Quale nuova evangelizzazione dell'Europa?

                       

 

     “Spiritus”, trimestrale di “esperienze e ricerche missionarie” edito in Francia dagli istituti missionari, pubblica una riflessione sulla “nuova evangelizzazione” dell’Europa  (n. 200, settembre  2010) e inizia con un panorama sommario della vita cristiana nei vari paesi d’Europa.  L‘Autore Eric Manhaenge, direttore della rivista,  conclude dicendo che “la Chiesa è in crisi nel vecchio continente”. Questo è evidente nei paesi più secolarizzati come la Francia, che è un po’ un’eccezione in Europa in quanto la secolarizzazione è già iniziata nel secolo XVIII con l’Illuminismo, molto prima che in altri paesi del continente. Però anche nei paesi che hanno resistito meglio o più a lungo all’ondata dissacratrice e anti-cristiana, Italia, Irlanda, Polonia, Spagna , la frequenza alla Messa domenicale è fortemente diminuita.

    “La situazione sembra nettamente migliore in Italia, dove anche intellettuali atei si mostrano gelosi dell’identità cattolica del loro paese… I sondaggi dicono che la pratica religiosa è ancora molto elevata”. Anche se, aggiunge l’articolo, in Italia si manifesta la tendenza opposta a quella di altri paesi. Le persone interrogate tendono a dire che frequentano la chiesa in misura maggiore di quanto dice la realtà dei fatti, mentre in altri paesi, nei quali la Chiesa ormai conta poco, è vero il contrario: anche chi va in  chiesa tende a dire che non ci va!

     In questa situazione è scoppiato nei mesi scorsi lo scandalo dell’abuso di minori da parte di sacerdoti, che è stato nefasto per la vita cristiana e l’immagine che la Chiesa dà di sé. Anche perché le autorità ecclesiastiche di varie parti d’Europa hanno dato l’impressione di essere reticenti nella trasparenza e nel collaborare con le autorità giudiziarie dei loro paesi. Vescovi e sacerdoti volevano “evitare lo scandalo”. “Percezione in gran parte falsa ma comprensibile” dice la rivista, ma non c’è dubbio che è passata nei mass media e nell’immaginazione popolare: i responsabili della Chiesa hanno cercato di proteggere la reputazione dell’istituzione, anche a costo di esporre bambini innocenti a preti apparsi come “cacciatori di prede”.

     “Il dibattito pubblico nei grandi media ha seriamente danneggiato la Chiesa”. In Italia, sinceramente, a me pare che questo, in genere, non sia successo. Però la riflessione di “Spiritus” riguarda i 27 paesi dell’Unione Europea che sono etichettati come cristiani e nell’immaginario popolare non si fanno molte distinzioni fra un paese e l’altro e fra le varie Chiese cristiane. Lo scandalo ha preso tali dimensioni, che si sono ripresi e descritti come attuali anche molti fatti del passato, come pure non tutte le accuse a uomini di Chiesa corrispondevano alla realtà. “C’è l’impressione – scrive Spiritus – che la società, cosciente delle proprie insufficienze,  abbia trovato nella Chiesa un comodo capro espiatorio. Si voglia o no, questa nuova realtà fa ormai parte dell’immagine che l’europeo del XXI secolo si è fatto della Chiesa cattolica”.

      Lo scandalo della pedofilia (che forse in Italia abbiamo avvertito meno che altrove), deve rendere la Chiesa e i suoi vari organismi più trasparente, più dialogante, più  aperta all’ascolto degli altri.

     “Come Gesù – conclude la rivista – la Chiesa ha certamente qualcosa da dire all’Europa. Gesù ha fatto comprendere che ogni proposta comprende l’ascolto dell’altro e il rispetto per le posizioni di altri (anche se ci sembrano sbagliate!)…. Ogni sforzo di portare la Buona Notizia all’Europa suppone di cogliere l’altro senza riserve. Quello che la Chiesa ha da dire, lo può dire solo nel quadro dell’amicizia e del rispetto… Tutto questo mons. Fisichella l’ha ben compreso e c’è da sperare che il nuovo Pontificio Consiglio diventerà un luogo nel quale si rifletterà su questo tipo di evangelizzazione. Una Chiesa realmente convertita e sinceramente pentita, cosciente delle proprie debolezze, può nuovamente essere accolta dai popoli d’Europa e comunicare in tutta amicizia il messaggio che essa ha ricevuto dal Signore”.

