogo» di Franco Cagnasso in Bangladesh

Al termine dell’ultimo Blog su “Il dialogo col mondo moderno da Paolo VI a Papa Francesco”, promettevo di pubblicare l’esperienza di un missionario sul campo. La novità assoluta del dialogo interreligioso, lanciata da Paolo VI con l’enciclica “Ecclesiam suam” (6 agosto 1964) e dal Concilio Vaticano II con il Decreto “Nostra Aetate” (28 ottobre 1965), ha capovolto l’atteggiamento che i missionari avevano delle religioni non cristiane: da nemiche di Cristo, oggi sono viste come una preparazione a Cristo, una ricchezza dei popoli che la Chiesa deve conoscere e accogliere con discernimento, per essere veramente “cattolica” e rappresentare tutti i popoli del mondo.

Padre Franco Cagnasso, esperto di islam che ha studiato l’arabo, è missionario in Bangladesh dal 1978 al 1983; e poi, dopo 18 anni alla guida del Pime (1983-1989 da vicario, 1989-2001 da superiore generale), è tornato alla sua missione nel 2002. Ha pubblicato “Il Vangelo del dialogo – A cura di Sergio Bocchini” (Centro editoriale Dehoniano, Bologna 2013, pagg. 194) un contributo interessante di esperienza personale in un paese islamico, ma avendo visitato decine di altri paesi con altre religioni.
Tra l’altro, in Bangladesh padre Franco è stato padre spirituale e insegnante di teologia nel seminario maggiore di tutte le diocesi bengalesi a Dacca e ha contatti di amicizia con musulmani, indù e buddisti locali, trovando anche il tempo, e gli aiuti economici, per “sporcarsi i sandali” aiutando i poveri senza idealizzarli o umiliarli.

Attualmente risiede a Mirpur, un vastissimo quartiere della periferia di Dhaka, dove aiuta il parroco P. Quirico Martinelli, PIME, a servire una comunità di cristiani
immigrati da ogni parte del paese in un contesto completamente islamico. Ha dato il via ad un Centro pastorale (futura parrocchia) a Uttara, nell’estrema periferia della metropoli, che conta 14-16 milioni di cittadini fra i quali anche molti giovani tribali convertiti a Cristo nei loro villaggi e che poi, nella grande capitale, rischiano di perdere la fede se non trovano una chiesa, un prete, una suora pronti ad accoglierli.

Il “Dialogo inter-religioso” orienta la missione primaria della Chiesa, annunziare Cristo ai non cristiani, in modo diverso dal passato: non solo annunzio, proclamazione della salvezza in Cristo, ma anche dialogo con tutti gli uomini ai quali la missione trasmette la Buona Notizia. In Asia, il Dialogo si è imposto nelle giovani Chiese, di fronte agli sterminati popoli che vivono la loro religione (buddismo, induismo e islam soprattutto) come identità nazionale e culturale. Ma diocesi e parrocchie praticano lo schema tradizionale della missione: annunziare Cristo, testimoniare Cristo, convertire a Cristo, fondare le comunità cristiane, in particolare fra le popolazioni aborigene di religione animista, che entrando nell’ovile cristiano acquistano una nuova identità e rappresentanza sociale. Il parroco-pastore conosce le sue “pecorelle”, si impegna ad aiutare i poveri, esercita la sua missione con tutti gli strumenti di cui dispone, catechesi, Sacramenti, lettura e meditazione della Parola di Dio, carità, formazione, ecc.

