“Perché dobbiamo convertirci a Cristo?”

Mancano quaranta giorni alla Pasqua e la Chiesa ci invita a prepararci per risorgere con Cristo ad una vita nuova. Il Vangelo di San Marco, col quale inizia la Quaresima, ci presenta Gesù che, dopo l’arresto di Giovanni il Battista, va nel deserto e vi passa quaranta giorni di preghiera, di tentazioni e di digiuno; poi, percorre i villaggi della Galilea annunziando il suo messaggio: “Il tempo è compiuto, il Regno di Dio è vicino: convertitevi e credete nel Vangelo” (Marco 1, 12-15).

E’ il messaggio che la Chiesa rilancia nella Quaresima ed è anche l’essenza del cristianesimo: credere in Cristo e nel suo Vangelo e convertire la nostra vita quotidiana alla vita nuova che il Vangelo ci propone.

Nel mondo non cristiano, dove i missionari vivono e lavorano, è chiaro cos’è il cristianesimo: il passaggio dalla religione tradizionale alla fede e alla vita in Cristo, unico Salvatore dell’uomo e dell’umanità. Il “primo annunzio” ai non cristiani è veramente l’annunzio di una fede  nuova, di una vita nuova.

Ma, in concreto,  cosa significa “convertirsi a Cristo?”.Ho fatto questa domanda a un missionario del Pime, padre Giuseppe Fumagalli, che da quarantatre anni vive fra i “felupe” nel nord della Guinea Bissau, una tribù nuova, dove il Vangelo è stato portato negli anni cinquanta dal suo predecessore padre Spartaco Marmugi. Siamo in una situazione missionaria: il primo annunzio del Vangelo ai pagani. La predicazione di padre Fumagalli è come quella di Gesù: “Convertitevi e credete al Vangelo”.

Padre Zé (Giuseppe) dice: “La conversione dei Felupe è rottura col passato, inizio di una vita nuova con Cristo: quindi è sacrificio, rinunzia, sofferenza, tentazione di tornare ai costumi pagani del passato, una lotta quotidiana contro se stessi. Chi decide di convertirsi sa che deve perdonare le offese, abbandonare ogni sentimento di vendetta; lasciare il culto degli spiriti, non credere più agli stregoni; avere una sola moglie ed esserle fedele, amare e dedicarsi alla propria famiglia, rispettando la moglie e i figli; non rubare, non commettere ingiustizie, ecc. Il catecumeno sa che spesso va incontro alla persecuzione o alla marginalizzazione nel villaggio, perché va contro-corrente rispetto alla comunità in cui vive. Però Dio lo aiuta e spesso posso dire che continua ad impegnarsi in questo cammino di conversione, anche perchè consolato dai buoni risultati che ottiene vivendo la vita cristiana: anzitutto si libera dalla paura degli spiriti cattivi e del malocchio, che blocca la gente comune. Il cristiano sa e crede che è sempre nelle mani di Dio e acquista una sicurezza e coscienza viva della sua fede e dei vantaggi che ne derivano, che sono tanti altri.

“Insomma – continua padre Zé – a parità di condizioni, il cristiano vive meglio e si sviluppa di più del non cristiano, io lo sperimento spesso. Ha, come si dice, una marcia in più, non ha più paura del futuro e del mistero nel quale è immersa tutta la vita dell’uomo. Dio non si lascia mai vincere in generosità”, dice padre Zè.

Il quale aggiunge che tra i felupe “la conversione a Cristo è una profonda rivoluzione nella vita dell’uomo, della famiglia, del villaggio: è la rivoluzione portata da Cristo, quella che “Dio è amore”, che cambia tutta la vita dell’uomo,della famiglia, dell’umanità. Non una rivoluzione violenta contro altri, ma una rivoluzione non violenta che incomincia nell’interno del cuore dell’uomo, quando egli decide di credere nel Vangelo e di convertirsi a Cristo: passare dall’egoismo all’altruismo, dall’odio all’amore. Oggi nella tribù dei felupe i cattolici battezzati sono circa 2.300 (altri sono nel catecumenato di 2-3 anni)  su circa 20.000 contribali in Guinea, ma la tribù è più presente nel vicino Senegal. Non sono più perseguitati, anzi sono ammirati perché portano la pace fra i villaggi, si interessano del bene pubblico, hanno famiglia più unite, sono disponibili ad aiutare i più poveri”.