     Fin qui la rivista francese. Credo che in Italia sia necessario informare su questa provvidenziale iniziativa di Papa Benedetto (moltissimi non ne sono informati), esortando i cristiani a diventare partecipi e protagonisti della missione all’Europa. Con la preghiera certo, ma anche con la conversione personale e delle istituzioni che presentano il volto di Cristo e della Chiesa  ai popoli.

                                                                                     Piero Gheddo

 

Come nasce una vocazione missionaria

 

     Il 16 settembre 2010 la città e le parrocchie di Erba hanno celebrato la festa di Santa Eufemia, martire locale del IV secolo d.C. nella chiesetta a lei intitolata nella Piazza del Mercato. Dopo la morte di Dom Aristide, questa celebrazione e festa cittadina è stata destinata a ricordare mons. Aristide Pirovano (1915-1997), fondatore e primo vescovo della diocesi di Macapà in Amazzonia brasiliana, di cui si sta iniziando la causa di beatificazione.

     Nella chiesa strapiena degli amici di dom Aristide e di molti erbesi, alle ore 20  hanno celebrato il parroco don Giovanni Afker e due padri del Pime, Piero Gheddo e Marco Bennati, missionario a Manaus. Padre Marco così ha raccontato la sua vocazione sacerdotale e missionaria:

 

    “Sono nato a Milano in una famiglia religiosa e quell’anno avevo fatto le ferie estive con la parrocchia, ma non ero contento fra l’altro perché il cibo che prendevamo da un ristorante ci aveva intossicati. Anni prima avevo sentito che si poteva andare un mese in estate a lavorare in una missione e papà allora non mi aveva lasciato andare, perchè avevo solo 15 anni. Mi sono rivolto al parroco che mi ha messo in comunicazione con padre Luciano Lazzeri, che era a Milano nel seminario teologico del Pime.

     “Gli ho spiegato che volevo aiutare le missioni e l’anno dopo mi hanno mandato a Marituba col vescovo mons. Pirovano, che non conoscevo. E’ venuto a prendermi all’aeroporto, ci siamo fermati per strada per un furioso temporale e abbiamo chiacchierato di cosa potevo fare nel lebbrosario e lui mi ha raccontato un po’ la sua vita. Poi sono stato un mese con la comunità del padri a Marituba. C’erano anche padre Consonni e padre Marcato e mi rendevo utile nelle infermerie perché ero già volontario sulle auto ambulanze. Quel mese mi è piaciuto e ho fatto quel che mi dicevano di fare. A poco a poco sono entrato nella vita di quei missionari e nel loro lavoro e ho visto che erano sempre allegri, soddisfatti di dare la vita per gli altri, come pure le missionarie dell’Immacolta che li aiutavano.

     “Una delle ultime sere a Marituba ero seduto in veranda ad ammirare il tramonto sul grande fiume, con la Croce del Sud che brillava come non mai. Io sentivo una pace nel cuore che, nella vita turbinosa di Milano, non avevo mai provato. Pensavo che a casa avevo tutto, una bella famiglia con due ottimi genitori e il fratello minore, un bel lavoro in una multinazionale americana dove controllavo la produzione, aiutavo anche in parrocchia, facevo volontariato sulle ambulanze e avevo la morosa. Mi dicevo: cosa vuoi di più? E ringraziavo il Signore.

      “Passa il Pirovano, mi vede pensieroso, si siede accanto a me e mi dice:

         La conosci la storia del giovane ricco che va da Gesù e vuole seguirlo?

          Io ho detto: “No, non la ricordo”.

          Allora lui mi ha raccontato che Gesù dice a quel giovane che era buono e chiedeva di seguirlo: “Ti manca una cosa sola: vendi tutto quello che hai e dallo ai poveri e poi vieni e seguimi”.

         Il Vangelo continua: “Quel giovane si allontanò triste, perché aveva molte ricchezze”.

