«Preti mediocri non ci servono»

Nell’Anno sacerdotale proclamato da Benedetto XVI il 19 giugno scorso, un anno di preghiere e di riflessione sul sacerdozio, ho ringraziato il Signore, non solo di avermi chiamato, ma di aver messo sulla mia strada tanti ottimi e santi sacerdoti che hanno influenzato la mia formazione di prete. Oggi voglio ricordarne uno solo al quale debbo tanto: padre  Paolo Manna (1882-1952), beatificato a Roma da Giovanni Paolo II il 4 novembre 2001: missionario in Birmania per 12 anni (1995-1907) e poi direttore di “Le Missioni Cattoliche” (oggi “Mondo e Missione”), fondatore dell’Unione missionaria del clero (oggi Opera Pontificia) e superiore generale del Pime (1924-1934). L’ho incontrato una sola volta nel 1945 o 1946 a Monza, dov’ero da poco entrato nel liceo del Pime dal seminario diocesano di Moncrivello (Vercelli) e poi ho avuto la fortuna di dover scrivere la sua  biografia nell’anno della sua beatificazione (“Paolo Manna”, EMI 2001, pagg. 400).

A padre Manna debbo l’inizio della mia vocazione missionaria quando nei primi anni del mio ginnasio a Moncrivello il Signore mi chiamò ad essere missionario, facendomi leggere il suo primo libro,  forse il più appassionato e affascinante (almeno per noi giovani di quel tempo!): “Operarii autem pauci – Riflessione sulla vocazione alle missioni estere”, Pime 1909, VI ediz. 1942). In un secondo tempo, nel 1995, come direttore dell’Ufficio storico del Pime ho pubblicato la prima edizione integrale delle sue Lettere ai missionari del Pime mentre era superiore generale, pagine anche queste infuocate di un ardente amore a Cristo, alla Chiesa e alle “missioni estere”: “Virtù Apostoliche”, Emi 1995, IV edizione, pagg. 460. Ho ripreso in mano per meditarle queste lettere. Ecco alcune espressioni, alcuni squarci delle sue esortazioni:

–    “Il missionario deve presentarsi ai popoli infedeli come un alter Christus (altro Cristo). Il missionario di fatti, se non  impersona Gesù Cristo non è niente. Quando nel missionario appare l’uomo, allora  egli è inefficace” (pag. 90).
–    “Amati confratelli, si dice che i missionari sono pochi, ma quanto più pochi sono i veri missionari che ritraggono in tutta la loro vita la figura divina di Cristo!” (pag. 91).
–    “Missionari, cioè uomini naturalmente forti e decisi non facciamo le cose a metà. Facendoci missionari abbiamo inteso darci tutti interi a Gesù Cristo. Se non Gli saremo uniti con una grande, totale dedizione, che non può aversi da chi non prega, Egli sarà costretto per la nostra poca generosità a starsene lontano da noi; verremo così a privarci di un grande cumulo di grazie e indubbiamente cadremo nella nostra miseria” (pag. 93).
–    “Siate uomini di vita interiore, uomini di preghiera e, se anche foste scarsi di doni naturali, la grazia di Dio supplirà abbondantemente a quello che vi manca. Quante volte missionari di pochi numeri, ma santi, hanno ottenuto grandi frutti di bene in missioni, dove altri più intelligenti e bravi hanno lavorato invano!” (pag. 100).
–    (Ai formatori dei seminari): “Preti mediocri non ci servono. Abbiamo bisogno di una vera schiera di uomini superiori, ripieni dello Spirito di Dio, non mercenari o dilettanti, ma veri Pastori nel senso più sublime della parola, che sappiano dare Gesù Cristo alle anime dalla sovrabbondanza del loro tesoro di grazia e virtù” (pag. 157).

Il dramma di noi preti è questo. Che meditiamo e comprendiamo il valore e la forza di queste esortazioni, abbiamo scelto di seguire e di amare Gesù con tutto il cuore, rinnoviamo ogni giorno questa consacrazione totale a Dio e alla missione della Chiesa. Però poi arriviamo a 80 anni e ci accorgiamo di essere ancora molto distanti dall’ideale, pur rimanendo ben convinti che preti santi evangelizzano davvero gli uomini e la società, migliorando la vita per tutti; mentre preti scadenti che vanno secondo la corrente del mondo non possono portare la luce di Cristo nelle tenebre del nostro tempo e toccare il cuore degli uomini. Preghiamo non solo per avere tante, ma soprattutto sante vocazioni sacerdotali e missionarie.

Piero Gheddo

Come scalare una parete di sesto grado

È veramente straordinario che il Papa, iniziando un Anno speciale di preghiera per i sacerdoti di tutto il mondo (19 giugno 2009-2010), abbia proclamato patrono e modello da imitare un pover’uomo, buon lavoratore dei campi ma pessimo studente di latino e di teologia. In seminario lo giudicavano “non adatto a fare il prete”, il suo vescovo non voleva ordinarlo sacerdote perché “troppo ignorante”, infine lo stesso vescovo si convince a farlo prete per mandarlo in un paesino di 230 abitanti, dicendo che “per lo meno farà pochi danni”!