Tutto questo avviene nel mondo “pagano”. Al contrario, nel nostro mondo post-cristiano non è più molto chiaro cosa vuol dire “cristianesimo” e “convertirsi a Cristo”, che è il messaggio della Quaresima. Siamo sommersi da così tanti messaggi, problemi, discussioni, cattivi esempi e scandali, molte voci, ipotesi e proposte, che per molti non è più chiaro cosa vuol dire essere cristiano. Un anno fa, il direttore dell’editrice Lindau di Torino, il dott. Ezio Quarantelli, mi ha chiesto di scrivere un libro, che poi ha pubblicato: “Padre, lei ha viaggiato molto e conosce tante situazioni umane. Mi scriva un libro in cui spiega chiaramente e in modo molto concreto come mai dobbiamo convertirci a Cristo, cosa vuol dire  e quale scopo ha questa conversione. Non con un discorso teologico e filosofico, ma in modo comprensibile e direi giornalistico, citando anche le sue esperienze; e non mi parli della vita eterna, ma della vita in questo nostro mondo”. Ho scritto il volume “Meno male che Cristo c’è”, che grazie a Dio, mi dicono che va bene nelle vendite. Non ha altro scopo che quello richiestomi dall’amico Quarantelli.

Il nostro problema, di noi battezzati e anche di noi preti, parlando in generale, è che noi ci crediamo già convertiti, per cui la parola “conversione” quasi non ha più significato. Siamo stati battezzati, cresimati, riceviamo l’Eucarestia, andiamo a Messa, preghiamo e se guardiamo al mondo attuale ci consideriamo dei buoni cristiani. Io stesso sono prete e missionario da 59 anni e se guardo alla mia vita, ringrazio il Signore della vocazione al sacerdozio e alla missione e di tutte le grazie che mi ha dato. Gli chiedo perdono dei miei peccati e poi sono tentato di pensare che, tutto sommato, la mia vita l’ho spesa per Cristo e per la Chiesa e posso starmene tranquillo.

Questo l’errore, credo abbastanza comune. Il prete, come il cristiano, non va mai in pensione, non dice mai di essere arrivato alla meta della vita cristiana, che è la conversione a Cristo, l’imitazione di Cristo. Come cristiani, noi ricominciamo sempre una vita nuova ogni mattino e soprattutto nel giorno di Pasqua. La giovinezza della vita cristiana è questa: ricominciare sempre con entusiasmo il cammino che porta all’amore e all’imitazione di Cristo, correggendo a poco a poco le nostre tendenze cattive, i nostri errori di giudizio e via dicendo. Tutto questo non è solo frutto della nostra buona volontà, ma è una grazia che Dio ci dona, se glie la chiediamo.