         E Aristide mi dice: “Non vorrei che anche tu fossi triste perché non hai dato tutto al Signore. Ti manca ancora il coraggio di scegliere”. E se ne va a dormire.

 

      “Una bella batosta per uno che credeva di essere a posto, le sberle a volta fanno bene. Si è accesa in me una luce e sono rimasto con questo grande interrogativo dentro. Sono poi tornato in Italia e ho ripreso la mia vita abituale, il lavoro, la famiglia, la parrocchia, gli amici, la morosa e tante altre cose. Però tutte queste cose avevano perso un po’ il senso di una vita piena e soddisfatta. Anche perché a pensarci bene, ti alzi al mattino e devi correre per arrivare a tempo in fabbrica, timbrare il cartellino che ritimbravo alla sera, lavori tutto il giorno ripetendo sempre le stesse cose. I giorni passano, gli anni passano e mi chiedo: la mia vita è utile a chi e per che cosa? E’ vero che avevo la morosa e volevo sposarla, ma quella vita mi pareva che mi andasse stretta, in confini ristretti. E pensavo ai missionari con i quali avevo vissuto un mese, sempre tra la gente, in contatto con la gente, facendo mille cose per aiutare i più poveri, con giornate piene e orizzonti senza confini. Là i caboclos vengono a cercarti, mentre in fabbrica, in fondo, ero benvoluto e stimato, ma se io non ci fossi stato erano in dieci pronti a prendere il mio posto.

      “E poi mi stava sullo stomaco il perbenismo di oggi, quella marmellata di buonismo che, a parole, trova tutti d’accordo: la pace, l’amore, la solidarietà, ma poi facciamo tutti una vita egoistica. Insomma, io sognavo un’altra vita perché non avevo un ideale per cui valesse la pena di donare tutto me stesso, dando il mio piccolo contributo affinchè il mondo fosse un po’ migliore di com’è oggi. Quasi senza accorgermene, pregando e riflettendo, ho visto che la vocazione missionaria era proprio quello che sognavo.

      “Sono entrato nel Pime, ho fatto gli studi teologici, sono stato ordinato prete a 32 anni nel 1994 e lo stesso anno sono partito per la Costa d’Avorio dove ho lavorato per quattro anni, poi mi hanno spostato in Amazzonia e sono 11 anni che sono a Manaus, parroco a Rio Preto da Eva, una cittadina lontana da Manaus sulla via che va a Itacoatiara. Ringrazio ogni giorno il Signore per la scelta che ho fatto”.

 

     Fin qui padre Marco Bennati. Mi chiedo: è proprio vero che mancano le vocazioni, oppure si può dire che, almeno in alcuni (o in  molti?) casi, manca la proposta di impegnare tutta la vita a servizio di Gesù Cristo e del Regno di Dio?

 

                                                                       Piero Gheddo

 

Due mesi dopo Duisburg

 

 

      Trovo in internet una notizia imprevista perché fuori tempo. L’organizzatore della “Love Parade” svoltasi a Duisburg il sabato 24 luglio 2010, Rainer Schaller, dopo averne discusso con i suoi collaboratori e le autorità politiche, ha annunciato una decisione drastica e definitiva:  in Germania la manifestazione non si svolgerà più. Forse non tutti ricordano cosa è successo. Il 24 luglio circa un milione e mezzo di giovani da tutta l’Europa si erano dati appuntamento nella cittadina tedesca di Duisburg per una giornata  all’insegna del ballo (sballo) e della musica techno ad alto volume, che sarebbe terminata il mattino seguente. L’iniziativa, incominciata nel 1989 a Berlino, è promossa dalla comunità omosessuale per richiamare l’attenzione sulle discriminazioni e la mancanza di parità nei diritti, ma è aperta a chiunque e sono decine di migliaia i giovani provenienti da tutta l’Europa che ogni anno si radunano per questo festival estivo.