Fatto straordinario perchè un Papa teologo e raffinato pensatore come il nostro Benedetto, poteva trovare qualche altra figura da proporre a noi, 404.262 preti della Chiesa cattolica in tutto il mondo, e non mancano certo santi di alto e anche di altissimo livello intellettuale. Invece sceglie proprio Giovanni Maria Vianney. Perché questa scelta? Perchè in tanti santi sacerdoti emergono molte doti umane: intelligenza, scienza, autorevolezza, managerialità, leadership, capacità educativa, genialità finanziaria, coraggio, ecc. Nel Santo Curato d’Ars non emerge solo una natura umana molto povera, però totalmente aperta alla grazia dello Spirito  Santo, che in questa miseria umana ha potuto operare le sue meraviglie, senza quasi trovare ostacoli.

Per rinnovare la Chiesa, Benedetto XVI parte dai sacerdoti e proponendo il Santo Curato d’Ars a nostro modello, lancia un messaggio preciso soprattutto a noi sacerdoti: dobbiamo essere “affascinati dall’ideale della santità”, cioè dall’amore e dall’imitazione di Cristo. Tutto il resto conta, ma il chiodo fisso dovrebbe essere quello che spingeva don Giovanni ad una preghiera continua, un’ascesi a volte eroica, la grande amabilità e pazienza con tutti, la disponibilità di sacrificarsi, l’umiltà fino al punto di considerarsi sinceramente l’ultimo dei preti, “indegno di fare il prete”.

Inoltre, San Giovanni Maria Vianney ha vissuto nel tempo storico della Francia post-Rivoluzione francese (1789-1799), caratterizzato da ateismo pratico, costumi rilassati, indifferenza religiosa, ostilità contro il cristianesimo e la Chiesa, in un’atmosfera di “terrore all’ordine del giorno” che non invitava certo alla fede e alla vita cristiana. Cioè, praticamente, come il post-Sessantotto in cui noi ancor oggi viviamo, però in una situazione politico-economico-sociale e anche religiosa immensamente migliore a quella del tempo in cui visse il Curato d’Ars! Eppure, nonostante tutto, lui ha avuto una fede ed una costanza nella preghiera così profonde e autentiche, che l’hanno portato alla santità.

Cari amici lettori di questo Blog. Vedete come, specialmente oggi, fare il prete, il missionario, è come scalare una parete di sesto grado. Si può fare solo con l’aiuto di Dio. Ecco perché dovete pregare molto in quest’anno per noi.

Piero Gheddo

Anno sacerdotale: pregare per i sacerdoti

Il venerdì 19 giugno scorso, festa del SS. Cuore di Gesù, Papa Benedetto ha dato inizio all’ “Anno sacerdotale” con una lettera ai sacerdoti di tutto il mondo e, celebrando i Vespri in modo solenne, con un’Omelia nella Basilica Vaticana a migliaia di sacerdoti presenti. Poi si è recato a venerare in silenzio il cuore del Curato d’Ars, San Giovanni Maria Vianney (1786-1859), di cui quest’anno ricorre il 150° anniversario della morte, dichiarato ”patrono” dell’Anno sacerdotale e dei  sacerdoti. Il Papa ha così spiegato lo scopo di questo anno di preghiera e di riflessione: “La Chiesa ha bisogno di sacerdoti santi, di ministri che aiutino i fedeli a sperimentare l’amore misericordioso del Signore e ne siano convinti testimoni”. Per questo, ha invitato i credenti a chiedere “al Signore che infiammi il cuore di ogni presbitero” di amore per Gesù.
L’Anno Sacerdotale non riguarda solo noi sacerdoti, ma è una provocazione per tutti i credenti in Cristo a riscoprire il valore della vocazione del presbitero. “La nostra – ha detto il Papa – è una missione indispensabile per la Chiesa e per il mondo, che chiede fedeltà piena a Cristo ed incessante unione con Lui; esige cioè che noi sacerdoti tendiamo costantemente alla santità come ha fatto san Giovanni Maria Vianney”. Per questo il sacerdote deve “contemplare il Cuore trafitto del Crocifisso” e “lasciarsi conquistare pienamente da Cristo” per “fare di Cristo il cuore del mondo”, per rispondere cioè al disegno di Dio, che “si realizza nella storia, man mano che Gesù diviene il Cuore dei cuori umani, iniziando da coloro che sono chiamati a stargli più vicini, i sacerdoti appunto”.
Dico la verità. Mentre ascoltavo queste parole, pensavo che in quel momento Papa Benedetto parlava a me e solo per me ed ho pregato perché anch’io, nel mio piccolo, possa innamorami di Gesù lasciandomi conquistare pienamente da Lui, per poter essere uno dei tanti sacerdoti che, nella Chiesa, collaborano a “fare di Cristo il cuore del mondo”.
Cari Amici che mi leggete su questo Blog, chiedo anche a voi in quest’Anno sacerdotale non solo una preghiera per me, ma per tutti i 404.262 sacerdoti del mondo intero (dati dell’Annuario Pontificio 2009). Mentre il Papa parlava, pregava e venerava il Curato d’Ars, ho immaginato questa immensa schiera di preti presenti in ogni angolo del mondo e vi assicuro, mi sono sentito in buona compagnia. Ho ringraziato il Signore che mi ha scelto e mi ha sostenuto nei miei 56 anni di sacerdozio perché ho sperimentato quanto è bello fare il prete, quanto il Signore ricompensa mille volte le rinunzie ed i sacrifici che un giovane fa nel seguire questa via. E ricordo le tantissime testimonianze di sacerdoti secondo il cuore di Dio, che sono ancora ricordati e pregati perchè, con l’aiuto di Dio, hanno trasformato il loro popolo, l’hanno ricondotto a Dio.
Il Curato d’Ars era un giovane contadino con scarsa propensione agli studi. In seminario danno di lui questo giudizio: “Per il lavoro bene;  condotta e carattere buono e buona; per studi e scienza molto debole, non all’altezza per diventare prete”. Infatti il suo vescovo non voleva ordinarlo, ma poi un prete amico, che lo conosceva bene, insiste talmente presso la curia di Lione, che finalmente, nel 1815, il vescovo lo ordina sacerdote a 29 anni. I primi tre anni don Giovanni è viceparroco in aiuto al sacerdote che l’aveva raccomandato, poi il vescovo lo manda come parroco ad Ars, un paesino di campagna di 230 abitanti, di poco buona fama per la rilassatezza dei costumi e l’indifferenza nella fede, dicendo che comunque avrebbe fatto pochi danni. Qui, scrive un suo biografo, “opererà meraviglie e farà del povero e sconosciuto villaggio un centro spirituale del mondo cattolico”, visitato ancor oggi da milioni di pellegrini. Era un prete veramente santo, totalmente dedicato a Dio e al suo popolo. Dio si servì di un uomo così limitato per dimostrare che le grandi opere non sono da attribuire alla sapienza umana, ma alla bontà di Dio.
Ecco, leggendo la biografia del parroco di Ars, prego: “Signore Gesù, fa che tutti noi preti possiamo, ciascuno nella via che tu gli hai tracciato, essere sale della terra e luce del mondo come il Santo Curato d’Ars”. Pregate anche voi, cari amici, per questo scopo.