Piero Gheddo

Clemente Vismara: un bell’esempio di inculturazione

Un amico mi ha detto che Clemente Vismara è un missionario del passato, troppo superato dalla storia e dal cammino che ha fatto la Chiesa e la missione, per poterlo prendere a modello oggi. Penso che non sia vero. Ad esempio, oggi si parla molto, tra i missionari e i “missiologi” (gli studiosi della teologia missionaria) dell’inculturazione. I tempi del Beato Clemente questa parla non esisteva ancora, eppure, il suo genere di vita missionaria era quanto mai “inculturata”
Che tipo di missione poteva fare padre Clemente nel 1924, mandato a fondare la nuova missione a Monglin, dove nessun altro missionario aveva mai evangelizzato e lui stesso era alla prima esperienza di missione? Nell’intervista che gli ho fatto in Birmania nel febbraio 1983, così ricordava il suo apostolato dei primi tempi a Monglin (Vedi “Mondo e Missione”, gennaio 1985):
“Fin dall’inizio il mio apostolato è stato tutto un girare, a cavallo o a piedi, per i villaggi. Avevo con me tre orfani, li tenevo sempre assieme, li educavo e loro mi aiutavano in tante cose. Se c’era tanto da mangiare, mangiavamo tutti; se c’era poco, prima mangiavano loro e poi io. Andando nei villaggi portavo un po’ di medicine e poi cercavo di aiutare la gente in tanti modi: falegnameria, agricoltura, igiene, meccanica, medicina, portare l’acqua ai villaggi e la pace tra i villaggi… Quando avevo finito le medicine, il denaro e il cibo, tornavo a casa, mi riposavo un po’ e ricominciavo. Tutto era fondato sull’amicizia personale: il farsi conoscere e conoscere la gente, famiglia per famiglia, villaggio per villaggio, dire a tutti che io volevo aiutarli e fare il possibile per aiutarli davvero. Intanto, tutti vedono che sei un prete e, quando hanno preso confidenza, ti chiedono qualcosa del tuo Dio. Quante volte, alla sera, seduti attorno al fuoco, ho raccontato le storie dell’Antico e del Nuovo Testamento, di Gesù Cristo, del Papa e via dicendo. Allora, a poco a poco, prima i più poveri, poi gli altri, decidono che la religione del Padre è quella buona e chiedono di essere istruiti nella fede.
“Ma gli inizi, girando nei villaggi, non erano facili. Nei primi tempi, quando arrivavo vicino ad un villaggio, la gente fuggiva, si nascondeva nelle capanne, osservava di nascosto le mie mosse. Era la prima volta che un uomo di pelle bianca, con tanto di barba, andava in mezzo a loro. Avevo la mia tenda militare, la sistemavo accanto al villaggio, curavo i miei cavalli e preparavo da mangiare con i miei orfani. Allora, qualcuno più coraggioso si avvicinava e facevamo amicizia. Al primo seguiva il secondo, poi i miei ragazzini andavano in giro a dire che il Padre voleva bene a tutti: allora la gente si avvicinava, chiedeva qualcosa, mi portavano da mangiare ed io dicevo sempre che era buono, molto buono, benché a volte mi si rivoltasse lo stomaco…
“La mia linea di comportamento è sempre stata questa: da un lato essere contento dì tutto, dall’altro lodare quello che avevano, i loro cibi, la loro lingua, le capanne, le usanze, almeno quelle che non fossero decisamente contrarie alla legge di Dio. E poi fare felici gli infelici.
“Oggi si parla di «scelta preferenziale dei poveri» (leggo anch’io giornali e riviste che mi giungono dall’Italia). Per me non era una scelta, perché non avevo scelta. All’inizio o prendi i poveri o non prendi nessuno. Non ho quasi mai convertito gente importante e ricca, ma i rifiuti del mondo pagano: relitti umani, orfani, ammalati, gobbi, storpi, vedove, miserabili e chi più ne ha più ne metta. La mia preferenza fu sempre per gli orfani, dato che su questi monti, un po’ per la guerriglia, un po’ per la miseria, la fame, le malattie, ce ne sono in abbondanza. Uccellini senza nido, ai quali io ne offrivo uno. Sono il mio sole, la mia speranza, il mio futuro. Che mi serbino più o meno riconoscenza, poco m’importa: se stanno bene loro, sto bene pure io”.
Se questa, esclusi alcuni aspetti diciamo “tecnici” (per esempio andare a cavallo, dormire sotto una tenda), non è un’inculturazione modello, ditemi voi come potrebbe, anche oggi, un  missionario inculturarsi meglio in un popolo del tutto nuovo a cui viene mandato.
Piero Gheddo

I giovani protagonisti del Recital sul Beato Clemente

Uno degli stereotipi ricorrenti oggi è quello che i giovani non si impegnano, sono fragili, mancano di costanza e di spirito di sacrificio. Non è vero. I giovani, oggi come ieri, hanno grandi potenzialità di bene. Ma la società del passato favoriva e sollecitava il nostro impegno nella vita, ci abituava al sacrificio. Quella di oggi, che noi anziani e adulti abbiamo costruito, non offre più ideali e stimoli per grandi obiettivi, al contrario propone e quasi impone (con TV e stampa soprattutto) mode futili, goderecce che appagano i sensi ma distruggono l’uomo.