Padre Franco, rendendosi conto dell’abisso di incomprensione che esiste fra lui e i bengalesi, non solo per la lingua ma in ogni aspetto della vita, svolge anche un altro tipo di approccio, quello del dialogo: Parte dall’uomo bengalese, che è così diverso dall’italiano! Vuole conoscerlo anche nella sua fede islamica, amarlo, capirlo, condividere i suoi problemi e le sue difficoltà ed entrare in dialogo amichevole con lui, apprezzando i suoi valori umani e religiosi; non solo rimanendo ben f0ndato nella fede e nell’amore a Cristo Salvatore, ma trovando nella fede e nell’amore a Cristo le ragioni e lo spirito che porta ad aprirsi alle diverse esperienze umane e spirituali di fratelli e sorelle non cristiani.
L’approccio è diverso da quello tradizionale, però i due tipi di missione non sono alternativi ma complementari e ambedue necessari. Non è sempre facile viverli assieme, ma si arricchiscono a vicenda. La “Missione del Dialogo”, che Papa Francesco pratica soprattutto con i lontani del mondo moderno, a 50 anni dal Concilio è ancora in fase sperimentale. Dio solo lo sa, ma in Asia il futuro della missione si sta orientando verso il “Dialogo”. Lo Spirito Santo, “che è il protagonista di tutta la missione ecclesiale” (Redemptoris Missio, 21), non cessa mai di stupire e di inventare, formule nuove di missione e di pastorale, “dummodo Christus annuntietur” scrive San Paolo, “purché Cristo sia annunziato” (Fil. 1, 8).

Ringrazio l’amico padre Franco che ha accettato di raccontare, con sincerità e umiltà, la sua esperienza di “esperto del Dialogo”, i fallimenti e la pochezza dei risultati raggiunti. Il suo racconto è di grande saggezza umana ed evangelica, scritto “in punta di piedi”(con prudenza, discrezione), perché dimostra che il Dialogo con il diverso è indispensabile non solo nella “missione alle genti”, ma anche nel nostro occidente cristiano, dove non sappiamo più ascoltare chi la pensa diversamente da noi. P. Franco, fra l’altro, attira l’attenzione su un tema molto concreto che interessa tutti, affermando che l’alternativa al Dialogo con l’islam è il terrorismo, la guerra . Il Dialogo, dopo il Vaticano II era avversato o non compreso dalla maggioranza dei vescovi e dei missionari, oggi tutti benedicono questa forma profetica di missione alle genti. In Asia vivono il 62 per cento degli uomini e i cristiani, tutti assieme, sono circa il 6-7 per cento degli asiatici! Questo dato di fatto spiega perché Giovanni Paolo II, nella sua esortazione “Alzatevi andiamo!” ha detto: “L’Asia, ecco il nostro compito per il terzo millennio”.

Piero Gheddo

TEMPO PERSO A NAZARETH?

di Franco Cagnasso

Accolgo volentieri l’invito di padre Piero a scrivere qualcosa sulla mia “esperienza di dialogo con i membri di altre religioni”, in continuità con il mio libro “Il Vangelo del Dialogo” (EDB, Bologna, 2013), che ha come sottotitolo sottotitolo: “Riflessioni di un missionario a 50 anni dal Concilio”. Ecco come ho cercato di “dialogare” con membri di altre religioni, soprattutto musulmani.

Inizio con il mio primo tentativo. Ero giovane prete, arrivato da poco in Bangladesh (1978), e volevo scoprire se era possibile quel “dialogo” di cui tanto si parlava. Con altri due giovani missionari proponemmo al Vescovo di stabilirci a Bogra, importante città di circa cento mila abitanti, dove la presenza cristiana si riduceva a pochissime unità. Non avevamo un progetto preciso: volevamo “stare” e, giorno dopo giorno, vedere, stabilire relazioni di amicizia e rispetto, conoscenza e – appunto – dialogo. P. Gianni e p. Achille si orientarono sul servizio. Gianni frequentava aree povere facendo amicizia e offrendo nozioni di medicina preventiva, nutrizione, pronto soccorso; Achille aveva letteralmente “scovato” famiglie provate dalla presenza di membri con disabilità, creando una piccola rete di aiuto reciproco, e orientando su metodi semplici per far compiere qualche progresso ai disabili. Tutto ciò con persone di religione islamica, e qualche indù, ed era un’occasione per conoscersi, stimarsi, superare pregiudizi.

Io ero lo “specialista” del dialogo, e dovevo mettermi in contatto con centri religiosi: moschee e santuari. Ma non riuscii a combinare nulla, se non qualche incontro impacciato e formale, attraversato dal sospetto: che cosa vuole questo straniero che si dice interessato a conoscerci, e perché è venuto? Capii che il dialogo come “professione” non faceva per me, e che partire da ciò per cui sappiamo di essere diversi – la religione – non porta lontano.

