L'eterno riposo per Lucio Magri

                                   
     

 

     Leggo sui giornali “la scelta cosciente di
darsi la morte” di Lucio Magri, uno dei fondatori del “Manifesto” nel 1969, che
è andato da Roma in Svizzera per poter realizzare la sua “morte assistita” in
modo legale. Soffriva di “un depressione vera, incurabile. Un lento scivolare
nel buio provocato da un intreccio di ragioni pubbliche e private”. Aveva 79
anni. Ho pregato per lui: “L’eterno riposo dona a Lucio Magri, o Signore,
splenda a lui la luce perpetua, riposi in pace. Amen”.

    Ho brevemente conosciuto questo personaggio
politico allora già famoso nella prima metà degli anni Settanta, in un
dibattito all’Università statale di Milano, ricavandone un’impressione sostanzialmente
positiva. Naturalmente non eravamo d’accordo sui rimedi alla miseria e alla
fame di miliardi di uomini, ma ho ammirato la sua passione per la povera gente,
la volontà espressa di dare tutta la sua vita per la realizzazione dei grandi
ideali di giustizia e di eguaglianza che Mao Tze Tung esprimeva in quegli anni nella
sua “Rivoluzione culturale” e nel suo “Libretto Rosso”, che avevo da poco letto
nel primo viaggio fatto in Cina (aprile-maggio 1973). Magri aveva anche manifestato
la sua ammirazione per i missionari e la loro opera di carità e di vita con i
poveri. Il che mi aveva confortato e incoraggiato, in quell’ambiente
sessantottino certo non ben disposto verso un prete che si presentava col suo colletto
bianco e parlava dell’opera della  Chiesa
nel “terzo mondo” per portare il Vangelo, la vera soluzione alla miseria e alla
fame nel mondo.

     Ma allora, povero e caro Lucio, perché
questo “scivolare nel buio” di una morte prematura, quando potevi ancora fare
tanto per i poveri di tutto il mondo? La Repubblica scrive: “Magri voleva
volare alto… ucciso da un’ambizione troppo grande…voleva cambiare il mondo e il
mondo, negli ultimi anni gli appariva insopportabile smentita della sua utopia,
il segno intollerabile di un fallimento, la constatazione amarissima della
separazione tra sé e la realtà. Così le ali ha deciso di tagliarsele da sé, ma
evitando agli amici lo spettacolo del sangue sul selciato”.

     Il fallimento di un’utopia è evidente. Ma
perchè il fallimento di una persona che nutriva sinceramente grandi ideali di
bene, di giustizia, di pace, e veniva dal mondo cattolico bergamasco? La
risposta l’ha data in quegli anni Paolo VI nel messaggio del Natale 1969: “I
più grandi valori umani
disgiunti
da Cristo diventano facilmente disvalori”. Sentenza non facile da capire, ma la
storia dell’uomo e dei popoli ne dimostrano la verità ogni giorno.              Piero Gheddo

Speranza, ottimismo e gioia nel beato Clemente

 

  

     L’amico Massimo mi scrive: “Leggo la
bella biografia di padre Clemente: mi sono commosso parecchie volte, le vicende
di questo Beato raccontate nei suoi scritti toccano il cuore. Però le chiedo: cosa
insegna a me, padre di famiglia e impegnato a fondo nel mio lavoro, la vita di
padre Vismara? Mi ha dato alcune ore di serenità, di avventura, di poesia; ho
imparato da lui l’amore agli altri, la dedizione e il sacrificio, lo spirito di
preghiera. Ma la mia vita è così diversa e lontana dalla sua…”.

    Caro
amico, il Beato Clemente insegna a noi tutti almeno una cosa: dobbiamo vivere
la nostra vita, qualunque essa sia, non guardandola con occhi umani, ma con gli
occhi di Dio. Allora troviamo forza, serenità, gioia, coraggio, ottimismo.
Vismara viveva di fede e questo trasfigurava la realtà nella quale ha passato
65 anni. Per lui tutto era poetico e gioioso, mentre in realtà era banale e a volte
disumana. Il popolo tribale poverissimo e “primitivo” per il quale ha dato
tutta la vita avrebbe potuto renderlo pessimista, arido, triste. Invece
Clemente potrebbe essere definito “il santo della gioia”, trasmetteva la gioia di
vivere e la speranza di un futuro migliore.

     Il suo ottimismo, che veniva dalla fede e
dalla molta preghiera, gli ha dato il coraggio e la forza di trasformare il suo
popolo. Quando sono andato a trovarlo nel febbraio 1983, aveva 86 anni ed era
ancora parroco a Mong Ping, con un giovane coadiutore birmano del quale diceva
solo bene. Gli ho chiesto se era contento dei suoi cristiani e mi risponde: “Contentissimo!
Vorrei tanto che voi in Italia prendeste esempio da loro: dalla loro fedeltà
alla preghiera, alla Chiesa e ai Comandamenti di Dio, all’amore del prossimo.
Danno buon esempio anche a me… Io sono convinto che, quando tornerà la pace, su
queste montagne e tra queste foreste vi sarà una primavera cristiana che
stupirà il mondo. Spero di esserci ancora a quel tempo”.

 

     Ecco l’ottimismo di  Clemente Vismara, che non corrispondeva alla
realtà dei fatti visti con gli occhi umani (come la vedevo io), ma certamente
corrispondeva alla visione che Dio aveva di quel popolo. Clemente non era assolutamente
un ingenuo, ma era un “santo” e anche attraverso la sua dedizione e il suo
esempio, oggi abbiamo una Chiesa birmana, nata dagli “ultimi”, oggi veramente esemplare.
Se Clemente fosse stato scoraggiato e pessimista, avrebbe combinato poco o nulla.
Era entusiasta della sua vocazione e i risultati oggi si vedono.