     Però il 24 luglio scorso la festa si è trasformata in tragedia, quando centinaia di giovani sono rimasti bloccati in un tunnel che collega la spianata del festival alla città e pressati da altre folle di giovani che da un lato spingevano per entrare  e dall’altro per uscire, a causa di un panico improvviso che si era diffuso fra i partecipanti. Risultato: 19 morti e 516 feriti soccorsi in ospedale. Fra i morti anche una ragazza di Brescia, Giulia Minola di 21 anni. C’era chi, per farsi largo, calpestava i corpi di chi cadeva a terra. “Sono entrato e uscito dall’inferno, non posso ancora capire quello che è successo, la gente cadeva sulla testa degli altri”, ha detto uno degli scampati da quel tunnel della morte.

     Il resto dei partecipanti, ignaro della tragedia, ha continuato a ballare e a festeggiare fino a notte inoltrata. Gli agenti, per evitare ulteriori scene di panico, hanno preferito evitare un’evacuazione totale e immediata.    

     Nella “Rassegna stampa” sull’avvenimento, trovata un internet, c’erano naturalmente giornali tedeschi ma anche italiani e di altri paesi. Scorrendo i commenti alla notizia, mi pare che nessuno condanni una manifestazione del genere: scrivono  che la colpa è della polizia, delle autorità locali o nazionali, del tunnel troppo stretto e via dicendo. Nessuno ha dato un giudizio morale, scrivendo che queste “Love Parade” vanno condannate e proibite.  

     Oggi in Italia tutti avvertono l’emergenza “educazione di giovani”. Le famiglie di separati o divorziati non educano più, le scuole sono decadute, la Chiesa è abbandonata dai  giovani…. Però la Chiesa ha fatto gli oratori (in Italia circa 6.000), dove c’è l’educazione all’onestà, allo sport, alla convivenza civile, alla fede cristiana che responsabilizza i giovani ad apprezzare il dono della vita.

     In un’epoca in cui la Chiesa non riesce più a gestire gli oratori e deve chiuderli per mancanza di personale e di risorse, la cosiddetta “morale laica” cosa ha fatto e fa per i giovani? Ha sostituito gli oratori con le discoteche che molti definiscono “centri di diffusione delle droghe”. Infatti i morti delle notti fra sabato e domenica sono in genere giovani che si mettono alla guida sotto l’influsso di alcool o di droghe. E ha creato tanti tipi di “Love Parade”, dove la perversione, il caos e il vuoto spirituale regnano sovrani. Droga, alcol, sesso libero e musica psichedelica per ore ad altissimo volume, sono alcuni dei “diversivi” che i ragazzi cercano e trovano in questi ritrovi autorizzati, a volte promossi e finanziati dai governi locali. Tutto questo è il frutto della nostra civiltà sempre più lontana da Dio e quindi dall’educazione dei giovani.

                                                             Piero Gheddo

 

Come rispondere alla sfida dell'islam

 

  

     Sul fronte della convivenza con l’islam ci sono spesso notizie negative, quasi sempre dalla parte dell’islam. Questa volta è il pastore “evangelico” (battista) Terry Jones, che si è proposto di bruciare decine di copie del Corano, dandone pubblicamente notizia  a tutto il mondo. Poi, tra tira e molla, interviene anche il Presidente americano Obama e il gesto insensato, che sembrava opera di un matto autentico, non succede. Inevitabile però che queste notizie, per più d’un mese, rimbalzino in prima pagina sui media di tutto il mondo, giornali e televisioni, radio e siti internet.

     Potrebbe essere una delle tante bufale estive, a fine agosto non se ne parla più. Invece, ad inizio settembre, ecco le notizie che si potevano temere. Come  documenta “Asia News”, in varie parti dell’India (una ventina di morti) e del Pakistan sono ripresi gli attacchi alle chiese e alle istituzioni cristiane. Non solo con lanci di pietre, ma con incendi e saccheggi, anche con violenze ai cristiani che difendono i loro luoghi sacri e le loro proprietà

     Insomma, pare che la semplice notizia di un minacciato ma ipotetico gesto offensivo nei confronti dell’islam (che poi non s’è verificato) scateni l’odio anti-cristiano che agita alcune fasce o settori o gruppi dei popoli islamici, mentre non succede lo stesso fra i popoli cristiani.

