Famiglia e immigrazione risorse per il futuro

Continuo a sintetizzare la seconda parte dell’articolo di padre Giampaolo Salvini in La Civiltà Cattolica (Quaderno n. 3807 del 7 febbraio 2009) sul problema demografico dell’Italia. Prima parte: “Un tema tabù: noi italiani siamo troppo vecchi” (vedi il Blog del 24 agosto 2009).

L’immigrazione è un fattore che attenua il progressivo invecchiamento della popolazione italiana, sia perché gli immigrati sono più giovani, sia perché più fertili degli italiani. Ma in genere, gli immigrati di seconda generazione tendono a comportarsi come gli abitanti del paese che li ospita e quindi ad avere meno figli. Attualmente entrano in Italia tra 350.000 e 400.000 stranieri all’anno, cifre che nessuna statistica aveva previsto neppure cinque o sei anni fa. Ma, secondo i calcoli dell’Istat, l’afflusso attualmente previsto di stranieri non è sufficiente a compensare il declino della quota di popolazione in età di lavoro, dovuto sia al calo delle nascite sia all’aumento della longevità. «Per stabilizzare il rapporto tra la popolazione con 65 e più anni e quella 14-64 anni, sarebbe necessario un flusso medio annuo di ingressi superiore al milione di persone». Naturalmente questi calcoli fatti con grande accuratezza, ma a tavolino, non tengono conto di altri dati di fatto, come, ad esempio, la presenza massiccia di irregolari o clandestini, che sinora nessun Governo è riuscito a controllare efficacemente, ma che ci sono e creano ricchezza, oltre che una serie di problemi, cominciando da quelli statistici, non del tutto affidabili.

Oggi l’Italia registra una presenza di stranieri minore di quella degli altri paesi europei. Secondo i dati dell’Eurostat, nel 2005 la quota di residenti con più di 16 anni nati in un Paese diverso da quello di residenza era del 14% in Germania, del 12% in Francia, dell’11% nel Regno Unito e del 6% in Italia. L’Italia però riesce ad attirare e ad utilizzare meno forza lavoro di stranieri (ma anche di italiani!) con livelli superiori di istruzione. Nel 2005 soltanto un decimo degli stranieri con almeno 25 anni residenti in Italia aveva un titolo di studio universitario, contro una media europea del 30%. In Germania e nel Regno Unito la quota sale a circa il 40% degli immigrati. Per i più istruiti quindi il nostro paese è meno attraente.

Se ora si considerano non solo i lavoratori stranieri che arrivano in Italia già formati, ma anche quelli che si formano o si formeranno nel nostro Paese, il problema si sposta sulla capacità formativa del nostro sistema di istruzione. Secondo il Ministero della Pubblica Istruzione, gli alunni con cittadinanza non italiana sono passati tra l’anno scolastico 1997-98 e quello 2006-07 da 70.000 a oltre 500.000, e costituiscono ora circa il 6% della popolazione scolastica italiana. Gli alunni stranieri promossi sono però meno di quelli italiani, con un divario che nella scuola superiore giunge al 14%. I ragazzi con almeno un genitore straniero che abbandonano la scuola in Italia tra i 15 e i 17 anni sono circa il 12%, mentre i figli di italiani della stessa età che abbandonano sono il 6,9%, cioè circa la metà. Le ricerche poi mostrano che anche quelli che rimangono a scuola acquisiscono un livello sensibilmente inferiore di conoscenze rispetto ai figli di italiani.

Se quindi la qualità e la quantità di «materiale» umano immigrato di cui il nostro Paese è dotato sono basse, il rischio è che le seconde generazioni di lavoratori di origine straniera occupati in Italia acquisiscano un livello di formazione minore di quello necessario per sostituire gli italiani che mancheranno, abbassando il livello generale. Si tratta di dinamiche delicate, ma reali, non facili da affrontare, e che pongono gravi problemi non soltanto dal lato demografico, ma anche da quello culturale, religioso ed economico, poiché un declino demografico consistente farà sì che l’Unione Europea, già definita un gigante economico e un nano politico, perderà anche i suoi primati economici riducendosi, secondo i più pessimisti, a un museo, visto che il turismo è già uno dei settori più floridi dell’Europa.

Basta pensare alla Germania, il paese più popoloso dell’Europa dopo la sua riunificazione (1990), dove nel 2007 si è toccato il livello più basso di nascite dal 1945: 680.000, cioè meno delle 700.000 registrate nell’ultimo anno della seconda guerra mondiale, quando quasi tutti gli uomini erano impegnati al fronte e il futuro era drammaticamente incerto. Il terzo e ultimo Blog su questo tema fra tre giorni.

