Nell’inverno 2007 sono stato in Libia e ho potuto visitare la città di Sebha (900 km. a sud di Tripoli, 80.000 abitanti), dove, ospite di don Vanni Bressan, medico e sacerdote cattolico fondatore dell’unica chiesa nel deserto del Sahara libico, ho potuto vedere gli africani che arrivano dopo due-tre mila chilometri di deserto (uno o due su dieci muoiono nel viaggio). La Libia li accoglie anche perché ha bisogno del loro lavoro. In città e nelle campagne fanno di tutto, contadini, baristi, spazzini, falegnami, cuochi. Rimangono nel deserto per alcuni anni, fin che hanno abbastanza denaro per pagarsi il viaggio verso il nord e la traversata del Mare Mediterraneo. Ho parlato (in inglese e francese) a questi neri, tutti molto giovani spesso con moglie e bambino (non pochi sono cristiani, cattolici e protestanti), che fuggono la fame, le dittature, le guerre e tutti le tragedie che tormentano i paesi dell’Africa nera. Ho anche scritto (su “Mondo e Missione”, “Avvenire” e “Il Timone”) di questi disperati che spesso, per fuggire dalle situazioni del loro paese “verrebbero anche a nuoto in Italia o in Europa”. In Libia, nella città del deserto, non sono trattati male, anzi sono anche contenti perché hanno un lavoro e possono guadagnare. Li assiste padre Bressan, che oltre ad essere l’unico sacerdote, è anche medico nel locale ospedale governativo dall’inizio anni novanta.
Conosco quindi la situazione da cui vengono questi poverissimi fratelli e sorelle africani. Per cui, il respingimento dei barconi di immigrati verso la Libia mi ha ferito. Non ne ho ancora scritto perchè capisco benissimo le ragioni del nostro governo, che non può portare da solo il peso di questa continua emergenza. Ma leggo che il vescovo di Tripoli, mons. Giovanni Martinelli (che mi aveva invitato in Libia), ha inviato al sito missionline.org, attraverso un suo portavoce, questa sua riflessione:
Come è possibile rigettare sui libici un problema così vasto? Noi possiamo capire che l’Europa si difende da questa “invasione”, ma non si potrebbero trovare altri mezzi per farlo? Quanto a noi, è l’aspetto umanitario che conta per primo: povera gente che cerca di fuggire dalla povertà, dall’ingiustizia, da una condizione di miseria insopportabile… Come discernere tra questa gente allo sbando chi sarebbe da considerare “rifugiato politico”? E come si possono rifiutare gli altri? Sarebbe una buona cosa se l’Italia potesse impegnarsi e riflettere per giungere a trovare soluzioni giuste e rispettose delle situazioni concrete. Queste persone che sono ricacciate verso la Libia, come potranno vivere in un Paese come questo, che non ha i mezzi concreti per discernere, e che dovrà per forza lasciarle in condizioni inumane?
La nostra Chiesa è continuamente confrontata a una grave questione umanitaria, questo in modo particolare ogni venerdi: infatti il venerdi è una folla di povera gente che si riversa in chiesa e che domanda aiuto. Da parte nostra, facciamo del nostro meglio per accogliere tutti: il servizio sociale cerca di offrire loro cibo, indumenti e quanto serve per l’igiene…. Una semplice clinica gestita grazie a un gruppo di volontari funziona ogni venerdi; questi offrono quache servizio sanitario e accompagnano a volte delle persone gravemente malate in ospedale, spesso donne incinte. Capita anche di aiutare qualcuno a morire! Visitamo dei centri di raccolta per clandestini o delle prigioni: qualche piccolo aiuto possiamo offrirlo, ma la soluzione bisognerebbe cercarla più lontano, alla radice del male…
Ci domandiamo: come è possibile rigettare sui libici un problema così vasto? Non si potrebbe piuttosto aiutare i libici a studiarlo, analizzarlo, a discernere?
Condivido pienamente quanto scrive mons. Martinelli. Mi spaventa specie perché è riuscito a rimanere in Libia per quasi cinquant’anni usando sempre una grande prudenza. Eppure oggi parla di “condizioni disumane” in cui questi profughi sono lasciati!
Parole che pesano come pietre, conoscendo l’uomo e la situazione di precaria libertà religiosa in cui vive.
Piero Gheddo