Piero Gheddo

Gli italiani in Libia

Nel Blog del 15 giugno ho espresso compiacimento per la visita in Italia del premier libico Muhammar al-Gheddafi: per il rifornimento di energia che assicura all’Italia (il 30% del nostro necessario) e perchè assegna al nostro paese la priorità commerciale e industriale, invitando gli italiani a ritornare in Libia. Nel dicembre 1996, all’Ambasciata italiana a Tripoli dicevano (oggi la situazione è migliorata), che la Libia è un’ottima opportunità per esportare e investire nel campo industriale, con tecnologie anche molto semplici. Non dimentichiamo che il paese nord-africano è rimasto bloccato nel suo sviluppo fino al 1998, quando l’Onu ha abolito l’embargo economico, ed ancor oggi importa lampadine, chiodi, medicine di base, mobili di ferro e molti altri prodotti elementari. Infatti avevo incontrato diversi piccoli industriali che confermavano questo.

Il titolare di una industria familiare di Dolo (Padova) mi diceva che esporta in Libia sedie, panche, mobili e tavoli di ferro, ha aperto un ufficio a Tripoli e viene ogni tanto a firmare contratti, specie con gli organismi governativi: “Non capisco – aggiungeva – perché molte ditte italiane esportano in Cina e in altri paesi lontanissimi e trascurano di venire in Libia, un’ora e mezzo di aereo da Milano, dove si importa di tutto e pagano bene”. Una ditta di Varese sta impiantando una fabbrica di medicinali, specie retrovirali contro l’Aids, a 110 km ad ovest di Tripoli. Un tecnico di questa ditta, Luca Ceriani, dice: “L’Italia qui ha lasciato un buon ricordo, specie nella memoria degli anziani, gente semplice e buona, che viveva in amicizia con gli italiani. Quando sanno che sono italiano, si aprono, sono cordiali, si sforzano di dire qualche parole in italiano. La nostra lingua non è più insegnata né parlata normalmente, ma molti vedono la Tv italiana e apprendono almeno a capire cosa uno dice. Con gli italiani, il popolo è molto accogliente”.

Ad una cena degli imprenditori italiani organizzata dalla nostra Ambasciata, un ingegnere torinese, in Libia con la moglie da una quindicina d’anni, mi diceva: “Gheddafi ha fatto molto per evolvere la società libica: le bambine vanno a scuola, le giovani all’università e quando c’è il divorzio l’uomo se ne va e la casa rimane alla donna, mentre nella tradizione islamica l’uomo ripudia la donna che abbandona la sua casa. La Libia ha fatto notevoli passi in avanti negli ultimi vent’anni e questo spiega come il consenso popolare a Gheddafi è in aumento. Oggi Gheddafi è dedicato a sviluppare il suo popolo e sa venire incontro alle aspettative e ai bisogni della gente. In pratica però lo stato è lui, tutto è basato su di lui. Non c’è nemmeno la Costituzione, c’è lui e il suo “Libretto verde”. Non c’è un partito, ma tutto è basato sul popolo che decide e su Gheddafi che rappresenta il popolo: la sapienza del popolo decide. Il Libretto Verde spiega tutta la teoria di Gheddafi, vale la pena di conoscerlo. L’islam è la base, l’anima di tutto. Non l’islam fondamentalista, ma un islam che vada d’accordo con l’evoluzione dell’umanità verso una vita più umana per tutti”.
In Libia il benessere si vede in Libia, strade, auto, vestiti, cibo, lavoro, ecc. C’è ancora molta povertà ma ad esempio non ci sono baracche a Tripoli, anche in periferia: case povere sì, ma vere baracche no. C’è ancora povertà, ma non miseria. Anche chi non lavora o non sa cosa fare, se la cava in qualche modo. La sanità purtroppo funziona poco e male, specialmente fuori delle città, perché lo spirito di dedizione al malato. Per questo in molti ospedali ospedali (a Tripoli sono quasi tutte loro) ci sono le suore e le infermiere cattoliche (più di 10,000 in tutto, specie filippine e indiane, ma anche italiane) che danno esempio di dedizione al malato. Le strutture sanitarie ci sono, ma manca il personale preparato e manca lo spirito di servizio.