 

     Le differenze sono queste:

 

     Primo. Cristiani e musulmani vivono in poche storiche diverse. Noi nel 2010 dopo Cristo, i musulmani nel 1400 dopo Maometto. L’evoluzione storica è stata diversa, noi siamo entrati nel “temo moderno” i musulmani vivono ancora in un tempo storico meno evoluto.

     Secondo. Contro ogni fanatismo religioso e violenza in nome della fede cristiana, c’è Gesù Cristo, che ha comandato di fare e ha fatto tutto il contrario, che s’è lasciato flagellare e appendere alla Croce ingiustamente e senza reagire, anzi pregando  per i suoi carnefici. Le radici dell’islam sono il Corano e Maometto che, com’è noto, dicono e hanno fatto cose molto diverse. Maometto è stato uomo religioso, profeta e fondatore di una religione che ha grandi valori, ma anche condottiero militare e conquistatore con la spada di nuovi popoli all’islam.

     Le radici contano molto nella vita dei seguaci di una fede religiosa! E’ il motivo per cui l’islam non riesce ad entrare nel mondo moderno, che è nato dal mondo cristiano e dalle radici cristiane. La nostra risposta e il nostro aiuto ai fratelli e sorelle islamici non è di bruciare il Corano, ma di tornare, come popoli cristiani, a vivere e praticare la fede dei nostri padri. Oggi il nostro Occidente cristiano è religiosamente un contenitore vuoto o semi-vuoto. Stiamo ridiventando pagani e perdendo anche culturalmente la nostra identità cristiana. Inevitabile che l’islam si riproponga di conquistare i popoli europei, questa volta non con la spada, ma con la forza della fede.  

                                                             Piero Gheddo

Perchè il post-Concilio è così difficile?

                   

 

     Gli ultimi 50-60 anni della Chiesa cattolica sono di difficile lettura. Per capire questa affermazione, bisogna ricordare lo spartiacque del Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965), cioè com’era la Chiesa prima e dopo il grande discrimine. Essendo nato nel 1929 e sacerdote nel 1953, ho vissuto abbastanza per dire che la Chiesa prima del Concilio era molto diversa da quella che viviamo oggi. Certamente più unita e più sicura della Verità che annunziava (lo studio delle teologia a noi giovani seminaristi e preti dava certezze, oggi semina interrogativi, ipotesi e dubbi), ma anche ingessata in formalismi, schematismi, clericalismi, giuridismi, autoritarismi, trionfalismi….

 

    Pio XII, parlando ai giornalisti nell’Anno Santo 1950, aveva esortato a formare una “opinione pubblica” nella Chiesa (il suo discorso era spesso citato alla scuola di giornalismo), cioè la libertà, per formare una coscienza matura, di discutere e anche di dissentire riguardo alla linea tenuta dalle autorità ecclesiali, un dibattito e una condivisione, in modo da non soffocare sul nascere le idee nuove che potevano sorgere anche nei fedeli e nel clero. Ma questa esortazione del Papa era intesa nel quadro della fede e dell’obbedienza sostanziale, per mantenere l’unità e la carità tra i membri del gregge di Cristo.

 

     Poi è venuto l’inaspettato e straordinario Giovanni XXIII (il Papa di Sotto il Monte) e il suo Concilio Vaticano II (1962-1965), una meravigliosa e provvidenziale svolta nella storia della Chiesa dei nostri tempi. In quegli anni lo Spirito soffiava veramente forte e spingeva la Chiesa ad un “aggiornamento”, come diceva Giovanni XXIII. I temi più sentiti alla base e tra i padri conciliari erano la sincerità, la trasparenza, la collegialità, la povertà, la condanna del trionfalismo e del clericalismo, l’apertura al “dialogo” ecumenico e con le religioni non cristiane (la prima enciclica di Paolo VI del 1963 era sul dialogo); insomma, tutti sentivamo l’urgenza per la Chiesa di svecchiarsi e rinnovarsi per essere efficace nel testimoniare e trasmettere il messaggio di Cristo agli uomini del nostro tempo.

