Il 17 ottobre padre Fausto Tentorio è stato assassinato davanti alla chiesa parrocchiale di Arakan nelle Filippine. L’assassino si è avvicinato a lui e lo ha ucciso con due colpi di pistola alla testa. Non si conosce ancora l’autore né il movente dell’uccisione. Il killer portava il casco ed era impossibile vederlo in viso. Dopo l’assassinio, si è allontanato su una motocicletta.
Padre Tentorio, missionario del Pime da oltre 32 anni nelle Filippine, lavorava nell’isola di Mindanao fra i tribali “manobo”, una etnia minacciata di estinzione dall’esproprio delle loro terre e anche dalle trivellazioni di compagnie minerarie nel loro territorio: è il terzo martire del Pime a Mindanao:
– l’11 aprile 1985 p. Tullio Favali è ucciso a Tulunan, nella diocesi di Kidapawan, da un gruppo paramilitare di aiuto all’esercito contro la guerriglia dei “maoisti” (New People’s Army);
– il 20 maggio 1992, p. Salvatore Carzedda, impegnato nel “Silsilah”, organismo per il dialogo con i musulmani, ucciso a Zamboanga;
– due altri missionari del Pime a Mindanao rapiti da guerriglieri musulmani e liberati dopo due mesi di cattività: nel 1998 p. Luciano Benedetti e nel 2007 p. Giancarlo Bossi;
– altri due del Pime a Mindanao hanno dovuto tornare in Italia perché minacciati di morte o di rapimento: Sebastiano D’Ambra (il fondatore di “Silsilah”, che era mediatore tra guerriglieri musulmani e governo a Siocon, poi tornato nelle Filippine anni dopo) e Paolo Nicelli (condannato a morte dalla “fatwa” di un imam per il suo volume sulla storia dell’islam nelle Filippine).
Mindanao, il Far West delle Filippine
Le Filippine sono l’unico paese cattolico dell’Asia, l’85% dei 90 milioni di filippini sono cattolici. Nel nord e nel centro c’è una lunga tradizione di Vangelo, mentre nell’isola di Mindanao sono numerosi i musulmani e i tribali animisti. Il Pime è giunto nelle Filippine nel 1968 e assume una parrocchia a Manila fra i baraccati di Tondo (allora la più estesa baraccopoli dell’Asia) e un’altra nella diocesi di San Pablo. Nel 1969 la scelta “missionaria” dell’isola di Mindanao, il “Far West” delle Filippine. Un’isola ricca di terre, di risorse minerarie e forestali e incantevoli prospettive turistiche, che fino al 1960 era poco abitata; poi, negli anni sessanta e settanta, il presidente Marcos ha presentato Mindanao come la “terra promessa”, favorendo e sostenendo la gente del Nord ad emigrare verso il Sud. Ma Mindanao era già occupata dai musulmani, da tribali di molte etnie e da contadini cattolici, convertiti dal tempo della colonizzazione spagnola (1571-1899). Gli immigrati dal Nord, più evoluti e sostenuti dal governo e dall’esercito, hanno occupato le terre e i posti migliori, venendo in contrasto con i tribali (in buona parte ancora animisti) e fomentando il separatismo islamico, al quale si sono aggiunti i guerriglieri maoisti: a Mindanao, la vita umana vale proprio poco. Il Pime ha scelto di andarci proprio per queste situazioni “missionarie”.
Boom economico e “guerra delle terre”
Erano gli anni del «boom» economico anche per le Filippine, dal 1965 guidate da un capo giovane, popolare, carismatico. La «Nuova società», che Ferdinando Marcos prometteva, proiettava il paese sulla via tracciata da Kennedy e da Johnson negli Stati Uniti, facendo delle Filippine una grande e potente nazione. Dal nord del paese (dalle isole di Luzon, Samar, Mindoro, Panay, Negros) si crea un movimento di popolo contadino verso Mindanao. Entrano anche le compagnie per il legname, deforestando vaste regioni e riducendo le terre disponibili.
Nasce la «guerra per le terre» che dilaga rapidamente dopo il 1972 a causa della legge marziale che favorisce la guerriglia maoista del «New People’s Army» (nuovo esercito del popolo) e la guerriglia separatista dei musulmani. Marcos, che aveva suscitato grandi speranze ed eletto democraticamente nel 1965 e nel 1969, ha fallito per la grande corruzione del regime, l’inefficienza dei poteri statali, lo scoppio delle due guerriglie, comunista e islamica. Negli anni ottanta, quando il Pime entra a Kidapawan, la gente dei villaggi vive nel terrore per i casi comuni di violenze. La Chiesa non si è mai schierata a priori con una parte o l’altra. La Conferenza episcopale filippina fonda la «Episcopal Commission for Tribal Philipino» e la «Task Force Detainees» (molti venivano arrestati senza «Warrant of Arrest ») e subito denunzia che le maggiori difficoltà ai tribali le hanno causate i cattolici immigrati da altre parti del paese, per coltivare nuove terre che appartenevano ai tribali.