    Per questo, quando parlo sul tema
missionario, dico sempre che il primo dono da fare ai missionari non sono i
soldi, ma la preghiera. I soldi ci vogliono, ma vengono dopo: prima serve la
preghiera. Per un motivo molto semplice: la vita missionaria è fondata sulla
fede. Se il missionario vive di fede, la sua vita è bellissima; quando invece
la fede si indebolisce, anche la vita missionaria diventa difficile, insulsa,
insopportabile. Ma questo, caro amico, vale non solo per i missionari: vale per
tutti i cristiani! Le nostre vite sono tutte difficili, diventano belle ed
entusiasmanti solo se viste con gli occhi di Dio.

    La biografia di Clemente, spogliata dei
toni epici e avventurosi, mette bene in risalto che questo santo missionario
viveva in una realtà miserabile: isolamento, mancanza di ogni comodità,
villaggi di paglia e fango, guerriglia, briganti, orfani, vedove, lebbrosi,
oppiomani, miseria, fame, ignoranza, malattie epidemiche… Non solo, ma le sue
lettere (ne abbiamo raccolte ormai più di duemila!), sono in fondo ripetitive
quanto mai. Parla sempre di orfani, sacchi di riso, capanne in cui piove
dentro, cavalli, foreste, malattie, guerre, feste (“festoni” diceva
lui, per indicare che erano feste grandi) di povera gente affamata, nelle quali
si ammazzava un bue, due maiali e cinque capre e alla fine della festa
“non si avanzava manco la coda”. Perchè fare festa là vuol dire
soprattutto mangiare a crepapelle.

    Perchè queste lettere divertono, piacciono
a decenni di distanza? Perchè dicono cose interessanti? Nemmeno per sogno.
Perchè ci vedi dietro un uomo realizzato, felice pur in una situazione
miserabile.

    Cosa insegna la vita di padre Clemente? Se
noi fossimo capaci, come lui, di trasfigurare con la fede le nostre giornate, i
nostri problemi e le nostre sventure, saremmo le persone più felici di questo
mondo. Perchè, oggettivamente, viviamo in condizioni cento volte migliori delle
sue. Ci manca la fede. O meglio, non ne abbiamo abbastanza. E’ un dono che
dobbiamo chiedere a Dio, per intercessione del beato Clemente Vismara.  

 

                                               
Padre Piero Gheddo

 

La giornata di un ragazzo manobo

La vita del missionario del Pime padre Fausto Tentorio (martirizzato il 17 ottobre scorso nell’isola di Mindanao, Filippine), è ben ambientata da questo articolo scritto da lui stesso e pubblicato dal bollettino “Mondo e Dintorni” (del “Laboratorio missionario” di Lecco) nel dicembre 2001. Un testo fortemente significativo dell’ambiente in cui padre Fausto ha vissuto i suoi trent’anni di missione fra i tribali “Manobo”. Si può leggere anche nelle scuole ai nostri ragazzi, per dar loro l’idea di quanto essi sono tra i giovani più privilegiati dall’umanità. L’11 novembre 2011 padre Fausto ha ricevuto la Medaglia d’Oro alla Memoria dalla Regione Lombardia. Piero Gheddo

Vi racconto un giorno di scuola di un bambino Manobo, nel corso del loro anno scolastico che dura ben 10 mesi, dall’inizio di giugno alla fine di marzo, esclusi il sabato e la domenica.

La giornata inizia presto, la sveglia solitamente è al canto dei galli, dalle 4 alle 5, dipende da quanti km. devono fare a piedi per raggiungere la scuola. Appena svegli, prima di alzarsi, si stiracchiano per vincere il freddo che passa dalle pareti della capanna, fatta di bambù intrecciato. Buttano da parte uno straccetto che è servito da coperta e si alzano dal giaciglio di paglia.

In piedi continuano lo stiracchiamento, arrotolano la stuoia sulla quale hanno dormito, spesse volte rosicchiata dai topi (sì, perché i topi sono di casa nelle loro campagne), e la ripongono sul pavimento rialzato di canne di bambù dove hanno dormito

In piedi tra il chiaro e lo scuro (solitamente albeggia tra le 5.30 e le 6) cominciano a sbrigare alcune faccende di casa. Se è una bambina aiuta la mamma ad accendere il fuoco, pulire per terra, preparare da mangiare o accudire i fratellini più piccoli. Se è un bambino aiuta il papà a prendere la legna, l’acqua, e a portare al pascolo gli animali – bufali, cavalli, capre – se ne hanno.

Sbrigate queste piccole faccende, vanno alla sorgente o al fiume a lavarsi. Solitamente niente sapone: prendono un sasso ruvido e lo strofinano sulla pelle cercando di togliere lo sporco. Si lavano i propri vestiti con l’acqua, in genere senza sapone nè detersivo, li strizzano e poi se li rimettono a dosso .

Tornati a casa, si preparano per la scuola. Tolgono i vestiti bagnati e li stendono: saranno asciutti per il pomeriggio. Si mettono la divisa della scuola e guardano se la mamma ha cucinato qualcosa per colazione. Se c’è, solitamente si tratta di patate dolci bollite, altrimenti preparano il cibo da portare a scuola per il pranzo: granoturco macinato grosso o riso bollito. Raramente hanno qualcosa come companatico (pesce secco o salato, mezzo uovo bollito o anche solo sale). Il tutto viene trasportato avvolto in una foglia di banano.