Piero Gheddo

Gheddafi ospite in Italia fra le polemiche

Dal 10 giugno il leader libico Muhammar al-Gheddafi è ospite del governo italiano, ricevuto con tutti gli onori dovuti ad un capo di stato di un paese amico dell’Italia. Le forze politiche e l’opinione pubblica sono divisi. Chi esprime un giudizio positivo su questa visita che suggella l’amicizia libico-italiana, con tutti i vantaggi che possono venire al nostro paese, chi dà un giudizio negativo ricordando che Gheddafi è un dittatore che non rispetta i diritti dell’uomo e non ammette opposizioni al suo governo.

Ne parlo brevemente solo perché sono stato in Libia nel dicembre 2006, su invito del vescovo di Tripoli, mons. Giovanni Martinelli, francescano minore. Ho visitato bene la Libia, estesa poco meno di sei volte la nostra Italia con solo 5-6 milioni di abitanti libici; oltre ai quali vivono in Libia più di due milioni di lavoratori stranieri, soprattutto egiziani e arabi (profughi da Libano, Iraq, Siria, Aghanistan), ma anche molti africani che vengono dall’Africa nera: somali, eritrei, etiopici, sudanesi, camerunesi, nigeriani, ciadiani, dal Burkina Faso e dalla Cista d’Avorio; e poi alcune migliaia di europei, soprattutto italiani. La Libia è un paese ricchissimo di petrolio e di gas, fornisce all’Italia circa il 30% delle nostre risorse energetiche e il nostro paese è il primo partner commerciale della Libia.

Di Muhammar al Gheddafi si è detto tutto. Dittatore del 1969, nei primi tempi ha seguito una linea politica nettamente anti-occidentale e anti-italiana, rivoluzionaria, fino a finanziare il terrorismo di matrice islamica e le moschee e madrasse islamiche d’ispirazione estremistica in tutto il mondo. Ha espulso dalla Libia i circa 22.000 italiani e altri che tenevano in pieni l’economia e i servizi pubblici, riducendo il suo popolo ad uno stato di miseria. Nel 1986, Reagan bombardò le sei tende, all’interno di caserme, in una delle quali viveva il premier libico, che scampò per miracolo. Gheddafi, anche perchè isolato fra due stati filo-occidentali (Egitto e Tunisia), capì che la sua linea rivoluzionaria lo portava al fallimento e, a poco a poco ha cambiato politica. Oggi fa ancora discorsi rivoluzionari e anti-occidentali, ma in pratica, specie dopo che nel 1998 venne tolto l’embargo economico e nel 2004 l’embargo sulla vendita di armi alla Libia, ha  iniziato un cammino di avvicinamento all’Occidente e, quel che più importa segnalare, di faticosa educazione del suo popolo al rispetto dei diritti dell’uomo e della donna. I proventi del petrolio che prima usava per sostenere l’estremismo islamico e i kamikaze palestinesi ora le usa per sviluppare il suo paese: strade, scuole, ospedali, università, case popolari a bassissimo prezzo, inizio di industrializzazione, sviluppo agricolo con l’acqua tirata su nel deserto ad una profondità di 800-1.000 metri! Due acquedotti (costruiti dai sud-coreani) portano l’acqua dal deserto alla Libia della costa, centinaia di chilometri più a nord.

Una visita in Libia permette di rendersi conto di un paese in pieno sviluppo. Gheddafi controlla e tiene a freno l’estremismo islamico e tenta di cambiare gli antichi costumi. Ad esempio, ha mandato a scuola tutte le bambine e le ragazze all’università, vincendo molte resistenze anche da parte di studenti e docenti universitari. Persegue in Libia una politica di libertà religiosa. I 100.000 cristiani (nessun libico, tutti stranieri), pur con molti limiti, godono di libertà di culto e di riunione. La Caritas libica è un organismo stimato e richiesto di interventi.

Due fatti eccezionali vanno ancora segnalati. Nel 1986 Gheddafi scrisse a Giovanni Paolo II chiedendo suore italiane per i suoi ospedali. Costruiva ospedali e dispensari, ma non aveva ancora infermiere libiche. La richiesta veniva dal buon esempio delle due suore francescane infermiere italiane che hanno assistito il padre di Gheddafi fino alla morte. Oggi in Libia ci sono circa 90-100 suore cattoliche (soprattutto indiane e filippine, ma anche italiane) e 10.000 infermiere cattoliche laiche, oltre a molti medici filippini, indiani, libanesi, italiani. Il vescovo Martinelli mi diceva: “La presenza di queste donne cristiane, professionalmente preparate, gentili, attente alle necessità del malato che curano con amore, stanno cambiando l’immagine del cristianesimo fra i musulmani”.

