I giapponesi non conoscono il perdono

Quando parlo del tema missionario in parrocchie o centri culturali, c’è sempre qualcuno che obietta: ma perché portare la nostra religione ad altri popoli che già hanno la loro? Non è un nuovo colonialismo spirituale? Cari amici, la differenza fra un paese cristiano (o cristianizzato da millenni come il nostro) e un paese non cristiano, che non ha ancora ricevuto in profondità il Vangelo, è enorme, abissale e la capisce solo chi è vissuto per lungo tempo in paesi altri, buddisti o musulmani, indù o animisti.

Ieri ho scritto che “I giapponesi non cristiani si sposano in chiesa” e che “in Giappone il Vangelo è spesso il libro più venduto e più letto”. I giapponesi hanno due religioni nazionali, tradizionali, e sono esse a dare senso all’esistenza umana. Lo Shinto illumina tutto ciò che è vita, crescita, movimento, bellezza, gioia…; il Buddismo che tenta di spiegare e consolare davanti al mistero della morte. Ma non influiscono molto sulla vita quotidiana. Comunque, i giapponesi ammirano e vogliono conoscere il cristianesimo e Gesù Cristo perché capiscono, dalla predicazione dei missionari cristiani e dalla testimonianza delle piccole comunità di credenti in Cristo, che “la religione dell’Occidente” ha molte cose di cui anche loro sentono il bisogno, la necessità. Potrei raccontare molti esempi. Ne basta uno.

Padre Alfredo Scattolon, più di trent’anni di Giappone e oggi in Italia, che ho ricordato ieri, mi dice che, durante la cerimonia del matrimonio in chiesa, ai non cristiani fa sempre recitare alcune preghiere cristiane, come quella di San Francesco sulla pace, dove si legge: “Dove c’è l’odio tu o Dio porti l’amore, dove c’è la vendetta tu porti il perdono, dove c’è la guerra tu porti la pace”.

I futuri coniugi leggono e pregano con queste preghiere cristiane, a volte anche il “Padre Nostro”. Per loro vanno bene perché hanno un sapore nuovo, danno un significato nuovo al loro matrimonio e alla loro vita. Mi raccontava che durante la preparazione faceva leggere quelle preghiere, ma quando i due futuri sposi, spesso entrambi già laureati, arrivavano al carattere che indica “perdono” (carattere che i bambini cristiani sanno come leggere fin dalle elementari), il più delle volte non riuscivano a leggerlo, tanto il concetto stesso di perdono  (immaginarsi poi la pratica!) è estraneo alla loro cultura.

Scattolon mi dice: “Vedi, io spiego loro che Dio perdona i nostri peccati…”. Ma anche la parola “peccato” è normalmente presa in tutt’altro senso. Si parla di sbagli, di errori, di colpe che possono portare alla prigione o a qualche vendetta contro di noi, ma di “peccato”, cioè di offesa a Dio, no. Perché l’ideale è di farla franca, di non essere scoperti, di non subire punizioni. Le conseguenze di questa concezione della vita sono tante e non voglio tediare il lettore. Ad esempio, mi dice Scattolon, in famiglia o a scuola raramente un ragazzo viene ripreso e tanto meno punito se fa qualcosa “che non va”; il punto di riferimento per giudicare una azione è se essa mantiene o meno l’armonia con gli altri, per cui non c’è un’educazione a fare il bene ed a fuggire il male per motivi nobili come l’amore di Dio e del prossimo. Cioè le tendenze negative nei giovani non sono corrette; al massimo si dice: “Sta attento che se continui a fare così domani trovi chi ti punisce, ti batte, ti porta in prigione”. Il deterrente al “peccato”, come diciamo noi, non è l’amore di Dio e del prossimo, ma il timore, la paura di conseguenze negative. Se la fai franca, sei a posto….

Noi sappiamo che l’uomo, la persona umana si sviluppa bene, in  modo positivo, quando vive in un clima di amore, di pace, di tolleranza, di sincerità, di gioia, non si timore, paura, doppiezza.

Concludo. Le differenze fra un paese cristiano e uno non cristiano sono tante, profonde, anche se un turista che va in Giappone o in India non le avverte, non le vede. Perché noi missionari andiamo in tutto il mondo ad annunziare il Vangelo? Perché siamo convinti che tutti gli uomini, tutti i popoli e tutte le culture hanno bisogno di Cristo, la più grande ricchezza che abbiamo ricevuto e dobbiamo condividerla con gli altri, con tutti.

Piero Gheddo