La Chiesa a Kidapawan fra «Ilaga» e «Barracuda»
Mettendosi nel 1980 a servizio del vescovo gesuita di Kidapawan mons. Federico Escaler, i missionari del Pime vengono mandati a Tulunan, a Columbio e nella valle di Arakan, dove incontrano situazioni tragiche di violenza e tentano di realizzare una pastorale di difesa della giustizia e dell’uomo. «A Tulunan –mi diceva padre Pietro Geremia nel 1985 – si parla di guerra fra cristiani e musulmani, ma la gente dice che non c’è mai stata inimicizia. Il problema è politico ed economico, non religioso. Comunque la guerra è stata feroce, crudele, ha spopolato la regione. Nel 1980, quando sono arrivato io, la parrocchia era abbandonata e non c’erano più case, tutte distrutte, bruciate. In quel periodo vengono fondati a Tulunan gli ‘‘Ilaga’’: per questo la nostra zona è considerata la più pericolosa della diocesi di Kidapawan. ‘‘Ilaga’’ significa topo: gruppi di persone che si armano contro i musulmani, i quali uccidono i cristiani come topi. All’inizio gli ‘‘Ilaga’’ sembravano positivi, perché i musulmani, più forti e più armati, umiliavano e schiacciavano i cristiani. Gli ‘‘Ilaga’’ difendevano i villaggi e le terre dei cristiani contro i “Barracuda” (squali), ma poi alcuni gruppi hanno commesso atrocità, torture e atti di cannibalismo, per farsi credere coraggiosi. Questi gruppi, sostenuti dall’esercito, sono diventati sempre più criminali e incontrollabili”.
La Chiesa di Kidapawan ha sviluppato una «pastorale di educazione alla giustizia e alla pace», specialmente attraverso le Gkk («Gagmayng Kristohanong Katilingban»), le piccole comunità cristiane di cui i missionari del Pime sono stati tra i fondatori e animatori più impegnati: lettura della Bibbia, preghiera comunitaria, evangelizzazione, azione caritativa e sociale. Da queste Gkk sono nati gli agenti di pastorale e i capi cristiani che hanno cambiato il volto della Chiesa locale con il loro impegno in difesa dell’uomo, che dava fastidio anche perché venivano accusati di essere contigui ai guerriglieri maoisti. Da questa situazione nasce il martirio di padre Tullio Favali (11 aprile 1985). In tutte le Filippine, padre Tullio è comparso riverso nel suo sangue sui manifesti stampati dalla Chiesa filippina con il titolo: «How many more?» (quanti ancora?), diventando il simbolo e lo slogan della resistenza popolare non violenta al regime di Marcos. Meno di un anno dopo, il 26 febbraio 1986, la «rivoluzione del rosario e dei fiori», che la morte di Tullio Favali aveva contribuito a promuovere nel popolo credente, ha sbalzato il dittatore Marcos dal potere senza spargimento di sangue. Se si fosse fatta allora la Causa di beatificazione, sarebbe già Beato da parecchi anni!
“Tutto accetto con fiducia dalle mani di Dio”
Oggi il Pime lavora in dieci diocesi delle Filippine, sei delle quali a Mindanao: Manila, Zamboanga, Ipil, Pagadian, Dipolog, Imus, Kidapawan, Paranaque, San José de Antique e San José in Mindoro. P. Tentorio, nato nel 1952 a S. Maria di Rovagnate (Lecco), entrato nel Pime dal seminario diocesano di Milano, lavorava da tempo fra i tribali della diocesi, vivendo poveramente con loro. La sua evangelizzazione comprendeva l’impegno per garantire sopravvivenza e diritti a queste popolazioni marginalizzate.
P. Giovanni Vettoretto, viceparroco di p. Tentorio, racconta: “Dal 17 ottobre, arrivano almeno 2mila persone al giorno per rendere omaggio a p. Fausto. Giungono anche politici, senatori, deputati e media, ma soprattutto la gente che lui ha aiutato in questi anni. Vi sono persone che affrontano il viaggio partendo anche all’una di notte, per arrivare qui dopo 5 o perfino 12 ore di viaggio, fra strade inesistenti, autobus di linea o mezzi di fortuna”. Per oltre trent’anni, p. Fausto è stato per i tribali un padre (affettuosamente lo chiamavano Tatay Pops), un fratello, un mentore e un amico, in modo disinteressato si è identificato con essi nella loro vita e cultura. Era veramente uno di loro con loro.
In un documento che p. Fausto ha inviato ai superiori scriveva: “Riconoscente a Dio per il grande dono della vocazione missionaria, sono cosciente che essa comporta la possibilità di trovarmi coinvolto in situazioni di grave rischio per la mia salute ed incolumità personale, a causa di epidemie, rapimenti, assalti e guerre, fino all’eventualità di una morte violenta. Tutto accetto con fiducia dalle mani di Dio, e offro la mia vita per Cristo e la diffusione del suo Regno”.
Piero Gheddo