Secondo fatto. Sono stato nel deserto a 900-1000 km. da Tripoli, dove sta fiorendo una regione ex-desertica per l’acqua tirata su dalle profondità della terra. Un lago di 35 km. di lunghezza e campagne coltivate e cittadine, dove vent’anni fa non c’era nulla. La città capitale della regione ha 80.000 abitanti, dove vive un sacerdote medico italiano, don Giovanni Bressan (di Padova) che è stato uno dei fondatori dell’ospedale centrale di Sebha. Don Bressan ha riunito i molti africani profughi dai paesi a sud del deserto (Nigeria, Camerun, Ciad, ecc.) fondando per essi una parrocchia, una scuola, un centro di riunioni e di gioco. Gli africani sono trattati bene, lavorano e sono pagati, per tre o più anni rimangono nel sud, poi hanno soldi a sufficienza per tentare il passaggio in Italia! Fanno tutti i lavori e sono ammirati perché lavoratori onesti e forti. Don Vanni (Giovanni) riesce a fermare alcune famiglie, le altre vogliono venire in Italia, in Europa.

Il cammino della Libia verso la piena integrazione nel mondo moderno e nella Carta dei diritti dell’uomo e della donna, è appena cominciato. Personalmente sono contento che Gheddafi sia venuto in Italia e manifesti con questo la sua intenzione di continuare in una linea moderata e non estremista.

Piero Gheddo

Perché respingere gli africani a casa loro?

Il Blog del 25 maggio sul respingimento degli immigrati africani in Libia ha suscitato parecchi commenti di cui ringrazio gli amici interlocutori. Mi pare che, a parte i vari accenti sul problema (che è molto complesso), tutti concordano su due princìpi che esprimono il sentimento comune del popolo italiano:

– primo, di voler aiutare gli africani che a costo della vita fuggono in Italia per poter lavorare e vivere in pace;

– secondo, che però una immigrazione incontrollata di clandestini, aprendo le porte a tutti, finirebbe per dissestare il sistema di vita del popolo italiano, che non può sopportare da solo l’arrivo di migliaia e decine di migliaia di profughi clandestini, oltre a quelli regolari.

E’ la morsa di una tenaglia di cui non sappiamo come liberarci: da un lato la compassione per povera gente disperata, dall’altro la certezza che se non mettiamo un freno, un ostacolo all’arrivo di quanti vorrebbero venire in Italia e in Europa, ci troveremo assaltati da una marea di persone che fuggono la fame, le guerre, le dittature e le pandemie africane.

Nell’inverno 2006-2007 ho visto arrivare gli immigrati africani ai confini della Libia col Sahara (vedi sul mio sito internet www.gheddopiero.it le corrispondenze dalla Libia). Ricordando quelle scene provo ancora una pena enorme, ma sinceramente non so dare una risposta concreta ai molti interrogativi degli amici lettori. Avete tutti ragione. Non si possono respingere verso l’inferno, bisogna aiutarli. Ma come? Questo il vero problema e nessuno ha una risposta plausibile. Tutte le ipotesi sono teoricamente belle, concretamente irrealizzabili:

– deve interessarsene l’Europa perché è un problema continentale. D’accordo, l’Europa critica l’Italia, però quando la Spagna alcuni anni fa ha respinto in Africa i profughi, sparando e uccidendo alcuni clandestini africani, non ricordo il clamore di proteste dell’U.E. e della stampa internazionale; o c’è un forte pregiudizio contro l’Italia di cui già si lamentava Romano Prodi? Comunque, l’Europa non fa nulla: tutti chiudono le frontiere ai clandestini. Ed è facile capire perché. Se l’Europa dovesse aprire le porte a tutti, con i mille problemi che ciascun paese deve gestire al suo interno, non è pensabile né possibile che possa ospitarli tutti. Dobbiamo renderci conto che i potenziali immigrati in Europa da paesi africani, o comunque in guerra o sotto pesanti dittature, sono milioni e decine di milioni.