Nel teatro dell’oratorio di Limido Comasco ho assistito al Recital sul Beato Clemente Vismara (beatificato il 26 giugno 2011 in Piazza Duomo a Milano) preparato dai giovani di Agrate Brianza, Omate e Caponago, le tre parrocchie della Brianza della stessa Comunità pastorale, che hanno coinvolto, nella ideazione e preparazione, tutte le realtà dei tre centri, compresi i Comuni, la scuola di danze che c’è ad Agrate e altri enti.
Bellissimo e commovente! Se parlo, scrivo e leggo di Clemente, io mi commuovo sempre, ma si sono commossi in molti nel teatro dell’oratorio di Limido Comasco. Pensate che quel Recital ha coinvolto 150 persone per testi, regia, prove, luci e audio, spartito musicale, danze, scenografie, coreografie, sartorie, banda di suonatori, coro, attori e attrici, segreteria, ecc…
Una delle cose più commoventi sono stati i bambini e ragazzini di Vismara che ballano e giocano numerosi e le ragazze in varie fogge che danzano accompagnando la scena che si svolge. Alla fine sono saliti sul palco del teatro e non ci stavano tutti! Il finale poi è glorioso, rumoroso, grandioso e gioioso, com’era lo spirito di Clemente. Termina con un applauso corale e spontaneo che non finiscepiù, da Guiness degli applausi. Io immaginavo Clemente che sorride beato dal Paradiso: il Recital infatti è intitolato “Il padre che sorride”, i cjui meriti sono soprattutto due:
1) Anzitutto sono riusciti, in un’ora e mezzo di rappresentazione, a presentare Clemente in modo realistico e poetico, come sarebbe piaciuto a lui. E’ un quadro evocativo che commuove chi già conosce Clemente commuove e genera stupore, ammirazione e curiosità in chi ancora non lo conosce.
2) C’è dentro la spiritualità essenziale del Beato, preghiera, fiducia nella Provvidenza, amore ai bambini e ai poveri, capacità di sacrificio e di donare la vita per gli altri, gioia di vivere: infatti  è morto a 91 anni “senza mai essere invecchiato”. Con numerosi appelli alla vocazione missionaria. Ci sono dentro sia i missionari del Pime che le suore di Maria Bambina.
Don Stefano Guidi, giovane viceparroco e direttore dell’oratorio di Agrate Brianza, nel febbraio 2011 ha proposto ai suoi giovani di realizzare un Recital su Clemente Vismara, che è stato beatificato il 26 giugno scorso in Piazza Duomo a Milano.  Oggi dice: “Volevo avvicinare i ragazzi e i giovani alla figura di padre Clemente. E quale strumento migliore del teatro? Un lavoro di questo genere non si era mai fatto prima. I giovani che hanno poi sviluppato l’idea del Recital – insieme all’aiuto della regista Stefania – hanno fatto un vero e proprio lavoro di studio su Clemente: chi di loro ha portato in scena le parti principali e chi ha creato i testi e le canzoni hanno letto interamente i libri “Il bosco delle perle” e “Prima del sole”. E li hanno letti con piacere, perché Clemente, con la sua vita avventurosa e le sue lettere poetiche e geniali sono capaci di comunicare simpatia, ironia, gioia. Sono cariche di ottimismo e di fiducia. Trasmettono messaggi grandiosi e ricchi di valore, senza mai cadere nella retorica e nella pesantezza. Clemente conserva una capacità straordinaria di entrare in dialogo con i giovani. Dagli scritti e dai racconti di Clemente, i giovani – dopo un lavoro condiviso di studio – hanno tratto e selezionato i racconti più significativi, gli episodi più salienti e simpatici della sua poliedrica vita missionaria, che poi abbiamo inserito nel Recital. Un grande lavoro è stato svolto per la creazione dei testi musicali: credo che siano i testi in cui emerge con grande efficacia l’anima di Clemente. Quindi, direi che il primo obiettivo è stato raggiunto: i giovani si sono messi in dialogo con Clemente, e questo dialogo li ha fatti crescere.