Ma c’è un altro motivo che spinge noi italiani a collaborare con la Libia. Nel vasto panorama dei circa 30 paesi a maggioranza islamica, oggi la Libia è forse quello che sta facendo i più rapidi passi in avanti verso il mondo moderno e l’educazione popolare in tutti i sensi, anche a superare l’estremismo islamico. Il governo controlla i fondamentalisti (che non mancano) mandando in anticipo il testo dell’istruzione religiosa che gli imam tengono ogni venerdì nelle moschee, preparato da un comitato di saggi musulmani: debbono leggere quel testo senza aggiungere né togliere nulla. Sono controllati e chi sbaglia viene dimesso. Secondo, le madrasse (scuole coraniche) sono strettamente controllate, è quasi impossibile che il fondamentalismo islamico si radichi e venga trasmesso ai giovani. Nei primi tempi del governo di Gheddafi i Fratelli musulmani, di provenienza egiziana (in Libia ci sono due milioni di egiziani che lavorano), avevano una forte presenza ed influsso nel paese. Oggi sono scomparsi. E’ chiaro che nessuno di noi può approvare i metodi di governo e di repressione in uso in, ma un attento osservatore italiano in Libia da molti anni mi diceva: “Noi speriamo che Gheddafi duri a lungo e riesca a cambiare la tradizione e la mentalità dei suoi compatrioti. Senza di lui, oggi,la situazione sarebbe senza dubbio molto peggiore in tutti i sensi”.

Piero Gheddo 18 giugno 2009

La liberazione delle donne in Libia

Nell’ultimo Blog (11 giugno) ho espresso il mio compiacimento per la visita in Italia del premier libico Muhammar al-Gheddafi, certo anche per il rifornimento di energia che assicura all’Italia (il 30% del nostro necessario) e per il fatto di assegnare al nostro paese la priorità commerciale e industriale negli affari con la Libia.

Ma il fatto più sensazionale della sua visita è stato, secondo me, l’incontro con le donne italiane e il discorso da lui pronunziato, che non hanno avuto nei mass media il risalto che meritavano. E’ la prima volta che un capo di stato musulmano pronuncia parole così forti sull’uguaglianza sostanziale tra uomo e donna, giungendo persino a dire che “nel mondo arabo la situazione della donna è orrenda. Per gli uomini, le donne sono un pezzo di mobilio, lo cambiano in qualsiasi modo e nessuno chiede perchè lo hanno fatto, specie se hai i soldi e il petrolio”; e riferendosi ai paesi del Golfo ha aggiunto: “La donna è umiliata al massimo, le è proibito guidare l’auto, non ha nemmeno il diritto di sposarsi e di divorziare, è una situazione orrenda che incita alla rivoluzione”.

Non sono solo parole. Nel suo famoso “Libretto verde” (terza ediz. 1999) Gheddafi scrive, nel lungo capitolo sulla donna: “La donna è un essere umano, come l’uomo… è evidente che la donna e l’uomo sono uguali. La discriminazione fra uomo e donna è un atto d’ingiustizia flagrante e ingiustificabile”. Poi prosegue per pagine descrivendo le diversità e le funzioni che uomo e donna hanno nella società, ambedue nobili e indispensabili alla razza umana. Secondo le fonti ufficiali libiche, la violenza contro le donne è finita con la Rivoluzione del 1 settembre 1969, quando Gheddafi liberò il paese da re Idris Al-Sanusi. Naturalmente non è vero (in Libia lo stato ha istituito dei “Centri di riabilitazione sociale” per le donne in cerca di protezione), ma bisogna ricordare che Gheddafi ha fatto fare alla società libica passi importanti nel cammino di liberazione della donna, mandando le bambine a scuola (nei paesi islamici non è comiune) e all’università, vincendo molte resistenze anche fra docenti e studenti universitari. Nelle regioni rurali della Libia capita ancora di vedere case di contadini, il cui cortile interno è  circondato da un altissimo muro (sui 4 metri). Nella tradizione, in quel cortile stavano le donne di casa, che potevano uscire solo se accompagnate dal marito o da un parente stretto. Ma in Libia questa discriminazione, abbastanza comune in altri paesi islamici, è quasi del tutto scomparsa. Gheddafi ha varato leggi sul matrimonio e il divorzio favorevoli alle donne, molto più che in altri paesi islamici. In Libia le donne studiano, diventano insegnanti e infermiere, segretarie e dottoresse (soprattutto ginecologhe e pediatre). Le guardie del corpo femminili di Gheddafi, fatto unico credo in tutto il mondo, sono un segno evidente, dato al popolo libico, di quanto la “guida illuminata” stimi  e apprezzi le donne. Per cambiare una cultura millenaria non bastano le leggi e la repressione poliziesca, ci vuole tempo e, specie per popoli semplici, anche forti segni simbolici.