– Bisogna aiutare gli africani a casa loro, affinchè si sviluppino in modo autonomo. Anche questa è una soluzione più che giusta, ma già sperimentata da mezzo secolo e fallita. Nell’Europa dell’ultimo dopoguerra, in 10-12 anni il “Piano Marshall” ha riportato i paesi europei distrutti ad uno sviluppo maggiore di prima della guerra. In Africa, cinquant’anni dopo l’indipendenza (1960), i finanziamenti dei “piani di sviluppo” e l’invio di aiuti finanziari e di macchine non hanno prodotto un vero sviluppo dei singoli paesi. La vera soluzione per l’Africa sarebbe l’educazione del popolo: in media i paesi africani hanno ancora un 50% di analfabeti! Ma chi va ad educarli quando i governi locali si interessano poco o nulla delle campagne e delle scuole? Chi ha viaggiato nell’Africa rurale sa che le scuolette di villaggio, quando ci sono, hanno classi da 80 a 100 e più bambini, spesso senza libri e senza quaderni. Circa la metà dei supposti “alfabetizzati” sono analfabeti di ritorno. Nei villaggi tradizionali africani si ignora la ruota, il carro agricolo, i fertilizzanti, l’irrigazione artificiale, ecc. Dico sempre e lo ripeto che a Vercelli produciamo 80 quintali di riso all’ettaro, nell’Africa rurale (non nelle poche fattorie moderne) si producono in media cinque quintali di riso all’ettaro! Le vacche della pianura padana producono 30 litri di latte al giorno, in Africa le vacche (ripeto: escluse le poche fattorie moderne) non producono latte, eccetto un litro o due quando hanno il vitellino. Il continente africano nel 1960 esportava cibo, oggi importa circa il 30% del cibo di base che consuma (riso, mais, grano). Ma chi va ad educare e insegnare a produrre di più?

– Non vendiamo più armi e le guerre finiranno anche in Africa. Giusto, anch’io vorrei che non si producessero nè vendessero più armi. Ma non illudiamoci, le guerriglie tribali che sconvolgono i paesi africani avvengono anche senza le nostre armi. Vent’anni fa l’Italia era al 7° posto per la vendita di armi nel mondo, oggi è al 16°, ai primi posti sono salite Cina, India, Brasile, Sud Africa, oltre alle potenze tradizionali, USA, Russia, Francia, Inghilterra. Nel novembre 1994 ho visitato Ruanda e Burundi dov’era attivo un vero genocidio e mi dicevano che le eliminazioni di massa erano fatte con coltelli e coltellacci, bastoni e fuoco. Dove c’è odio e non amore, le guerre (o guerriglie) sono inevitabili. Nel 1982 ho visitato per “Avvenire” e la Caritas le regioni di frontiera del Pakistan con l’Afghanistan dov’erano i campi profughi afghani che fuggivano l’occupazione sovietica del loro paese; ebbene, mi dicevano che gli artigiani di villaggio riuscivano, con i loro poveri mezzi, a fabbricare il kalashnikov sovietico, arma semplicissima ed efficace.

–  Smettiamola di rapinare l’Africa delle sue ricchezze naturali e paghiamo con giustizia le sue materie prime. Giusto, però lo sviluppo di un popolo non è anzitutto un problema di soldi e di macchine, ma, specie nel mondo moderno, un problema culturale ed educativo, di stabilità dei governi e di pace. Qualche anno fa la Banca mondiale rivelava che la Nigeria (paese ricchissimo per il petrolio) aveva un debito estero di 90 miliardi di dollari, ma i capitali nigeriani nelle banche svizzere ed europee erano circa 130 miliardi di dollari. L’Onu ha tentato di intervenire in Somalia per riportare la pace tra le etnie e le fazioni in guerra, con l’operazione “Restore Hope” del 1993-1995. Poi si è ritirata e la Somalia non ha più uno stato e un governo nazionale da 18 anni, è un paese allo sbando, rifugio dei “pirati del mare” e degli estremisti e terroristi islamici. Lo sviluppo di un paese è essenzialmente un problema culturale-educativo e di pace, ma chi va ad educare? Ormai tutti lo ammettono e Giovanni Paolo II l’ha scritto nella “Redemptoris Missio” (n. 58) “Lo sviluppo di un popolo non deriva primariamente né dal denaro, né dagli aiuti materiali, né dalle strutture tecniche, bensì dalla formazione delle coscienze, dalla maturazione delle mentalità e dei costumi”. I missionari e i volontari cristiani creano sviluppo perché rimangono tutta la vita fra un popolo, ed educano. Ma diminuiscono di numero. Molti mandano aiuti e denaro, cdrtamente provvidenziale, ma quanti giovani italiani consacrano la vita a Cristo per la missione alle genti e per aiutare davvero i popoli poveri condividendone la vita?