Quindi preparano lo zainetto, o una borsetta di plastica, inserendo l’involto con il cibo, un quaderno, una penna e una matita. Ora sono pronti per partire dalle sei o dalle sette, dipende quanto sono lontani dalla scuola, e si chiamano a vicenda mentre passano davanti alle capanne degli altri bambini. Vanno a scuola in gruppo, a piedi nudi con le scarpe in mano per evitare che si consumino, su e giù per le colline attraversando torrenti senza ponti, sotto il sole o la pioggia, tra la polvere e il fango, percorrendo spesso fino a 6 Km.

Arrivati a scuola, con una mano si asciugano il sudore, si mettono in fila per l’alza bandiera e l’inno nazionale. Sono le 7.15. Dopo l’Inno nazionale si fa una decina di minuti di ginnastica ( dopo aver fatto magari 5-6 km. a piedi), si pulisce il giardino della scuola e le aule, dopo di che, verso le 8, tutti dentro. Ciascuno ha la sua sedia- banco che si è dovuto fare e portare da casa all’inizio dell’anno scolastico. In un’aula di circa 50 metri quadrati ci devono stare 50 bambini e più. Alcuni, quelli che ancora non si sono fatti la sedia, rimangono seduti per terra.

Le lezioni si svolgono in tagalog, la lingua nazionale, o nel dialetto delle maestre (sebuano o ilongo) con qualche frase ogni tanto in inglese. Comunque per i bambini Manobo tutte queste lingue sono straniere, come sono stranieri i loro compagni non Manobo. Per questo i primi mesi di scuola sono veramente duri: si sentono proprio come pesci fuori d’acqua. Se riescono a resistere c’è possibilità che continuino la scuola, altrimenti smettono di andarci e poi è difficile che riprendano. In ogni modo le maestre quasi sempre seguono solo i più interessati.

Alle 9.45 ci si ferma per 15 minuti, i bambini escono dalla scuola per respirare un po’ d’ aria. Chi non ha fatto colazione inizia a sentir brontolare lo stomaco e non resiste alla tentazione di aprire il fagottino del cibo portato da casa, incominciando a pranzare. Poi a mezzogiorno si vedrà. Alle 10 si ritorna in classe fino alle 11.30. La sosta del mezzogiorno è più lunga, va dalle 11.30 fino all’una del pomeriggio. La parte più importante è il pranzo (per chi non l’ha mangiato prima) che viene consumato al massimo in 10 minuti. Il resto del tempo i ragazzi dormicchiano sotto qualche albero o giocano.

All’una si ritorna in classe. Il pomeriggio è la parte più dura. Il sonno incomincia a farsi sentire specialmente per quelli che si sono svegliati alle 4.30. Approfittando di un altro breve riposo, alle due e mezzo, i bambini scrutano che tempo fa. Se non promette bene e abitano lontano o hanno fiumi da attraversare, prendono lo zainetto, le scarpe in mano e, molte volte senza dir nulla alla maestra, via a casa sperando di non trovare qualche fiume in piena. Altrimenti, se il tempo è buono rimangono a scuola fino alle quattro.

Tornati a casa mettono lo zainetto al sicuro dei topi, si tolgono la divisa, si rimettono i vestiti che avevano lavato la mattina e nascondono le scarpe in un cantuccio della capanna, sperando che non vengano portati in giro per il villaggio dal cane.

Dopo essersi riposati un po’, riprendono i lavori domestici. Le bambine aiutano la mamma ha preparare la cena e accudiscono i fratellini più piccoli. I bambini aiutano il padre a sistemare gli animali, prendere l’acqua e la legna. Compiti scolastici a casa?….neanche parlarne! Verso le sei, quando incomincia a fare buio, si mangia: patate dolci, riso o granoturco bollito. Se c’è un po’ di verdura e pesce salato. La carne è un lusso . Verso le sette è ormai buio. Si stende la stuoia sulla paglia e tutti a letto. Molte volte i bambini tornano tardi da scuola e si addormentano sul pavimento saltando la cena.

Questa è la vita dei bambini Manobo. Cosa vogliono? Cosa sperano? A volte è difficile capirlo anche per loro. Non hanno molte possibilità di scelta, però pian piano si stanno convincendo che è importante studiare, saper leggere e scrivere, imparare la lingua, e soprattutto inserirsi nella società. Chi si chiude in se stesso è perduto.

Un compito difficile per un bambino, ma con il vostro aiuto speriamo che abbiano un futuro più roseo.

Fausto Tentorio

Perchè il Vangelo è motore di sviluppo?

            

     Dall’inizio di novembre è in libreria il volume “Meno male che Cristo c’è” (Editrice Lindau, Torino, pagg. 330), scritto in collaborazione con Gerolamo Fazzini, che mi ha provocato con le sue domande. La tesi è nel sottotitolo: ”Vangelo, sviluppo e felicità dell’uomo”, come sostengo da almeno 50 anni. Negli anni sessanta e poi in seguito, visitando le missioni in paesi poveri, sentivo spesso ripetere da missionari, fratelli e suore: “Qui ci vorrebbe il Vangelo” e mi spiegavano perché. Il beato Clemente Vismara scriveva: “Qui c’è da rifare tutto l’uomo”.