“La seconda motivazione – continua don Stefano – era quella di coinvolgere i ragazzi e i giovani nella celebrazione della beatificazione. Con il parroco don Mauro siamo stati subito d’accordo nel considerare i giovani come protagonisti e soggetti attivi della festa, non solo spettatori. Così abbiamo pensato a diverse iniziative – anche molto semplici, come la stampa delle magliette – per coinvolgere i ragazzi degli oratori nella festa delle beatificazione. L’apice è stato sicuramente raggiunto dalla visita del cardinale Tettamanzi per il “Vismara day”. Non è semplice coinvolgere i giovani in progetti tanto ambiziosi e impegnativi.
“Infine, terza motivazione. Quello del recital sarebbe stato il primo vero “lavoro pastorale” che avrebbe coinvolto tutti i giovani delle tre parrocchie che formano la nostra Comunità Pastorale. E così è stato!
“Alla fine, la realizzazione del Recital ha coinvolto 150 persone di diverse fasce d’età, diventando – a tutti gli effetti – un lavoro comunitario. Ma ciò che rende qualitativamente importante questo lavoro è che tutto è stato fatto “partendo da zero”. Tutto è nato da un lavoro di studio e di conoscenza del personaggio, con l’obiettivo di comunicare i tratti salienti della sua personalità e le vicende più belle della sua vita missionaria. Il guadagno pastorale e spirituale per la comunità di Agrate è altissimo. Ormai, nei cammini giovanili, la presenza di Clemente è diventata famigliare. Spesso lo ascoltiamo negli incontri formativi, nella preghiera, nella catechesi.
“Voglio ancora aggiungere – conclude don Stefano – che mi meraviglio io stesso di come sia stato possibile costruire questa macchina complessa del Recital – disponibile  per altre rappresentazioni – in un solo anno, partendo veramente da zero nel febbraio 2011. Il gran lavoro, fino ad aprile, è stato lo studio del personaggio. Poi sono venuti gli altri impegni, i testi, le canzoni, le musiche, i costumi, le scenografie, le prove, ecc. La grande emozione del debutto di ottobre, nasceva anche dal pensiero ricorrente a due dei nostri ragazzi, che hanno condiviso la nostra idea senza poterla realizzare, perché morti poco prima in un incidente stradale! Un’ultima notizia. I giovani che hanno realizzato il Recital, sono per la maggioranza impegnati normalmente nelle nostre tre parrocchie: sono catechisti, educatori, responsabili della sala cinematografica e teatrale della parrocchia. Sono tra i miei più stretti collaboratori. In tutti questi mesi hanno portato avanti con lo stesso impegno di sempre tutte le attività dell’oratorio, e in più hanno portato a termine il lavoro consistente del Recital, disponibili anche ad eventuali repliche”.
Nell’ottobre prossimo si celebra a Roma il Sinodo episcopale sulla “Nuova Evangelizzazione” : siamo tutti alla ricerca di nuovi metodi, nuovi linguaggi, nuove iniziative per riportare il popolo italiano, soprattutto i giovani, a Cristo e al Vengelo. Il Recital su Clemente Vismara di Agrate, Caponago e Omate dimostra che quando si propone la figura di un missionario che incarna il Vangelo in una vita avventurosa e poetica, si possono coinvolgere molti giovani impegnandoli a diventare protagonisti del loro cammino di fede e di vita.
Piero Gheddo