Nessuno però ricorda un fatto fondamentale per capire la rivoluzione che Gheddafi sta portando riguardo al mondo femminile. Ho visitato la Libia nel dicembre 2006, su invito del vescovo di Tripoli mons. Giovanni Martinelli, che mi ha raccontato di quando Gheddafi scrisse nel 1986 a Giovanni Paolo II chiedendogli suore italiane per i suoi ospedali. Oggi in Libia ci sono 90-100 suore cattoliche (italiane, libanesi, indiane , filippine, francesi, polacche, spagnole) e più di 10.000 infermiere cattoliche (specie filippine e indiane), con decine di medici cattolici, anch’essi stranieri. Mons. Martinelli mi diceva: “La presenza di queste giovani donne cristiane, professionalmente preparate, gentili, attente alle necessità del malato che curano con amore, stanno cambiando l’immagine del cristianesimo fra i musulmani e soprattutto dimostrano in concreto come la donna che studia ed è libera può essere utile e indispensabile all’uomo”.

Noi continuiamo a interessarci delle nostre miserande beghe da cortile, di veline e di Noemi, ma non ci accorgiamo che in Libia si sta realizzando una rivoluzione epocale che riguarda la donna nell’islam, per cui ci associamo all’auspicio del Presidente Giorgio Napolitano, che questa visita di Stato in Italia del leader libico Gheddafi “possa agevolare il consolidamento del progetto del Mediterraneo come area di pace e di prosperità anche per le donne”.

Piero Gheddo

Gheddafi ospite in Italia fra le polemiche

Dal 10 giugno il leader libico Muhammar al-Gheddafi è ospite del governo italiano, ricevuto con tutti gli onori dovuti ad un capo di stato di un paese amico dell’Italia. Le forze politiche e l’opinione pubblica sono divisi. Chi esprime un giudizio positivo su questa visita che suggella l’amicizia libico-italiana, con tutti i vantaggi che possono venire al nostro paese, chi dà un giudizio negativo ricordando che Gheddafi è un dittatore che non rispetta i diritti dell’uomo e non ammette opposizioni al suo governo.

Ne parlo brevemente solo perché sono stato in Libia nel dicembre 2006, su invito del vescovo di Tripoli, mons. Giovanni Martinelli, francescano minore. Ho visitato bene la Libia, estesa poco meno di sei volte la nostra Italia con solo 5-6 milioni di abitanti libici; oltre ai quali vivono in Libia più di due milioni di lavoratori stranieri, soprattutto egiziani e arabi (profughi da Libano, Iraq, Siria, Aghanistan), ma anche molti africani che vengono dall’Africa nera: somali, eritrei, etiopici, sudanesi, camerunesi, nigeriani, ciadiani, dal Burkina Faso e dalla Cista d’Avorio; e poi alcune migliaia di europei, soprattutto italiani. La Libia è un paese ricchissimo di petrolio e di gas, fornisce all’Italia circa il 30% delle nostre risorse energetiche e il nostro paese è il primo partner commerciale della Libia.

Di Muhammar al Gheddafi si è detto tutto. Dittatore del 1969, nei primi tempi ha seguito una linea politica nettamente anti-occidentale e anti-italiana, rivoluzionaria, fino a finanziare il terrorismo di matrice islamica e le moschee e madrasse islamiche d’ispirazione estremistica in tutto il mondo. Ha espulso dalla Libia i circa 22.000 italiani e altri che tenevano in pieni l’economia e i servizi pubblici, riducendo il suo popolo ad uno stato di miseria. Nel 1986, Reagan bombardò le sei tende, all’interno di caserme, in una delle quali viveva il premier libico, che scampò per miracolo. Gheddafi, anche perchè isolato fra due stati filo-occidentali (Egitto e Tunisia), capì che la sua linea rivoluzionaria lo portava al fallimento e, a poco a poco ha cambiato politica. Oggi fa ancora discorsi rivoluzionari e anti-occidentali, ma in pratica, specie dopo che nel 1998 venne tolto l’embargo economico e nel 2004 l’embargo sulla vendita di armi alla Libia, ha  iniziato un cammino di avvicinamento all’Occidente e, quel che più importa segnalare, di faticosa educazione del suo popolo al rispetto dei diritti dell’uomo e della donna. I proventi del petrolio che prima usava per sostenere l’estremismo islamico e i kamikaze palestinesi ora le usa per sviluppare il suo paese: strade, scuole, ospedali, università, case popolari a bassissimo prezzo, inizio di industrializzazione, sviluppo agricolo con l’acqua tirata su nel deserto ad una profondità di 800-1.000 metri! Due acquedotti (costruiti dai sud-coreani) portano l’acqua dal deserto alla Libia della costa, centinaia di chilometri più a nord.

Una visita in Libia permette di rendersi conto di un paese in pieno sviluppo. Gheddafi controlla e tiene a freno l’estremismo islamico e tenta di cambiare gli antichi costumi. Ad esempio, ha mandato a scuola tutte le bambine e le ragazze all’università, vincendo molte resistenze anche da parte di studenti e docenti universitari. Persegue in Libia una politica di libertà religiosa. I 100.000 cristiani (nessun libico, tutti stranieri), pur con molti limiti, godono di libertà di culto e di riunione. La Caritas libica è un organismo stimato e richiesto di interventi.