      Tornando poi in Italia, scoprivo che la tesi dominante era l’opposto. La responsabilità della miseria imperante fra i diseredati della terra era quasi tutta attribuita all’Occidente cristiano: colonizzazione, multinazionali, rapina delle materie prime, debito estero, ecc. E scrivevo, fin dall’inizio degli anni sessanta, che la radice della fame e della miseria è soprattutto interna ai singoli popoli: mancanza di istruzione, di libertà e soprattutto di Vangelo. Insomma: il primo aiuto che possiamo dare ai popoli poveri è il Vangelo, i missionari sono i primi promotori di sviluppo perchè anzitutto e soprattutto annunziano Gesù Cristo, come ha scritto Benedetto XVI nella “Caritas in Veritate” (nn. 8, 11, 13, 16-18, 78). Poi fanno anche tutte le opere di carità e di promozione umana, ma se manca il Vangelo manca la radice dello sviluppo autentico, che cambia il cuore dell’uomo e la società in cui vive.

      “Meno male che Cristo c’è” dimostra la verità storica e attuale di questa lettura non ideologica ma esperienziale: solo lo sviluppo secondo il Vangelo è autenticamente umano. Su “Il Nostro Tempo”, settimanale cattolico di Torino, trovo l’articolo di don Mario Prastaro, sacerdote diocesano torinese “fidei donum” missionario in Kenya, che dimostra con la sua esperienza la verità di questa tesi (“La Buona Novella agli ultimi”, N.T. del 6 novembre 2011).

     Don Mario scrive: “Quando ero in vacanza in Italia, spesso mi chiedevano cosa facciamo di bello per i nostri Samburu…e si aspettavano la lunga lista di opere caritative: costruzioni, pozzi, scuole, bambini malnutriti, progetti sanitari… Mi sembra che non colgano la vera essenza della missione, che è anzitutto annunziare il Vangelo, e che in fondo esprimano un’idea di sviluppo che non è corretta… Ecco cosa oggi mi appare di una evidenza lampante: la vera via per lo sviluppo è il Vangelo, ciò che veramente trasformerà il mondo rendendolo un luogo migliore sarà solo e soltanto il Vangelo, perché la forza dello sviluppo è la fede in Gesù. Io questo l’ho visto con i miei occhi”.

     E poi don Mario continua: “Se è vero che il mondo è quello che è a causa del peccato, e se è vero che il peccato ha iniziato a rovinare il mondo fin dai suoi inizi, allora vuol dire che il mondo potrà essere diverso nella misura in cui ogni singola persona inizierà un cammino diverso da quello iniziato da Adamo ed Eva”. In altre parole, i missionari sono chiamati a “innestare il  vero cambiamento nella vita dei poveri…. che non è principalmente di carattere materiale, poiché solo un cuore e una mente nuova, anche in situazioni disperate, possono produrre una vita nuova e diversa. Solo il Vangelo può innestare veri e duraturi processi di sviluppo”.

     E racconta la sua esperienza: “Spesso agenzie di sviluppo si sono presentate nella nostra zona proponendo il loro progetto di sviluppo e, per convincere la gente, facevano riferimento ad un tenore di vita più alto e comodo e ai vantaggi materiali che ciascuno ne avrebbe avuto. Queste agenzie di sviluppo hanno realizzato il loro progetto mobilitando e coinvolgendo le comunità, hanno fatto arrivare alla base i loro cospicui fondi con onestà e trasparenza… Un mese dopo la loro partenza, la comunità era praticamente allo stesso punto di prima… L’errore non era di carattere tecnico, ma vi era una debolezza di fondo che vanificava tutto il corretto processo e stava nelle motivazioni di fondo che avevano spinto la comunità ad accettare la realizzazione del progetto. La debolezza di fondo sta nel pensare che quanto mi viene proposto porta a me vantaggio qui e ora, che mi permette di godere di un temporaneo benessere. Ma alla fine tale motivazione non mi ha fatto cambiare il mio modo di guardare alla vita, la mia scala di valori, il senso che do alle cose che faccio, il modo in cui mi rapporto con gli altri e affronto le inevitabili difficoltà; mi ha semplicemente offerto una tecnica per avere un vantaggio materiale qui e adesso… Il Vangelo, poiché richiama alla conversione, è in grado di innestare processi di sviluppo di tutt’altra natura, poichè mette anzitutto in discussione il mio modo di rapportarmi a Dio, agli altri e al creato. Mi invita a non vivere autocentrato, ma a guardare agli altri con gli occhi e il cuore dell’amore…

     “L’amore è l’essenza ultima del messaggio del Vangelo ed è l’essenza stessa di Dio… Nel momento in cui il Vangelo viene annunciato e viene accolto, la persona si apre all’amore: ecco, in questo preciso momento si innesca un processo irreversibile e fortissimo di sviluppo. La persona è diversa, ha trovato in sé una nuova motivazione e una forza che prima era celata non si sa dove e ora è in grado di mettersi in movimento con quella tenacia e pazienza del contadino che sempre porta ad un raccolto abbondante. C’è di più, nel momento in cui faccio l’esperienza di essere amato, e solo Dio mi ama veramente e perfettamente, ritrovo la mia dignità e la dignità di ogni persona che è vicino a me. Ridare dignità alle persone è uno dei grandi frutti dell’evangelizzazione e dell’azione missionaria. E quando ad una persona è ridata la sua dignità, anche nella sua estrema povertà inizia a vivere diversamente e dunque mette ancora una volta in moto un processo di sviluppo….”.