Anni dopo, un missionario americano, P. Bob, parlando della sua esperienza mi disse drasticamente: “Incominciare discutendo su Dio, è da matti”. P. Bob, ormai ultra settantenne, ha lo scopo di realizzare un primo contatto fra un popolo musulmano e un cristiano – lui stesso. Ogni tre anni cambia sede, va in una località dove non ci sono cristiani, abita un locale povero e semplice, fa tutto da sé, va in bicicletta a trovare ammalati e spendere tempo con loro, in qualche caso li aiuta accompagnandoli in ospedale. Anche lui è accolto con sospetto (come potrebbe essere diversamente?), ma presto la curiosità prevale, e poi entra la simpatia, e anche la riconoscenza. Non da parte di tutti, ovviamente; ma quando si trasferisce può dire che qualcuno ora conosce un poco Gesù, perché per tre anni, ogni volta che gli chiedono: “Tu chi sei? Che cosa fai?” risponde: “Sono un missionario cristiano, e cerco di fare come il mio Profeta Gesù, che passò facendo del bene (cfr. Atti degli Apostoli)”. Lo accettano così, lo ammirano, qualcuno lo aiuta.

E’ poco? Pochissimo. Ma è qualcosa, una semina da fare con fede, lasciando perdere il pallottoliere per contare i risultati. Dopo il mio fallimento a Bogra, ho sempre operato all’interno della comunità cristiana, ma cercando di tenere aperti gli occhi e cogliere occasioni d’incontro con persone di altre religioni. Ricordo con simpatia un piccolo gruppo che frequentavo a Dhaka, formato da qualche prete e qualche imam, e da professionisti laici praticanti, musulmani e cristiani. Ogni due mesi condividevamo riflessioni su temi vari: il perdono, i poveri, la fede, la preghiera… Si percepiva un poco la religiosità nel quotidiano, il significato della fede per la vita di ciascuno. C’era desiderio di conoscersi, qualcuno esprimeva il bisogno di uscire dagli schemi mentali chiusi in cui era cresciuto. C’era anche chi sperava, alla fine, di riuscire a convertire gli altri alla propria religione; era considerato un desiderio legittimo, purché accompagnato dall’ascolto sincero e rispettoso dell’altro.
Guidato dall’esperienza e dall’entusiasmo di Fratel Guillaume, da tanti anni in Bangladesh con la comunità di Taizè, ho partecipato ad incontri più numerosi e vari fra cristiani e membri di altre religioni, nelle rispettive sedi: semplicemente primi contatti di reciproca conoscenza. Abbiamo incontrato buddisti, musulmani sufi, ahmadyia, indù di diverse correnti, ba’hai, sciiti, sunniti. La nostra proposta di incontro in qualche caso è stata rifiutata come inutile, in molti casi abbiamo gustato cordialità e persino affetto, in altri si è rotto il ghiaccio: ghiaccio appunto, ma con qualche crepa… Ci siamo anche trovati all’Università statale, facoltà di scienze religiose, da dove poi sono stati organizzati incontri fra gruppi di giovani e di donne, a trattare temi comuni.

L’esperienza più bella è spesso quella del rapporto personale, nato nelle circostanze più varie. Pochi giorni fa, nella condivisione al termine del ritiro annuale dei missionari del PIME in Bangladesh, uno di noi che ha sempre operato fra gli aborigeni, con la gioia di accompagnarne molti al battesimo, diceva che nella sua vita ha “sentito” la paternità come affetto, sostegno, accoglienza e dono non solo dal suo padre naturale, ma anche da due amici musulmani conosciuti in Bangladesh.

Il dialogo non è tanto, o non è solo qualcosa che si fa, ma un atteggiamento interiore, una “forma” della mente e del cuore, che ti fa stare accanto all’altro a partire dalla sua umanità. Ho sentito più volte musulmani affermare: siamo diversi, ma il nostro sangue è rosso, come il vostro. Ricordo con commozione un colloquio fra genitori, musulmani e indù, di bambini con gravi disabilità, i quali spiegavano che la scoperta della comune sofferenza dei e per i loro figli aveva creato fra loro una fraternità che altrimenti non avrebbero mai sperimentato. I musulmani poveri che ospitiamo nel nostro piccolissimo Centro di accoglienza per ammalati, si aprono ad un rapporto di fiducia, che scoprono possibile anche con noi cristiani, e spesso sono loro a mostrare più riconoscenza.