Due fatti eccezionali vanno ancora segnalati. Nel 1986 Gheddafi scrisse a Giovanni Paolo II chiedendo suore italiane per i suoi ospedali. Costruiva ospedali e dispensari, ma non aveva ancora infermiere libiche. La richiesta veniva dal buon esempio delle due suore francescane infermiere italiane che hanno assistito il padre di Gheddafi fino alla morte. Oggi in Libia ci sono circa 90-100 suore cattoliche (soprattutto indiane e filippine, ma anche italiane) e 10.000 infermiere cattoliche laiche, oltre a molti medici filippini, indiani, libanesi, italiani. Il vescovo Martinelli mi diceva: “La presenza di queste donne cristiane, professionalmente preparate, gentili, attente alle necessità del malato che curano con amore, stanno cambiando l’immagine del cristianesimo fra i musulmani”.

Secondo fatto. Sono stato nel deserto a 900-1000 km. da Tripoli, dove sta fiorendo una regione ex-desertica per l’acqua tirata su dalle profondità della terra. Un lago di 35 km. di lunghezza e campagne coltivate e cittadine, dove vent’anni fa non c’era nulla. La città capitale della regione ha 80.000 abitanti, dove vive un sacerdote medico italiano, don Giovanni Bressan (di Padova) che è stato uno dei fondatori dell’ospedale centrale di Sebha. Don Bressan ha riunito i molti africani profughi dai paesi a sud del deserto (Nigeria, Camerun, Ciad, ecc.) fondando per essi una parrocchia, una scuola, un centro di riunioni e di gioco. Gli africani sono trattati bene, lavorano e sono pagati, per tre o più anni rimangono nel sud, poi hanno soldi a sufficienza per tentare il passaggio in Italia! Fanno tutti i lavori e sono ammirati perché lavoratori onesti e forti. Don Vanni (Giovanni) riesce a fermare alcune famiglie, le altre vogliono venire in Italia, in Europa.

Il cammino della Libia verso la piena integrazione nel mondo moderno e nella Carta dei diritti dell’uomo e della donna, è appena cominciato. Personalmente sono contento che Gheddafi sia venuto in Italia e manifesti con questo la sua intenzione di continuare in una linea moderata e non estremista.

Piero Gheddo

«Sposare una ragazza iraniana?»

Questo tema del matrimonio fra cristiani e musulmani l’ho già trattato nei Blog del 6 gennaio, 31 marzo, 3 maggio. Questa volta si tratta del matrimonio fra un giovane italiano e una ragazza iraniana. Ecco la lettera:

Gentilissimo Padre Piero Gheddo, sono un Ragazzo Italiano credente Cristiano, credo di essermi innamorato di una Ragazza Musulmana Iraniana…lei adesso vive in Italia per studio…..non credo di essermi preso una cotta da adolescente, anke perkè tale piu’ non sono….ma le voglio qualcosa di piu’ di un semplice ‘bene’….non voglio kiederle di prevedermi il futuro..altrimenti nn direi di essere Cattolico, ma vorrei un consiglio su un futuro legame con lei, partendo dal presupposto ke lei proviene da una famiglia per bene. Grazie.
Mauro.

Carissimo Mauro, grazie di avermi scritto per un consiglio sul tuo caso. Ti rispondo con una breve riflessione sul matrimonio, come lo intende il Vangelo, la Chiesa e noi cristiani. E’ l’unione d’un uomo e di una donna per creare una famiglia, avere dei figli, educarli, formare una piccola comunità di vita dove regni l’amore, l’aiuto vicendevole, dove i più piccoli e i più sfortunati ricevano maggiori attenzioni; insomma, dove ci sia una totale comunicazione di sentimenti, propositi, risorse, progetti. Gesù intendeva così il matrimonio, fino a dire che i due sposi “non sono più due ma una carne sola” (Matteo 19, 6). Espressione fortissima che indica la piena comunione di due sposi uniti nel Sacramento del matrimonio.

Ora, questa profonda unione e comunione di due giovani sposi deve partire da una base umana non troppo dissimile, non troppo diversa. Un proverbio frutto di saggezza popolare diceva: “Moglie e buoi dei paesi tuoi”. Ora dimmi con sincerità. Com’è possibile che questa perfetta e profonda unione e comunione di due vite si possa raggiungere partendo da due religioni e culture così abissalmente lontane come cristianesimo e islam?

Non dubito che la tua cara ragazza venga da “una famiglia per bene” e che vi vogliate bene davvero. Ma tutto questo, secondo me e la mia esperienza, non basta a fondare un vero matrimonio, se le basi umane da cui partite sono troppo distanti. All’inizio tutto può sembrare bello, ma le difficoltà vengono dopo, man mano che il tempo passa e la passione iniziale fisica e sentimentale certamente non è più travolgente. E’ inevitabile, capita a tutte le coppie. Poi quando nascono i figli e si devono educare, la famiglia ha delle difficoltà, tra marito e moglie possono esserci delle divergenze, ma tutto si ricompone quando alla base c’è un amore vero e profondo come ho detto prima. Altrimenti si inizia il triste cammino che porta poi fuori strada. E questo può venire anche se la tua ragazza è una iraniana musulmana “che adesso vive in Italia per motivi di studio”. Va bene, e dopo?  Vorrà tornare in Iran? E se rimane con te vorrà andare a trovare i parenti e gli amici, portare a vedere i figli? E come educherà i figli, nel Corano o nel Vangelo?