     Don Mario continua in questo racconto della sua esperienza. L’augurio è che i molti missionari e missionarie italiani che annunziano la Buona Novella del Vangelo in ogni parte del mondo seguano il suo esempio e diano testimonianza in Italia della loro esperienza di evangelizzatori. Anche per “dare una mano” alla “nuova evangelizzazione” del nostro popolo italiano: per uscire dalla multiforme crisi in cui si dibatte il nostro paese (economica, politica, occupazionale, mancanza di speranza e di ideali, famiglie che si sfasciano, scuole che informano ma non educano, ecc.), la prima ricetta è che dobbiamo tutti ritornare a Gesù Cristo e ad una vita secondo il suo Vangelo.

                                                                                      Piero Gheddo

 

Le sante mamme dei missionari

 

 

    Tutti gli anni, nella “Settimana dei defunti” a novembre, nelle comunità del Pime si una Messa comunitaria per i nostri missionari, i genitori e i parenti, gli amici e i benefattori defunti. Quest’anno a Milano ho tenuto l’omelia sui genitori che hanno dato il loro figlio a Dio e al Pime, ricordando l’importanza della famiglia, come terreno in cui nascono le vocazioni consacrate e le preghiere dei genitori per i loro figli sacerdoti. In uno dei miei viaggi di visita alle missioni, ho incontrato un missionario che mi raccontava un po’ della sua vita passata e confessava di essere andato fuori strada, fino a non capire quasi più il senso della sua vocazione e avere avuto la tentazione di uscire dal sacerdozio e cambiare strada. Poi, mi diceva, ho capito di sbagliare e oggi sono tornato ad essere entusiasta della mia vocazione.

         Cosa ti ha fatto cambiare strada? 

         Sono sicuro che sono state le preghiere di mia mamma, che è morta non molti anni fa e prima di morire mi ha detto più volte: “Guarda, figlio mio, che ho sempre pregato per te e per la tua fedeltà alla vocazione sacerdotale e anche dal Paradiso continuerò a pregare per questo. Ecco, concludeva, questa frase mi è rimasta per anni nel cuore e a poco a poco sono tornato, con l’aiuto di Dio, ad essere quel che debbo essere”.

 

      E’ bello ricordare gli esempi di genitori che hanno avuto importanza  fondamentale nella vocazione sacerdotale dei loro figli. Non basta pregare per le vocazioni sacerdotali, religiose e missionarie, bisogna che i genitori e le famiglie creino l’ambiente favorevole allo sbocciare e maturare di queste chiamate di Dio.

 

     Il servo di Dio mons. Angelo Ramazzotti (1800-1861) fondatore del Pime nel 1850, poi vescovo di Pavia e patriarca di Venezia, aveva due genitori, mamma Giulia e papà Giuseppe che erano cristiani autentici, sposati in età non più giovanile con soli due figli. Andavano a Messa tutti i giorni e alla sera il papà guidava la recita del S. Rosario in famiglia. Mamma Giulia dimostra l’autenticità della sua vita cristiana quando rimane vedova nel 1819. Il primo figlio Filippo si sposa ed esce di casa facendosi la sua famiglia. Il secondo, Angelo, vive con la mamma, studia, si laurea brillantemente in legge e inizia a lavorare presso un ufficio legale di Milano. Aveva davanti una brillante carriera di avvocato e vive con la mamma a Saronno. Ma nel 1824 Angelo le rivela che vuol farsi prete e dedicarsi all’educazione dei giovani: diventa missionario degli “Oblati diocesani di Rho” e nel 1837 fonda nella casa natale di Saronno, dove  nel 1850 nasce anche il Pime, il primo oratorio per i ragazzi, molto prima di quello fondato da don Giovanni Bosco a Torino. La reazione di mamma Giulia è positiva. Anzi, accoglie con gioia la notizia, ma sente il dovere di mettere in guardia il figlio, che ormai aveva 25 anni, da possibili illusioni: “Ricordati che diventare sacerdote vuol dire iniziare una vita di sacrificio e di dedizione a servizio della gente: solo così il prete è credibile”. Angelo la assicura che ha pregato e meditato bene quella scelta e sarà di parola. La mamma va con lui fin che vive, diventando la sua più preziosa collaboratrice.

 

      Mons. Gaetano Pollio (1911-1991), arcivescovo di Kaifeng in Cina, imprigionato in regime duro, battuto e processato nella Cina di Mao Tze Tung, poi espulso e tornato in Italia nel 1951, fu vescovo di Otranto e arcivescovo di Salerno. Pollio ricordava anche in tarda età, e c’è nella sua biografia scritta da padre Amelio Crotti, che la sua famiglia a Meta di Sorrento (Napoli) era molto religiosa e la sua vocazione è nata sulle ginocchia della mamma Giuseppina. Gaetano era l’ultimo di sette figli. Alla sera la famiglia diceva assieme le preghiere della buona notte, poi il papà leggeva ai figli e alla moglie un buon libro o le corrispondenze dei missionari riportate dagli “Annali della Propagazione della Fede”. La vocazione del futuro arcivescovo di Cina nasce quand’era ancora bambino, dalla lettura di riviste missionarie fatta in casa da papà Giuseppe. Quando va in Cina, i genitori gli si inginocchiano davanti e chiedono la sua benedizione.

 

     Ho scritto la biografia di padre Leopoldo Pastori di Lodi (1939-1996), missionario in Guinea-Bissau e morto in concetto di santità. Leopoldo, quinto di cinque figli, ricordava sempre la mamma, rimasta vedova ancor giovane, che aveva mantenuto i figli col suo lavoro di lavandaia. Leopoldo era il prediletto che si fa prete e poi missionario. La mamma lo incoraggia in questa via e quando parte per la Guinea nel 1974 gli dice: “Va e non tornare più”. Mamma Francesca (“Cecchina”) era una grande donna di fede e di intensa vita cristiana, ha educato i figli alla preghiera e alla vita ecclesiale. Sarà per Leopoldo un punto di riferimento affettivo e spirituale. E’ morta il 2 novembre 1986, aveva 83 anni.