 

     Ho seguito a Roma il Concilio come direttore di “Mondo e Missione” (allora era “Le Missioni Cattoliche”) e giornalista dell’Osservatore Romano; inoltre ero “perito”, nominato da Giovanni XXIII, per il decreto “ad Gentes”. Ricordo bene che durante e subito dopo il Concilio  noi giovani preti eravamo entusiasti della Chiesa e della missione, avevamo una forte carica di evangelizzazione che ci era venuta proprio dal Concilio. Erano gli anni in cui lo Spirito suscitava numerose vocazioni alla vita consacrata e al sacerdozio. Ma poco dopo la fine di quel tempo affascinante, nasce nella Chiesa uno spirito di critica, di contestazione, di polemica, che era il frutto dell’atmosfera creata dal “Sessantotto”, un movimento culturale di denunzia, di rivolta contro la società esistente e ogni tipo di “potere” e di “autorità”,  che ha creato, assieme a cose positive, anche danni irreparabili alla famiglia (il sesso libero), alla scuola (il voto politico uguale per tutti), alla società (lo spirito di denunzia e di protesta) e alla Chiesa (la contestazione permanente e militante del Papa). Sono solo esemplificazioni sommarie per dire il risultato spesso anarchico del Sessantotto.

 

    Nella Chiesa, soprattutto fra i teologi e la stampa cattolica, si sono formate due correnti di pensiero che, semplificando molto, avevano queste caratteristiche: 

 

      1)  Da una parte si pensava che il Concilio era finito e andava studiato, vissuto e applicato; dall’altra che il Concilio era un’opera incompleta, incompiuta, cioè rimasta a metà del guado, e che, per aggiornare la Chiesa ai tempi moderni, era necessario proseguire non tanto secondo la lettera (cioè i testi ufficiali approvati), ma secondo “lo spirito del Concilio” sulla via dei dibattiti e delle sperimentazioni, accelerando il cammino verso il prossimo inevitabile Concilio Vaticano III. Si incominciò a discutere fra la lettera e lo spirito del Concilio: la lettera erano i testi dei documenti approvati, lo “spirito” era quello rappresentato dalle idee dei “progressisti” e dei “profeti”. Allora, bastava andare contro quanto il Papa diceva o scriveva (penso ad esempio alla Humanae Vitae del 1968!) e si veniva proclamati “profeta dei tempi nuovi”.

 

     2) Da un lato si guardava al Concilio come alla conclusione di un lungo cammino storico di ”aggiornamento” della Chiesa, ma nella continuità col passato; dall’altro il Concilio era inteso come una rivoluzione, una rottura col passato, l’inizio di un cammino nuovo che andava reinventato giorno per giorno; quasi un punto di partenza per una nuova Chiesa, che nel suo passato vedeva solo i fatti negativi.

 

     3)  La collegialità nel governo della Chiesa era interpretata in modi molto diversi, direi opposti: da un lato la libertà di esprimere e discutere esperienze e orientamenti nuovi, però nell’obbedienza al Papa e ai vescovi a lui uniti; dall’altro la libertà e l’autonomia delle Chiese locali assumeva un valore assoluto, per cui ogni intervento di Roma era visto (e a volte è ancora visto) come un freno al rinnovamento, un ostacolo all’attuazione dello “spirito del Concilio”. Non solo, ma l’autorità nella Chiesa, in diocesi, seminari e istituti religiosi e missionari, veniva fortemente minata dalla prevalente idea che anche il Popolo di Dio doveva essere governato con metodi “collegiali” e “democratici”. L’autorità infatti, si diceva, viene dal basso, nasce dalla base, dal popolo; mentre secondo la Scrittura e la Tradizione, la Chiesa non è una “repubblica”, ma una “monarchia” perché l’autorità viene da Dio (sto semplificando molto per far capire le conseguenze di un certo spirito di quel tempo!).

 

      4)  Il dialogo interreligioso e interculturale era accolto con gioia: ma alcuni lo vedevano come un ascolto, un confronto e una collaborazione con fedeli di altre fedi e credenze, avendo però ben fermo il radicamento nella fede, nella tradizione cristiana e nell’unità della Chiesa; dall’altro era visto come un andare verso gli altri, conoscerne e apprezzarne i “valori”, “fare un cammino insieme”, fino a giungere ad una specie di integrazione vicendevole. La storia di come sono nati e tramontati i “cristiani per il socialismo” (che assurda illusione!) e quelli che promuovevano il dialogo col marxismo e col movimento comunista lo dimostra ampiamente; così come non pochi fra quelli che si erano lanciati nel dialogo (non rettamente inteso) con induismo e buddhismo.

