“Sono un padre fallito, non ho saputo educare mio figlio”

Forse pochi ricordano il massacro avvenuto a Dhaka il primo luglio scorso, nel quale sei terroristi islamici hanno ucciso in modo barbaro e atroce venti stranieri, in maggioranza italiani e giapponesi, uomini e donne che erano a Dhaka come imprenditori per portare lavoro nel campo tessile.
Alle sofferenze delle vittime e dei loro parenti e amici si aggiunge il dolore dei genitori bengalesi dei terroristi. Il padre di uno dei sei criminali jihadisti islamici improvvisamente scopre che il suo unico figlio è un terrorista e dichiara: “Sono un padre fallito, non ho saputo educare mio figlio”. La prima educazione dei figli avviene in famiglia. Anche in estate è bene riflettere su questa testimonianza di un padre fallito e pregare per le vittime e tutti gli attori di questa triste e straziante vicenda. Piero Gheddo

AsiaNews – Dhaka – 6 luglio 2016
di Sumon Corraya

SM Imtiaz Khan Babul è il padre di Rohan Ibn Imtiaz, uno dei sei terroristi islamici che hanno ucciso 20 persone. L’uomo è un membro del partito di governo e ricopre incarichi di primo piano. Ha iniziato la sua carriera come insegnante: “Ma non sono stato in grado di educare mio figlio”.

“Ho fallito come padre”. È il doloroso commento di SM Imtiaz Khan Babul alla strage di Dhaka avvenuta il primo luglio scorso. Tra i sei attentatori (di cui cinque identificati) che hanno fatto irruzione nell’Holey Artisan Bakery cafè e hanno ucciso 20 persone, di cui la maggior parte stranieri, uno è suo figlio, Rohan Ibn Imtiaz. L’uomo è membro dell’Awami League, il partito al governo in Bangladesh, e ricopre importanti incarichi amministrativi. Ieri è apparso in televisione e ha chiesto perdono per il massacro commesso dal figlio: “Chiedo perdono a tutta la nazione e alle famiglie delle vittime. Molte anime innocenti hanno perso la vita, a causa di mio figlio. Tutto questo per me è molto triste, difficile da sopportare, una cosa terribile!”.

Rohan Ibn Imtiaz è uno dei sei terroristi islamici che al grido di “Allah è grande” hanno assaltato un noto locale del quartiere diplomatico della capitale. Il Paese e il mondo intero sono ancora sconvolti per il gesto compiuto da giovani benestanti e appartenenti alle famiglie più ricche della città, in apparenza soddisfatti della propria vita agiata. Tutti loro hanno frequentato le migliori scuole, avevano amici, relazioni sentimentali, utilizzavano i social network per pubblicare le foto dei loro divertimenti.

Ma poi qualcosa deve essere cambiato e sono rimasti ammaliati da predicatori estremisti, come hanno riferito esperti ad AsiaNews. SM Imtiaz Khan Babul ha dichiarato di fronte alle telecamere: “Ho saputo dai social media che il mio unico figlio era tra gli attentatori. All’inizio non potevo credere che mio figlio fosse un militante”.
Il politico, che ha iniziato la sua carriera come insegnante mentre la moglie tutt’ora insegna nella scuola esclusiva che frequentava anche Rohan, si rammarica: “Ho educato tanti studenti e molti di loro oggi sono persone affermate che contribuiscono al bene della nazione. Ma non sono stato in grado di educare mio figlio. Sono un padre fallito”.

L’uomo ha rivestito importanti incarichi a Dhaka ed è l’attuale vicesegretario generale dell’Associazione olimpica e segretario generale della Federazione ciclistica. Ha riferito che il figlio non ha mai viaggiato all’estero, anche se lui e sua moglie stavano progettando di mandarlo negli Stati Uniti per studio, e non aveva fatto mai male neanche ad un insetto. Perciò ha lamentato: “Come ha potuto avere quelle armi pesanti? Chi gliele ha fornite? Chi lo ha addestrato
e chi gli ha dato i soldi? Io chiedo alle autorità di trovare queste persone”.
Asaduzzaman Khan, ministro dell’Interno, ieri ha confermato che gli attentatori del caffè di Gulshan erano tutti bangladeshi e membri di partiti estremisti locali. Abul Hassan Mahmood Ali, ministro degli Esteri, ha presieduto una riunione con circa 50 diplomatici e alti commissari di vari Paesi, ai quali ha riferito la netta condanna del governo nei confronti del barbarico atto di terrore e ha espresso vicinanza ai parenti delle vittime. Poi ha concluso dicendo: “Il terrorismo è una sfida globale e il Bangladesh continuerà a lavorare a stretto contatto con gli altri Paesi, le organizzazioni regionali e le agenzie Onu per sconfiggere questa minaccia”.