Caro Mauro, non insisto perché la conclusione mi pare logica e, credimi, l’ ho sperimentata diverse volte. Questo matrimonio è sconsigliabile. Anche per due altri motivi molto forti e dirimenti:
1) Primo. Sei sicuro che tu, cristiano, puoi sposare una musulmana senza convertirti all’islam? Ti sei informato che questo è assolutamente sicuro? Guarda che normalmente, la famiglia e la comunità della donna islamica pretendono che il cristiano che vuole sposarla si converta all’islam. Se non lo fa, non danno il permesso. E se la ragazza ti sposa lo stesso, correte ambedue grossi pericoli. Nei paesi dell’islam, persino in un paese evoluto e laico come la Tunisia, la legge permette il matrimonio tra un musulmano e una cristiana, ma proibisce il matrimonio tra un cristiano ed una musulmana, a meno che l’uomo non si converta all’islam prima del matrimonio. In caso contrario, il matrimonio è considerato nullo, anche se contratto validamente in paesi non islamici come l’Italia. Com’è la legislazione in Iran?

2) Secondo. L’ho già detto e lo ripeto. Tu non sposi una donna, sposi una grande famiglia (con molti cugini, nipoti, zii, parenti di vario genere), sposi una comunità islamica (la “umma”), sposi una tradizione, costumi e leggi tradizionali sul matrimonio, che sono diversissimi da quelli del matrimonio in un paese cristiano. Comunque, prima di fare un passo di cui potresti pentirti mille volte, fa un viaggio in Iran con la tua ragazza, renditi conto della situazione, se quel che ti ho detto è vero o no, chiedi di vedere la legislazione vigente per i matrimoni tra un cristiano e una musulmana, se mai rivolgendoti all’ambasciata italiana perché ti aiuti a capire la situazione. Ciao, io vi ricordo tutti e due nelle mie preghiere. Dio vi illumini e anche voi pregate per conoscere la volontà di Dio che vuol bene a tutti e due. E se capite che non potete sposarvi, separatevi subito, da buoni amici ma nient’altro. Ci sono nella vita decisioni difficili, ma bisogna avere il coraggio di prenderle, quando si capisce che sono inevitabili.

Tuo padre Piero Gheddo

Il giornalismo-spazzatura trionfa

E’ triste, per un anziano prete-giornalista come il sottoscritto, vedere la decadenza dei giornali e delle televisioni, sempre più immagine dello sfacelo morale e religioso della nostra società. Giustamente domenica scorsa 31 maggio, celebrando la festa di Pentecoste in San Pietro, Benedetto XVI ha detto: “Quello che l’aria è per la vita biologica, lo Spirito Santo è per la vita spirituale. E come esiste un inquinamento atmosferico che avvelena l’ambiente e gli esseri viventi,  così esiste un inquinamento del cuore e dello spirito che mortifica ed avvelena l’esistenza spirituale”. Ed ha aggiunto: “Nelle nostre società circolano tanti prodotti che avvelenano la mente e il cuore, ad esempio immagini che spettacolarizzano il piacere, la violenza e il disprezzo per l’uomo e la donna e a tutto questo ci si abitua senza difficoltà”.

Naturalmente, quando il Papa pronunzia questi richiami, e non è la prima volta, tutti i mass media si affrettano a dire che sono d’accordo e lamentano la decadenza dei costumi, dei giovani, delle famiglie, ma poi sono proprio i giornali e le televisioni che educano il popolo e le giovani generazioni ad una visione fallace, ingannevole della vita. Ad esempio, negli ultimi tempi, l’insistenza su veline e minorenni, su malcostumi privati e pubblici, su lettere di affetto maliziosamente interpretate come espressione di un amore indebito fra una giovane polacca e Papa Giovanni Paolo II da giovane studente e lavoratore. Pagine e pagine su gossip e foto rubate alla “privacy”, ipotesi e ricostruzioni fantasiose che finiscono inevitabilmente per far supporre fatti di sesso: insomma, c’è tutto l’armamentario per quell’inquinamento dello spirito che il Papa denunzia. Eppure i “grandi giornali” ci guazzano dentro per giorni e giorni, trascurando poi tutte quelle notizie internazionali e nazionali che sarebbero molto più utili ai lettori. Il culmine l’ha raggiunto “La Stampa” di Torino, che domenica 31 maggio e lunedì 1° giugno ha pubblicato due pagine ogni giorno sul Papa e la polacca sua amica dai lontani tempi della giovinezza, Wanda Poltawska, con foto e lettere, ipotesi e commenti. Non parliamo nemmeno di tutto il bailamme che ancora continua (da almeno 15 giorni) attorno alla storia delle veline, della povera Noemi, delle feste nella villa in Sardegna del nostro primo Ministro! Ogni giorno un capitolo nuovo. E si potrebbe andare avanti perché gli esempi sono infiniti.

Mi chiedo: ma tutto questo non è “un inquinamento del cuore e dello spirito che mortifica ed avvelena l’esistenza spirituale”? Perché applaudire il Papa quando condanna questa “spettacolarizzazione” del mal costume e poi fondare la logica del giornale su tutto quello che fa vendere il prodotto? Il male di questo giornalismo-spazzatura è antico, ma oggi ha raggiunto, anche nei “grandi” giornali, una misura insopportabile. Mi viene in mente Vittorio Messori che racconta di quando, negli anni sessanta del Novecento, era giovane redattore a “La Stampa” per la cronaca di Torino. Il suo capo-redattore, quando in città c’era un crimine con morti e sangue, stappava una bottiglia di spumante e brindava assieme ai suoi redattori, dicendo loro di raccontare i particolari più orridi e pruriginosi, perché, aggiungeva: “Domani venderemo più copie del giornale”.