I 50 anni del Centro missionario Pime

Sabato scorso 11 febbraio 2012 si è celebrato a Milano il 50° anniversario di fondazione del Centro missionario Pime, con due tavole rotonde nella “Sala Girardi” dello stesso Centro missionario: una sulle radici e la storia del Centro, l’altra sul Pime “in missione nella città e a servizio della città, aperti sul mondo”. C’ è stata una buona partecipazione di pubblico (150 persone) col card. Zen, vescovo emerito di Hong Kong, il superiore generale del Pime padre Gianni Zanchi, quello regionale a Milano padre Bruno Piccolo, il direttore del Centro padre Gian Paolo Gualzetti e personalità autorevoli che hanno parlato nella II tavola rotonda: Maria Grazia Guida vice-sindaco di Milano, Ferruccio de Bortoli, direttore de “Il Corriere della Sera”, Aldo Bonomi sociologo, Mariella Enoc vice-presidente della Fondazione Cariplo e mons. Giuseppe Maffi, rettore maggiore dei seminari milanesi. Prima, avevano raccontato la storia e l’attualità del Centro i padri Piero Gheddo e Massimo Casaro (in partenza per il Brasile), il laico Andrea Zaniboni. Presentatori: il direttore  di “Mondo e Missione” Gerolamo Fazzini e Anna Pozzi, redattrice della rivista.

Il tema centrale, sviluppato nella seconda tavola rotonda, è stato il ruolo e l’importanza del Centro Pime nella diocesi ambrosiana e nella città di Milano: i popoli “lontani” sono ormai vicini e il Pime in questo, hanno detto gli ospiti, è sempre stato maestro con varie iniziative culturali e di animazione giovanile. De Bortoli ha ricordato in particolare padre Giacomo Girardi, che aveva conosciuto da giovane cronista cittadino ed era rimasto colpito dalla sua disponibilità e perché gli fece conoscere il mondo in cui operano i missionari; Il Corriere ha poi pubblicato alcuni articoli di padre Gheddo. Ferruccio de Bortoli ha parlato dell’informazione oggi e ha aggiunto: “Noi dovremmo avvicinarci di più al vostro mondo”.

La vice-sindaco di Milano, Maria Grazia Guida, ha parlato della situazione degli stranieri a Milano (circa 250.000), che in non poche scuole sono numerosi (nel quartiere di via Padova circa il 70% dei bambini negli asili!) e ha ringraziato il Centro Pime per l’educazione alla mondialità nelle scuole, il Museo, la Biblioteca e altre iniziative; ha sollecitato la collaborazione alla prossima EXPO 2015, che già è avviata. La vice-presidente della Fondazione Cariplo ha parlato del finanziamento ai progetti sociali nei paesi poveri dell’Africa e della creazione di luoghi di ritrovo e di socializzazione specialmente alla periferia di Milano. La filantropia deve portare alla carità. Il sociologo Bonomi ha fatto un’indagine sociologica delle tendenze che sono vive oggi a Milano, fra le quali anche l’incontro con i diversi (rom, terzomondiali). La cultura che promuove oggi l’arcivescovo Scola è quella del “meticciamento”, che “è la cultura del Pime… Voi del Pime – ha detto – avete il sapere di conoscere questi problemi antropologici”. Ma avete anche il “sapore” da dare all’incontro tra popoli ed etnie diversi, quello della carità cristiana.

Mons. Peppino Maffi, direttore del Centro missionario diocesano dal 1992 al 1998, ha ricordato che il Pime è nato da preti ambrosiani e il rapporto con la diocesi è rimasto sempre attivo, con tempi di maggiore o minore intensità. La diocesi ambrosiana ha un forte rapporto con le giovani Chiese. Il 2007è stato l’anno in cui si sono avute il minor numero di ordinazioni sacerdotali, solo 12; però lo stesso anno 12 sacerdoti ambrosiani sono partiti come “fidei donum” per le missioni. Il Pime ha ancora un grande compito e ruolo in diocesi, come animazione del popolo di Dio alla missione ad gentes, che gli ultimi tre arcivescovi, Martini, Tettamanzi e adesso Scola hanno promosso e ancora promuovono.

Piero Gheddo

”Lei ha sbagliato numero, io molto di più"

Telefono fuori Milano alla famiglia di un confratello in vacanza dall’Africa, al numero dell’Annuario del Pime. Mi risponde una voce maschile, penso sia la sua e dico: “Caro padre Giovanni…”; l’altro ribatte: ”Qui non c’è nessun Giovanni, lei ha sbagliato numero” e chiude.