Una notte in Africa tra animali selvatici

Nel 1969, sono andato in Uganda con Paolo VI e poi volevo andare a Goma in Zaire, ma da Kampala a Goma (400 chilometri) non c’erano mezzi di trasporto diretti. Ero ospite dei Comboniani, che mi affidano al loro taxista di fiducia, un uomo forte e intelligente di nome Casimiro, con una grossa auto inglese (una Bentley solida e comoda, fatta apposta per l’Africa, col fondo molto alto), e ci mettiamo in viaggio. Allora la benzina costava poco e non c’erano ancora guerre né rivoluzioni a tagliare le strade. Ero giovane, mi piaceva l’avventura, Casimiro parlava inglese e mi dava fiducia. E poi avevamo la macchina carica di tutto quello che era necessario, comprese taniche di benzina.

Tre giorni nell’andata e due nel ritorno. La prima notte dormiamo dai Padri Bianchi in una cittadina ai confini col Ruanda. Ci dicono che la via più breve per Goma è quella che attraversa il Ruanda (infatti ritorneremo per quella); ma Casimiro vuol fare la via più lunga, che passa alle pendici del monte Ruwenzori e scende a Goma attraverso la cittadina di Ruthchuru. Al secondo giorno di viaggio, giungiamo a un fiumiciattolo con un ponte in mattoni, sul quale un camion carico di tegole è scivolato e si è messo di traverso impedendo il passaggio. Stanno scaricando il camion e sono in attesa di una gru che viene da Kabale, a circa 70 chilometri di distanza. In Africa, quando succedono queste cose, bisogna rassegnarsi e starsene tranquilli anche per due-tre giorni.

Ma io ho fretta. Mi dicono che a pochi chilometri più a sud c’è un punto del fiume in cui è possibile passare con l’auto a guado. Vi andiamo per un sentiero nei campi di granoturco e di canna da zucchero. Troviamo il passaggio, l’acqua è bassa, la Bentley passa facilmente.

Ma dall’altra parte una brutta sorpresa. La macchina, molto pesante, affonda nella sabbia a poca distanza dall’acqua. Cerchiamo di disincagliarla, ma tutto è inutile. Casimiro mi dice: “Tu stai qui, chiuditi dentro, io vado a piedi a cercare aiuto in un villaggio vicino”. Parte di corsa. Per un giovane africano, alcuni chilometri non sono una gran distanza. Ma è già pomeriggio avanzato e io attendo invano il suo ritorno. Tornerà solo il mattino seguente, con un camion carico di uomini, che riusciranno a disincagliare la Bentley, cantando ritmicamente assieme una nenia e sollevandola.

Recito il Rosario, mangio e allungo il sedile per dormire. Una notte chiuso nell’auto, vicino all’acqua del fiume, con la luna piena che illumina la foresta. Stento a prendere sonno e, improvvisamente, una continua fila di animali vengono ad abbeverarsi  nella notte: zebre, giraffe, gazzelle, iene e scimmie, anche pantere, leoni e ippopotami. E il vostro padre Piero Gheddo  – laureato in Teologia missionaria – chiuso nell’auto, con gli animali che mi girano attorno, annusando e strofinandosi contro quello strano animale immobile sulla riva del fiume.

Credo di non aver mai pregato con tale intensità in vita mia. Se vengono anche degli elefanti, penso, possono schiacciarmi dentro l’auto solo mettendo una loro mastodontica zampa sul cofano o sul tetto… A ripensarci oggi è un’avventura che racconto volentieri, ma allora ne ero terrorizzato. Almeno all’inizio, perché poi comincio a pensare: “Vuoi che Dio non sia qui vicino a me per proteggermi? Perché debbo aver paura?  Vuoi che Dio non sia dentro la testa di questi animali, che ha creato Lui, in modo da orientarli a non farmi del male?”. Con questi pensieri mi addormento sul comodo sedile allungato, pregando: «Signore, pensaci tu».

Cari amici lettori, che bello fidarsi di Dio! Non vi pare che ci troviamo tutti, a volte, in situazioni simili? Quanti pericoli nella nostra giornata, quanta solitudine nella nostra vita, quante volte ci pare di essere circondati da bestie feroci pronte a sbranarci.