Eppure, i “grandi” giornali tutti li comperano, il quotidiano cattolico “Avvenire”, che servizi sulla Chiesa e la vita cristiana e corrispondenze internazionali ne ha più degli altri, lo leggiamo in pochi. L’inquinamento atmosferico preoccupa tutti, si protesta, se ne parla, si prendono provvedimenti; l’inquinamento morale e religioso non preoccupa quasi nessuno. Poi, se il Papa denunzia questo, tutti d’accordo.

Piero Gheddo

Vangelo e sviluppo dei popoli

Il sabato 23 maggio 2009 l’ho trascorso a Grosseto, per un intervento al 37° Congresso distrettuale annuale che i Rotary Club di Toscana, Emilia e San Marino hanno tenuto in questo meraviglioso Hotel-Fattoria “La principina”, quasi in riva al mare, con mille stanze, immerso nella natura della Maremma ancora intatta, con bufali, tori con le corna ricurve, vacche lattifere, greggi di pecore e di capre, butteri che cavalcano nella campagna tra campi, pascoli, macchie di vegetazione e boschetti. E poi il famoso “cavallo maremmano”, oggi impiegato per lo sport, che sconsigliano ai turisti di cavalcare. La presenza umana come un’isola nel vasto mare della natura di una terra aspra, dai forti contrasti, un secolo fa ancora spopolata dalle paludi e dalla malaria, briganti e fuoriusciti in questa zona di confine fra il granducato di Toscana e lo stato pontificio. Raccontano che Domenico Tiburzi fu l’ultimo dei grandi briganti, una figura ancora popolare sulla quale si tramandano aneddoti e avventure, ucciso nel 1896.

La Maremma è oggi uno dei luoghi di agro-turismo più frequentati da chi vuol fare un periodo o anche alcuni giorni di silenzio e di immersione nella pace di un mondo antico che abbiamo ormai dimenticato (la terra degli Etruschi e dei Volsci)x. Ero arrivato il giorno prima da Roma in auto, ho potuto visitare la campagna e una fattoria maremmana nel pomeriggio e di sera al tramonto del sole, in un cielo infuocato di nubi dai vari colori.

Ho trascorso una serata e un giorno a Grosseto, che ricorderò con piacere. Soprattutto perché il tema sul quale ero invitato a parlare a più di 200 rotariani mi capita sempre meno di trattare anche in parrocchie e ambienti cattolici: “Le esperienze dei missionari nella lotta contro la fame nel mondo”. La due giorni era appunto dedicata a “La fame nel mondo” e hanno parlato anche altri relatori: Federico Vecchioni sull’Agricoltura come antidoto alla recessione mondiale, Antonio Sclavi presidente nazionale dell’Unicef su Le condizioni dei bambini nei paesi in via di sviluppo e Federico Mazza sui programmi annuali di sviluppo che i Rotary di Toscana-Emila e San Marino sostengono nel mondo intero, non solo con finanziamenti e invio di materiali, ma anche di volontari. Debbo dire che sono rimasto ammirato nel vedere illustrati i vari progetti in molti diversi poveri: Madagascar, Etiopia, Eritrea, Bangladesh, India, Perù e altri, in buona parte affidati a missionari italiani.

Nel mio intervento ho parlato di “Vangelo e sviluppo dei popoli”, di cui parlerò in altri Blog, partendo da questo interrogativo: perché i missionari creano uno sviluppo che dura nel tempo? Perché con scarsi mezzi ottengono buoni risultati? Ho risposto sviluppando tre punti:

1) I missionari portano ai popoli Gesù Cristo, il Vangelo, rivelazione di Dio all’uomo, che rivoluziona in profondità le coscienze, le famiglie, le società, le culture dei popoli. Quali sono i valori che non si trovano fuori del Vangelo e in altre culture.     Lo sviluppo dell’umanità e del mondo moderno ha alla sua radice i valori della Bibbia e del Vangelo.

2) Lo sviluppo anche economico di un popolo viene anzitutto dall’educazione, dalla formazione dell’uomo, prima che dai soldi e dalle macchine. Questi sono necessari, ma se un popolo e una cultura non sono preparati ad usarli, lo sviluppo non è duraturo. E’ l’uomo il protagonista dello sviluppo non i sussidi e gli aiuti materiali.

3) I missionari producono sviluppo perché si inseriscono in un popolo con amore, per condividere la sua vita, affrontando sacrifici e rinunzie. Diventano amici aiutando i più poveri ed educano. Così pure le prime comunità cristiane danno esempi di vita diversa da quella tradizionale e non lasciano indifferenti. Sono ammirate o perseguitate perché portano la rivoluzione autentica del Vangelo, che cambia il cuore dell’uomo per cambiare la società e i costumi, rendendoli più umani.

Al termine ho proposto un Quaderno che mi ha pubblicato la rivista ”Il Timone”, intitolato “Vangelo e sviluppo dei popoli”, che documenta quanto ho detto (6 Euro). Ne ho vendute 42 copie e mi inviteranno ancora a parlare su questo e altri temi nei singoli Rotary. Chi desidera acquistare il Quaderno può rivolgersi ad una Libreria cattolica, al Timone o alla mia segretaria a Milano, suor Franca Nava, Pime, Via Monterosa, 81, Milano – Tel. 02.43.82.01.

Piero Gheddo