Il beato Charles de Foucauld, vissuto ben prima che si parlasse del dialogo, aveva un profondo desiderio di accompagnare i musulmani a incontrare Cristo, ma aveva intuito che a questo stadio l’incontro deve avvenire “a Nazareth”, quando ancora Gesù non aveva iniziato predicazione e opere, eppure viveva la sua ricchezza di Figlio dell’Uomo e Figlio di Dio – che emergerà poi nella breve stagione della “vita pubblica” – dentro la semplicità di rapporti quotidiani. Possibile che i trent’anni di Nazareth siano stati “tempi morti” perché Gesù ancora non predicava e annunciava?

Ho un amico buddista che, nell’ostello che dirige, ha messo un’immagine di Gesù e una statuetta della Madonna, dove i giovani portano doni e pregano, come fanno davanti al piccolo altare di Buddha. Lo ascolto quando mi parla dei suoi ritiri di meditazione in una pagoda, e lui s’illumina quando gli racconto storie del Vangelo. E’ dialogo questo? O annuncio? O tempo perso…?

Ecco, dico “tempo perso” perché qualcuno giustamente si chiede dove sono i risultati prodotti da questa posizione “dialogante”, e io non so rispondere. Ha scritto padre Gheddo nel suo Blog sul dialogo che, se vogliamo essere concreti, l’alternativa al dialogo è il conflitto. Nella storia si è tentato molte migliaia di volte di risolvere i problemi con la guerra, di far cambiare gli altri con la forza. Certo che io, “povero untorello”, non cambio il corso della storia né risolvo il problema del terrorismo. Che è un problema grave proprio perché il terrorista rifiuta ogni dialogo e vede nell’altro solo il nemico. Erano così i “brigatisti rossi” italiani, sono così i terroristi odierni di matrice islamica.

Qualcuno chiede con rabbia: “Dove sono i musulmani “moderati”? perché non si fanno sentire?” Domanda legittima, ma la vigorosa e numerosa opposizione al terrorismo esiste, e consiste nella reazione e resistenza presente nella vita civile di quel grande magma che è il mondo islamico. L’informazione che l’occidente ci dà, narra di fatti orribili, ma raramente s’accorge di ciò che con fatica avviene nel quotidiano di questo mondo. Qui in Bangladesh, fondamentalismo e terrorismo sembrano purtroppo in fase di crescita. Chi cerca di contrastarli? I cristiani? Gli occidentali? Sono musulmani quelli che subiscono e fronteggiano, finora con efficacia, questa minaccia che nasce da una mentalità e da una visione religiosa che ritengono aberrante, e che temono. Certo, argomentando contro il terrorismo, non mancano di sottolineare fatti e atteggiamenti che forniscono ad esso dei pretesti, molti dei quali sono responsabilità dell’occidente. A noi questo dà fastidio, ma hanno sempre torto? O non sarebbe meglio ascoltarli con attenzione?

Ecco, ascoltarsi! L’anno scorso, in Italia, ho assistito a qualche dibattito televisivo. In pochi minuti ero preso dall’angoscia. Quale che fosse il tema, tutti urlavano le loro certezze, nessuno voleva ascoltare; non si capiva assolutamente nulla, mentre crescevano rabbia e ostilità. A noi piace ascoltare chi dice cose che riteniamo giuste. Mi sembra normale. Ma se ci mettiamo in ascolto anche di chi la pensa diversamente, spesso scopriamo che pure l’altro ha le sue ragioni; possiamo accettarle oppure no, ma, conoscendole, potremo almeno tenerne conto.

La nostra fede non va nascosta, anzi deve essere evidente dalla nostra vita, azioni, parole; non deve essere semplicemente urlata senza tener conto dell’altro. S. Pietro ha scritto: “Non sgomentatevi per paura di loro, e non turbatevi, ma adorate il Signore Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi. Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e rispetto, con una retta coscienza…” (I Pt 4,15-16a) Ecco, potrei ridurre a questo la mia modestissima esperienza: cercare di vivere il Vangelo con speranza e amore, e di entrare in rapporto – se possibile – con tutti, senza lasciarmi dominare dalla paura; con umiltà, rispetto e onestà.

P. Franco Cagnasso, Dhaka