Amici, Dio non ci abbandona mai, non ci perde d’occhio un istante: è sempre qui accanto e in me e a ciascuno di voi, in auto, in ufficio, in famiglia, a scuola, in fabbrica, per la strada. lo vi auguro di sentirvelo vicino, come l’ho sentito io quella notte in Africa, al chiaro di luna, solo e chiuso in auto nella foresta equatoriale.

Piero Gheddo

L’India ci insegna la ricerca di Dio

Fra gli 80 e più Paesi extra-europei che ho visitato, uno di quelli che amo di più è l’India. Nel 1977 vado a vivere alcuni giorni nel monastero del famoso guru padre Beda Griffiths (1906-1993), benedettino inglese che da 40 anni dirige un centro di preghiera sulla riva del Kavery, il fiume sacro del sud India nello Stato del Tamil Nadu: una serie di capannucce di fango, paglia e pavimento di cemento, in un boschetto lungo la riva del fiume. Poco distante il villaggio di Thannirpally dove arrivano i pullman di linea per Madras e Bangalore, fra le risaie, le palme di cocco e i bananeti. Quando arriva un ospite, gli assegnano la sua capanna dove prega, studia, dorme, si rende conto della vita che passa, e com’è importante cercare Colui che non passa, Dio. Poi frequenta la chiesa, le sale di incontro e di studio, la biblioteca, il refettorio, in un’atmosfera di serenità e di spiritualità. Questa visita a padre Beda Griffiths, con padre Sandro Sacchi, allora missionario in India, è del 1977, quasi 40 anni fa. Oggi anche l’India è cambiata, ma rimane forte il senso religioso della vita. Ad esempio i giornali indiani, sia in inglese che in lingue locali, hanno la rubrica religiosa. Non per dare notizie sugli avvenimenti religiosi, ma perché ogni religione esprima le sue credenze e le risposte che dà ai fatti della vita.

Il nome del monastero è Shantivanam, cioè “luogo della pace” in lingua tamil. Attirati dalla fama di santità di Beda Griffiths vengono anche uomini politici, universitari, persone importanti nella società indiana, per i quali un periodo di preghiera ogni anno è abituale. Il benedettino inglese mi dice: «In Europa noi siamo un po’ tutti atei, pur essendo battezzati: mettiamo altre cose al posto di Dio. Noi cristiani, che abbiamo la Rivelazione, ci illudiamo di avere Dio a portata di mano. Per questo conduciamo una vita superficiale, materialistica. Ma Dio non è possibile conoscerlo intellettualmente, bisogna sperimentarlo nell’amore, nella preghiera, nel silenzio, nella rinunzia. È una vita intima che va vissuta, è un Altro che va cercato, amato, desiderato. Dio si comunica a chi lo cerca con cuore sincero».

«In India, – continua Beda Griffiths – i guru indiani che non hanno ricevuto la Rivelazione cercano Dio per tutta la vita, fanno preghiere e sacrifici, leggono e meditano testi sacri, rispettano la legge naturale, spendono la vita per cercare quel Dio che non conoscono. In India la ricerca di Dio fa parte dell’esistenza comune, non solo dei monaci. Chi è sensibile alle cose spirituali fa pellegrinaggi, digiuni e una settimana all’anno di distacco dalle cose del mondo. Va in un monastero a fare penitenza, rientrare in se stesso e dedicarsi al suo rapporto con Dio». E aggiunge: «La cultura indiana è molto religiosa, anche le persone che sembrano più lontane da Dio, dedicano qualche tempo alla ricerca di Dio e alla preghiera».

A me Beda Griffiths ha dato queste norme di vita: «Dio si rivela solo nel silenzio e nella povertà. Rinunzia a quello che è superfluo, togli le distrazioni della tua vita, mangia di meno, prega di più. Non vivere una vita superficiale, chiedi a Dio che ti faccia conoscere il suo volto. Se vivi nel peccato e nelle distrazioni, Dio ti sfugge, ma se lo cerchi osservando i Comandamenti, nella preghiera e nell’imitazione di Cristo, Dio si manifesta anche a te». Auguro a tutti, in questa calda estate, di saper trovare, nelle nostre frenetiche giornate, il tempo necessario al riposo, al silenzio, alla preghiera che ci fa incontrare Dio.

Piero Gheddo