 

 

      5) Un’altra novità del Concilio era la presa di coscienza della Chiesa circa la fame e miseria estrema di gran parte dell’umanità e delle ingiustizie a livello internazionale fra popoli ricchi e popoli poveri. La soluzione che il Concilio proponeva, oltre alle riforme per orientare come Cristo i credenti verso i poveri e gli “ultimi”, era la “Dottrina sociale della Chiesa” (più volte nominata nella Gaudium et Spes). Ma nell’atmosfera dei tempi post-conciliari e sessantottini, alcuni interpreti “profetici” dello “spirito del Concilio” affermavano che la Chiesa non ha nulla o ben poco da dire in campo politico-sociale-economico. Se si voleva veramente fare il bene dei poveri, bisognava seguire l’unica “lettura scientifica della società” a favore dei poveri, che era quella marxista. Non per diventare comunisti e approvare tutto quello che faceva il comunismo nel mondo, ma per “fare un cammino insieme” alle forze popolari che contestavano il capitalismo e preparavano un mondo nuovo più giusto ed egualitario. “L’unica speranza dei poveri è il socialismo” mi diceva il grande padre Davide Turoldo nel novembre 1973 a Torino, al congresso dei “Cristiani solidali con Vietnam, Laos e Cambogia” (a cui ero stato invitato a dare la mia testimonianza su richiesta del  Card. Pellegrino). Non c’è da meravigliarsi perchè allora la cultura dominante in buona parte del mondo cattolico (e anche nelle associazioni giovanili) era questa: oggi nessun cattolico di semplice buon senso lo direbbe più, visto come sono finite le  molte esperienze del “socialismo reale”.

 

    6) Nella confusione di idee di quel tempo, che tra l’altro allontanava (o disaffezionava) non pochi preti e fedeli dalla Chiesa, per i vescovi italiani il punto di riferimento preciso era il Papa. Ma l’altra corrente di pensiero affermava che Paolo VI (il “Papa tentenna”, “Paolo il mesto”) era animato dalla “paura del nuovo”. E dopo le aperture del tempo conciliare aveva subito tirato il freno con molti decreti sull’applicazione del Concilio (come la “Ecclesiae Sanctae” del 1966), che ristabilivano l’autorità di Roma sulle Chiese locali, togliendo loro l’autonomia indispensabile per sperimentare e portare avanti le novità conciliari. Paolo VI, a quel tempo, era snobbato, contestato, anche deriso. A volta dico che “il Papa martire” del secolo XX è stato Paolo VI. Alcuni, per salvare la sua persona, dicevano che lui in realtà non era così, ma che la mitica “Curia romana” l’aveva ingabbiato e costretto a fare un cammino diverso da quello che aveva previsto o voluto.

 

     Cari amici di Radio Maria, la Chiesa, anche in Italia, oggi soffre ancora di questa divisione, che non viene dal Concilio e dai suoi documenti, ma dall’interpretazione errata che non pochi ne hanno dato. Quindi, mentre in passato, fare il prete era abbastanza semplice anche se costoso in termini di rinunzie, sacrifici e mortificazioni, in seguito è diventato più difficile perché la via da percorrere, per molti, non è più così chiara e sicura.

     Eppure la via chiara e sicura esiste, è quella indicata dal Papa e dai vescovi e lui uniti. Cristo ha fondato la Chiesa proprio perché trasmettesse al mondo il suo messaggio in modo integro, assicurandole la protezione dello Spirito Santo per tutti i secoli, e affidando a Pietro il compito di “confermare nella fede i fratelli”. Ecco perché, oggi più che mai, nella confusione di idee che circola nel mondo è importante amare il Papa, pregare per il Papa, conoscere quel che il Papa dice in nome di Cristo. Chi si allontana da Pietro, si allontana da Cristo.