Dopo un po’ ritento, pensando di aver sbagliato la digitazione del numero. Sento ancora “Pronto?” dalla stessa voce e dico:

Mi scusi, sono ancora io che cerco un missionario….. e si vede che sbaglio ancora numero.

Ma lei chi è?

Sono un missionario anch’io e chiedo scusa.

Un missionario? Ma, caro padre, lei ha sbagliato numero, ma io ho sbagliato molto più di lei.

Ma non mi dica.

Eh, sì, ho sbagliato moglie.

In che senso?

Non era la donna adatta per me e adesso ci stiamo separando.

Avete avuto figli?

Fino adesso no, ma…

Ne segue una chiacchierata che l’amico interrompe dicendo che mi richiama lui. Infatti così avviene e siamo andati avanti una mezz’oretta. Il Signore mi ha aiutato a ricordargli i fondamenti di un matrimonio felice, quelli del Vangelo e della Tradizione cristiana, oltre alla preghiera per chiedere l’aiuto del Padre. Ne abbiamo discusso e l’amico mi ha poi ringraziato. A volte noi preti ci chiediamo come si può realizzare la “nuova evangelizzazione”. Nell’ottobre 2012 si celebrerà a Roma il Sinodo episcopale sulla “Nuova evangelizzazione”, cioè su come riportare al Vangelo e alla vita cristiana i popoli, come il nostro italiano, che in buona parte stanno perdendo la fede. E’ un problema che deve appassionare tutti, non solo vescovi e preti, perché la crisi morale e della famiglia si supera solo col ritorno a Cristo.

Se è vero che il Vangelo e la vita cristiana si trasmettono da persona a persona, come scrive San Paolo ai Corinzi (1 Cor, 15, 1-3): “Vi ho trasmesso l’insegnamento che anch’io ho ricevuto”, Paolo VI precisa: “Nessuna definizione parziale e frammentaria può dare ragione della realtà ricca, complessa e dinamica, dell’evangelizzazione” (Evangelii Nuntiandi, 17). Essa appare piuttosto “un processo complesso e dagli elementi vari” e comprende “la testimonianza di vita, la predicazione vivente, la liturgia della parola, la catechesi, l’uso dei mass-media, il contatto personale…” (nn. 41-48).

Ecco gli elementi che riguardano tutti: “la testimonianza di vita… il contatto personale”. Tutti i battezzati sono chiamati a questo. Viviamo in una società secolarizzata, nella quale è difficile parlare della fede, del Vangelo, della preghiera, della vita cristiana; in genere, anche nelle nostre famiglie e nelle comunità religiose, si parla di tutto, politica, economia, lavoro, salute, sport, che tempo fa, ecc. La fede e la preghiera non c’entrano quasi maia. Sono come “hobby” privati, personali, ciascuno se li gestisce per conto proprio. E’sbagliato, è un frutto amaro della cultura materialista in cui viviamo. Introdurre nel discorso questi temi è già un portare l’attenzione sui problemi che più contano nella vita di tutti..

Quanti contatti personali abbiamo nella giornata con persone in difficoltà, sofferenti, depresse, scoraggiate, che sono pessimiste e cercano il senso della vita. E’ molto facile e tranquillo cavarsela con qualche parola d’incoraggiamento. Il cristiano, che va contro-corrente, trova l’aggancio per orientare il discorso sulla fede e la vita cristiana, su Gesù e Maria… Non è facile, lo so. Ma se la nostra vita è’orientata a Dio e a Cristo, se la “preghiera continua” è sempre sulle nostra labbra e nel nostro cuore, se la grazia che chiediamo a Gesù è di imitarlo sempre più, ci viene spontaneo e quindi naturale orientare anche le nostre conversazioni al tema che più ci appassiona, ci conquista, ci emoziona. Ecco quel che la Chiesa chiede a tutti i battezzati, specialmente ai preti, alle suore, alle persone consacrate.

Piero Gheddo