     Scusatemi se parlo dei miei genitori servi di Dio: mamma Rosetta è morta che io avevo cinque anni e papà Giovanni è stato mandato in guerra in Russia quando ne avevo dodici e non è più tornato. Sono diventato sacerdote nel 1953 e ho celebrato la prima S. Messa a Tronzano (Vercelli). Nell’omelia il mio vecchio parroco mi ha dato un notizia che ancora non conoscevo: “Oggi il Signore ha esaudito la preghiera che tuo papà e tua mamma hanno fatto quando si sono sposati nel 1928. Chiedevano di avere molti figli e che almeno uno dei loro figli o figlie diventasse prete o suora”. Ho saputo allora che mamma e papà avevano pregato per la mia vocazione sacerdotale, mi sono commosso e mi sono messo a piangere: la felicità che provavo nel diventare prete l’avevano chiesta i miei genitori, che mi avevano offerto a Dio prima ancora che fossi concepito!

     Nella Messa di suffragio abbiamo pregato affinchè il Signore conceda tanti genitori  secondo il suo cuore, che preghino affinchè Dio scelga uno dei loro figli o figlie. Ecco, care sorelle e cari fratelli, la nostra Messa di oggi: preghiamo per tutti i genitori e i parenti defunti dei missionari e anche perché il Signore dia anche oggi alla società e alla Chiesa coniugi e famiglie autenticamente cristiane, dalle quali possano nascere numerose vocazioni sacerdotali e missionarie.

 

                                                                             Piero Gheddo

“Fame di pane e fame di Dio”

 

                              

      Caro Padre Gheddo, mi chiamo José Cruz di nome, Echezarreta di cognome. Sono spagnolo (basco) e vivo a Roma da circa 35 anni. Sposato con italiana e figli e nipoti. Questa mattina mentre ero in macchina ho ascoltato su Radio Maria “Storia della Spiritualità Cattolica” a cura di Enrico Chiesura, oggi sulla missionarietà, in cui il sig. Chiesura ha citato spesso lei e i suoi libri. Ho preso poi parte al colloquio telefonico e mi sono congratulato con lui perché ha sottolineato con grande chiarezza che lo scopo principale della missione non è portare il benessere alle popolazioni da evangelizzare, bensì quello di soddisfare la fame di Dio che l’uomo ha, in qualsiasi condizione si trovi, certo senza trascurare i bisogni umani fondamentali, come parte integrante del messaggio evangelico.

      Gli dicevo che mi scandalizzano i sacerdoti (missionari o no) che quando predicano non fanno trasparire quella tensione interiore per la dimensione trascendente, eterna della verità evangelica e si limitano a mostrarci il loro sapere storico-filosofico-teologico-culturale cristiano, se si vuole con grande padronanza accademica e logica, ma ad un livello razionale. Se fosse questo il messaggio cristiano: razionalità e attivismo, io non ci andrei in chiesa. Studierei i libri e agirei secondo coscienza e basta. (Sinceramente, io sto vivendo questo travaglio interiore, anche se sono un cristiano “fedele” e sono nato e vissuto in una famiglia religiosissima. Non mi basta la “fedeltà”. Cerco la pienezza, quell’acqua che appaga la sete…come nell’episodio della Samaritana.

 

     E domandavo: se non è questo il messaggio, si deve dimostrare e insegnare qual è il quid del cristianesimo. Se la religione cristiana non è come le altre religioni, anch’esse nobili, anch’esse alla ricerca di una consapevolezza della verità, dell’amore trascendente, cosa la distingue da esse? (Se non si fa chiarezza e si martella con convinzione, con conoscenza e sensibilità interiore su questo, penso che le chiese si svuoteranno).

     Rispondendomi, Chiesura ha ribadito il concetto della priorità spirituale e mi ha rimandato a uno dei suoi libri (non ricordo quale) in cui troverei risposta alla mia domanda, perché, diceva, è un argomento che richiede uno spazio più ampio della brevità di una risposta telefonica. Incuriosito, sono andato a cercare in Internet e ho visto nel suo sito (www.gheddopiero.it) un elenco interminabile di libri. Quindi chiedo a lei cortesemente se mi può indicare quale. Cordiali saluti, suo José Cruz Echezzareta.

 

      Caro amico, Il libro che Chiesura citava era “La Missione Continua” (San Paolo, 2003), basato sui documenti della Chiesa e sulle mie esperienze in 50 anni di sacerdozio. Ma in questi giorni l’editrice Lindau di Torino ha pubblicato “Meno male che Cristo c’è”, nel quale rispondo appunto alle sue domande, a quelle che  mi ha fatto Gerolamo Fazzini, mio successore alla direzione di “Mondo e Missione”, e ai dubbi che non pochi laici esprimono sulla fede e la Chiesa.

     Le rispondo con una sentenza della Santa Madre Teresa in occasione di una campagna contro la fame nel mondo: “L’uomo ha fame di pane, ma soprattutto ha fame di Dio”. E lei, con le sue suore, si preoccupava di sfamare, curare e aiutare in ogni modo i poveri, ma, appunto, riteneva che c’è una fame molto più profonda e diffusa, che è quella di conoscere e amare Dio. E questa “fame di Dio” non è solo dei non cristiani, ma anche dei cristiani che “vivono come se Dio non esistesse”, vittime della cosiddetta “secolarizzazione” che fa considerare la fede e le sue manifestazioni come un qualcosa di assolutamente intimo e privato, una specie di “hobby” (sfizio) personale, di cui, per essere educati, non bisogna parlare.