Cosa dire d’altro? Non lo so e se qualche lettore ha una risposta, intervenga pure liberamente. Scusatemi la lunghezza di questo Blog, ma il problema degli immigrati clandestini è angoscioso per tutti e nessuno sa in concreto cosa fare!

Piero Gheddo

Le «condizioni disumane» dei profughi in Libia

Nell’inverno 2007 sono stato in Libia e ho potuto visitare la città di Sebha (900 km. a sud di Tripoli, 80.000 abitanti), dove, ospite di don Vanni Bressan, medico e sacerdote cattolico fondatore dell’unica chiesa nel deserto del Sahara libico, ho potuto vedere gli africani che arrivano dopo due-tre mila chilometri di deserto (uno o due su dieci muoiono nel viaggio). La Libia li accoglie anche perché ha bisogno del loro lavoro. In città e nelle campagne fanno di tutto, contadini, baristi, spazzini, falegnami, cuochi. Rimangono nel deserto per alcuni anni, fin che hanno abbastanza denaro per pagarsi il viaggio verso il nord e la traversata del Mare Mediterraneo. Ho parlato (in inglese e francese) a questi neri, tutti molto giovani spesso con moglie e bambino (non pochi sono cristiani, cattolici e protestanti), che fuggono la fame, le dittature, le guerre e tutti le tragedie che tormentano i paesi dell’Africa nera. Ho anche scritto (su “Mondo e Missione”, “Avvenire” e “Il Timone”) di questi disperati che spesso, per fuggire dalle situazioni del loro paese “verrebbero anche a nuoto in Italia o in Europa”. In Libia, nella città del deserto, non sono trattati male, anzi sono anche contenti perché hanno un lavoro e possono guadagnare. Li assiste padre Bressan, che oltre ad essere l’unico sacerdote, è anche medico nel locale ospedale governativo dall’inizio anni novanta.

Conosco quindi la situazione da cui vengono questi poverissimi fratelli e sorelle africani. Per cui, il respingimento dei barconi di immigrati verso la Libia mi ha ferito. Non ne ho ancora scritto perchè capisco benissimo le ragioni del nostro governo, che non può portare da solo il peso di questa continua emergenza. Ma leggo che il vescovo di Tripoli, mons. Giovanni Martinelli (che mi aveva invitato in Libia), ha inviato al sito missionline.org, attraverso un suo portavoce, questa sua riflessione:

Come è possibile rigettare sui libici un problema così vasto? Noi possiamo capire che l’Europa si difende da questa “invasione”, ma non si potrebbero trovare altri mezzi per farlo? Quanto a noi, è l’aspetto umanitario che conta per primo: povera gente che cerca di fuggire dalla povertà, dall’ingiustizia, da una condizione di miseria insopportabile… Come discernere tra questa gente allo sbando chi sarebbe da considerare “rifugiato politico”? E come si possono rifiutare gli altri? Sarebbe una buona cosa se l’Italia potesse impegnarsi e riflettere per giungere a trovare soluzioni giuste e rispettose delle situazioni concrete. Queste persone che sono ricacciate verso la Libia, come potranno vivere in un Paese come questo, che non ha i mezzi concreti per discernere, e che dovrà per forza lasciarle in condizioni inumane?

La nostra Chiesa è continuamente confrontata a una grave questione umanitaria, questo in modo particolare ogni venerdi: infatti il venerdi è una folla di povera gente che si riversa in chiesa e che domanda aiuto. Da parte nostra, facciamo del nostro meglio per accogliere tutti: il servizio sociale cerca di offrire loro cibo, indumenti e quanto serve per l’igiene…. Una semplice clinica gestita grazie a un gruppo di volontari funziona ogni venerdi; questi offrono quache servizio sanitario e accompagnano a volte delle persone gravemente malate in ospedale, spesso donne incinte. Capita anche di aiutare qualcuno a morire! Visitamo dei centri di raccolta per clandestini o delle prigioni: qualche piccolo aiuto possiamo offrirlo, ma la soluzione bisognerebbe cercarla più lontano, alla radice del male…

Ci domandiamo: come è possibile rigettare sui libici un problema così vasto? Non si potrebbe piuttosto aiutare i libici a studiarlo, analizzarlo, a discernere?

Condivido pienamente quanto scrive mons. Martinelli. Mi spaventa specie perché è riuscito a rimanere in Libia per quasi cinquant’anni usando sempre una grande prudenza. Eppure oggi parla di “condizioni disumane” in cui questi profughi sono lasciati!

Parole che pesano come pietre, conoscendo l’uomo e la situazione di precaria libertà religiosa in cui vive.

Piero Gheddo