      Benedetto XVI scrive nella “Caritas in Veritate”(enciclica del 2009): “La religione cristiana e le altre religioni possono dare il loro apporto allo sviluppo solo se Dio trova un posto anche nella sfera pubblica, con specifico riferimento alla dimensioni culturale, sociale….”. Quel che lei dice è vero. Lo “spirito secolarizzante” entra a volte anche nella Chiesa e nei suoi ministri, missionari compresi, per cui la missione alle genti è presentata a volte come un’opera di beneficenza, di solidarietà, e il missionario finisce per apparire più un “operatore sociale” che un uomo mandato ad annunziare la “Buona Novella” del Vangelo a tutte le genti, convinto che tutti i popoli hanno bisogno Cristo (si veda il Blog del 29 ottobre 2011).                                                                              

                                                                                         Piero Gheddo

 

Fausto Tentorio martire nel Far West delle Filippine

Il 17 ottobre padre Fausto Tentorio è stato assassinato davanti alla chiesa parrocchiale di Arakan nelle Filippine. L’assassino si è avvicinato a lui e lo ha ucciso con due colpi di pistola alla testa. Non si conosce ancora l’autore né il movente dell’uccisione. Il killer portava il casco ed era impossibile vederlo in viso. Dopo l’assassinio, si è allontanato su una motocicletta.
Padre Tentorio, missionario del Pime da oltre 32 anni nelle Filippine, lavorava nell’isola di Mindanao fra i tribali “manobo”, una etnia minacciata di estinzione dall’esproprio delle loro terre e anche dalle trivellazioni di compagnie minerarie nel loro territorio: è il terzo martire del Pime a Mindanao:

l’11 aprile 1985 p. Tullio Favali è ucciso a Tulunan, nella diocesi di Kidapawan, da un gruppo paramilitare di aiuto all’esercito contro la guerriglia dei “maoisti” (New People’s Army);

il 20 maggio 1992, p. Salvatore Carzedda, impegnato nel “Silsilah”, organismo per il dialogo con i musulmani, ucciso a Zamboanga;

due altri missionari del Pime a Mindanao rapiti da guerriglieri musulmani e liberati dopo due mesi di cattività: nel 1998 p. Luciano Benedetti e nel 2007 p. Giancarlo Bossi;

altri due del Pime a Mindanao hanno dovuto tornare in Italia perché minacciati di morte o di rapimento: Sebastiano D’Ambra (il fondatore di “Silsilah”, che era mediatore tra guerriglieri musulmani e governo a Siocon, poi tornato nelle Filippine anni dopo) e Paolo Nicelli (condannato a morte dalla “fatwa” di un imam per il suo volume sulla storia dell’islam nelle Filippine).

Mindanao, il Far West delle Filippine

Le Filippine sono l’unico paese cattolico dell’Asia, l’85% dei 90 milioni di filippini sono cattolici. Nel nord e nel centro c’è una lunga tradizione di Vangelo, mentre nell’isola di Mindanao sono numerosi i musulmani e i tribali animisti. Il Pime è giunto nelle Filippine nel 1968 e assume una parrocchia a Manila fra i baraccati di Tondo (allora la più estesa baraccopoli dell’Asia) e un’altra nella diocesi di San Pablo. Nel 1969 la scelta “missionaria” dell’isola di Mindanao, il “Far West” delle Filippine. Un’isola ricca di terre, di risorse minerarie e forestali e incantevoli prospettive turistiche, che fino al 1960 era poco abitata; poi, negli anni sessanta e settanta, il presidente Marcos ha presentato Mindanao come la “terra promessa”, favorendo e sostenendo la gente del Nord ad emigrare verso il Sud. Ma Mindanao era già occupata dai musulmani, da tribali di molte etnie e da contadini cattolici, convertiti dal tempo della colonizzazione spagnola (1571-1899). Gli immigrati dal Nord, più evoluti e sostenuti dal governo e dall’esercito, hanno occupato le terre e i posti migliori, venendo in contrasto con i tribali (in buona parte ancora animisti) e fomentando il separatismo islamico, al quale si sono aggiunti i guerriglieri maoisti: a Mindanao, la vita umana vale proprio poco. Il Pime ha scelto di andarci proprio per queste situazioni “missionarie”.

Boom economico e “guerra delle terre”

Erano gli anni del «boom» economico anche per le Filippine, dal 1965 guidate da un capo giovane, popolare, carismatico. La «Nuova società», che Ferdinando Marcos prometteva, proiettava il paese sulla via tracciata da Kennedy e da Johnson negli Stati Uniti, facendo delle Filippine una grande e potente nazione. Dal nord del paese (dalle  isole di Luzon, Samar, Mindoro, Panay, Negros) si crea un movimento di popolo contadino verso Mindanao. Entrano anche le compagnie per il legname, deforestando vaste regioni e riducendo le terre disponibili.
Nasce la «guerra per le terre» che dilaga rapidamente dopo il 1972 a causa della legge marziale che favorisce la guerriglia maoista del «New People’s Army» (nuovo esercito del popolo) e la guerriglia separatista dei musulmani. Marcos, che aveva suscitato grandi speranze ed eletto democraticamente nel 1965 e nel 1969, ha fallito per la grande corruzione del regime, l’inefficienza dei poteri statali, lo scoppio delle due guerriglie, comunista e islamica. Negli anni ottanta, quando il Pime entra a Kidapawan, la gente dei villaggi vive nel terrore per i casi comuni di violenze. La Chiesa non si è mai schierata a priori con una parte o l’altra. La Conferenza episcopale filippina fonda la «Episcopal Commission for Tribal Philipino» e la «Task Force Detainees» (molti venivano arrestati senza «Warrant of Arrest ») e subito denunzia che le maggiori difficoltà ai tribali le hanno causate i cattolici immigrati da altre parti del paese, per coltivare nuove terre che appartenevano ai tribali.

La Chiesa a Kidapawan fra «Ilaga» e «Barracuda»

Mettendosi nel 1980 a servizio del vescovo gesuita di Kidapawan mons. Federico Escaler, i missionari del Pime vengono mandati a Tulunan, a Columbio e nella valle di Arakan, dove incontrano situazioni tragiche di violenza e tentano di realizzare una pastorale di difesa della giustizia e dell’uomo. «A Tulunan –mi diceva padre Pietro Geremia nel 1985 – si parla di guerra fra cristiani e musulmani, ma la gente dice che non c’è mai stata inimicizia. Il problema è politico ed economico, non religioso. Comunque la guerra è stata feroce, crudele, ha spopolato la regione. Nel 1980, quando sono arrivato io, la parrocchia era abbandonata e non c’erano più case, tutte distrutte, bruciate. In quel periodo vengono fondati a Tulunan gli ‘‘Ilaga’’: per questo la nostra zona è considerata la più pericolosa della diocesi di Kidapawan. ‘‘Ilaga’’ significa topo: gruppi di persone che si armano contro i musulmani, i quali uccidono i cristiani come topi. All’inizio gli ‘‘Ilaga’’ sembravano positivi, perché i musulmani, più forti e più armati, umiliavano e schiacciavano i cristiani. Gli ‘‘Ilaga’’ difendevano i villaggi e le terre dei cristiani contro i “Barracuda” (squali), ma poi alcuni gruppi hanno commesso atrocità, torture e atti di cannibalismo, per farsi credere coraggiosi. Questi gruppi, sostenuti dall’esercito, sono diventati sempre più criminali e incontrollabili”.

La Chiesa di Kidapawan ha sviluppato una «pastorale di educazione alla giustizia e alla pace», specialmente attraverso le Gkk («Gagmayng Kristohanong Katilingban»), le piccole comunità cristiane di cui i missionari del Pime sono stati tra i fondatori e animatori più impegnati: lettura della Bibbia, preghiera comunitaria, evangelizzazione, azione caritativa e sociale. Da queste Gkk sono nati gli agenti di pastorale e i capi cristiani che hanno cambiato il volto della Chiesa locale con il loro impegno in difesa dell’uomo, che dava fastidio anche perché venivano accusati di essere contigui ai guerriglieri maoisti. Da questa situazione nasce il martirio di padre Tullio Favali (11 aprile 1985). In tutte le Filippine, padre Tullio è comparso riverso nel suo sangue sui manifesti stampati dalla Chiesa filippina con il titolo: «How many more?» (quanti ancora?), diventando il simbolo e lo slogan della resistenza popolare non violenta al regime di Marcos. Meno di un anno dopo, il 26 febbraio 1986, la «rivoluzione del rosario e dei fiori», che la morte di Tullio Favali aveva contribuito a promuovere nel popolo credente, ha sbalzato il dittatore Marcos dal potere senza spargimento di sangue. Se si fosse fatta allora la Causa di beatificazione, sarebbe già Beato da parecchi anni!

“Tutto accetto con fiducia dalle mani di Dio”

Oggi il Pime lavora in dieci diocesi delle Filippine, sei delle quali a Mindanao: Manila, Zamboanga, Ipil, Pagadian, Dipolog, Imus, Kidapawan, Paranaque, San José de Antique e San José in Mindoro. P. Tentorio, nato nel 1952 a S. Maria di Rovagnate (Lecco), entrato nel Pime dal seminario diocesano di Milano, lavorava da tempo fra i tribali della diocesi, vivendo poveramente con loro. La sua evangelizzazione comprendeva l’impegno per garantire sopravvivenza e diritti a queste popolazioni marginalizzate.

P. Giovanni Vettoretto, viceparroco di p. Tentorio, racconta: “Dal 17 ottobre, arrivano almeno 2mila persone al giorno per rendere omaggio a p. Fausto. Giungono anche politici, senatori, deputati e media, ma soprattutto la gente che lui ha aiutato in questi anni. Vi sono persone che affrontano il viaggio partendo anche all’una di notte, per arrivare qui dopo 5 o perfino 12 ore di viaggio, fra strade inesistenti, autobus di linea o mezzi di fortuna”. Per oltre trent’anni, p. Fausto è stato per i tribali un padre (affettuosamente lo chiamavano Tatay Pops), un fratello, un mentore e un amico, in modo disinteressato si è identificato con essi nella loro vita e cultura. Era veramente uno di loro con loro.
In un documento che p. Fausto ha inviato ai superiori scriveva: “Riconoscente a Dio per il grande dono della vocazione missionaria, sono cosciente che essa comporta la possibilità di trovarmi coinvolto in situazioni di grave rischio per la mia salute ed incolumità personale, a causa di epidemie, rapimenti, assalti e guerre, fino all’eventualità di una morte violenta. Tutto accetto con fiducia dalle mani di Dio, e offro la mia vita per Cristo e la diffusione del suo Regno”.
Piero Gheddo