                                                                                     Piero Gheddo

Missionari veneti nel mondo

        

 

       La “Regione  del Veneto” pubblica un bel libro su “Missionari veneti nel mondo” (pagg. 232). Frutto di accurata indagine, pubblica un dato quasi incredibile: i missionari veneti “sul campo”, vescovi, preti, suore, laici sono 3.471, di ciascuno dei quali è pubblicato nome, cognome e indirizzo (non per tutti è segnata l’appartenenza ad un ordine religioso o istituto missionario). Ce ne sono in tutti i continenti, così suddivisi: Americhe 1.423, Africa 880, Europa 829 (di cui circa 300 in Italia), Asia 301, Oceania 38. Le diocesi più prolifiche sono Padova (893), Treviso  (873), Vicenza (795), Verona (572) e Vittorio Veneto (119). Fra i missionari sul campo sono citati anche circa 300 in Italia e non si capisce perché, a meno di considerare anche il nostro paese come terra di missione. Il che mi pare esagerato. L’abisso fra un paese cristianizzato da duemila anni e uno che incomincia adesso a ricevere l’annunzio di Cristo è’….abissale. Ma questa è una tendenza molto comune (“Siamo in missione anche qui”), che Giovanni Paolo II condannava nella sua “Redemptoris Missio” del 1990 (nn. 32, 33, 34).

     I dati sono stati forniti dai Centri missionari diocesani delle nove diocesi del Veneto, regione che ha 4.832.340 abitanti. La Lombardia, con 9.642.406 abitanti (e dieci diocesi), è facile immaginare che ne abbia di più. Ricordo una statistica di pochi anni fa secondo la quale i missionari della sola diocesi di Milano erano più di circa 2.500. Di fronte a queste statistiche è logico chiedersi: quanti sono i missionari italiani sul campo oggi? Vent’anni fa si diceva circa 16.000, oggi si dice 12.000, ma sembra un dato o una stima inferiore alla verità. Possibile che due sole regioni su 18 abbiano almeno la metà del missionari sul campo?   

      Il dott. Oscar De Bona, Assessore alle politiche dei flussi migratori della Regione Veneta scrive nella Prefazione: “Abbiamo pensato di realizzare questo indirizzario per due motivi: anzitutto per essere riconoscenti del lavoro che i missionari stessi svolgono perché anche loro, con la loro dedizione, sono ambasciatori del Veneto e dei suoi valori; in secondo luogo, per delineare e quantificare una dimensione della Chiesa cattolica in Veneto assolutamente importante e significativa anche per il tessuto sociale. Ai 3.471 missionari veneti che percorrono le vie dei  cinque continenti corrispondono, in Veneto, altrettante associazioni, gruppi missionari, movimenti, congregazioni di riferimento e di sostegno”.

     E il Cardinale Angelo Scola, Patriarca di Venezia, aggiunge: “Se la passione missionaria che anima una comunità cristiana è un test decisivo della sua verità e della sua validità, la presenza di 3.471 missionari veneti nei cinque continenti esprime più di altre importanti considerazioni la vitalità della fede nelle nostre terre. I curatori della presente pubblicazione hanno il merito di aver saputo cogliere questa urgenza, creando una prima semplice “rete” che consenta e faciliti la comunicazione tra tutte le presenze dei nostri missionari nel mondo”.

     “In questo umile ma prezioso servizio reso alla comunicazione – continua il Card. Scola – brilla il valore profondo dell’insostituibile soggetto di ogni azione missionaria: la comunità cristiana, nella quale soltanto la testimonianza del singolo riceve piena fisionomia. Auspico che la pubblicazione di questo volumetto contribuisca a rafforzare in tutti i fedeli, soprattutto nei giovani, questa consapevolezza e li renda sempre più generosi nello spendersi missionariamente a favore di tutti i fratelli uomini”.

     Il volumetto della Regione Veneto è stato ampiamente diffuso fra la popolazione come strumento di conoscenza e di contatto con i missionari veneti nel mondo. Domanda:  quando le altre Regioni d’Italia pubblicheranno un simile sussidio che in qualche modo riporta alla ribalta e all’attenzione del popolo italiano, la presenza di tanti testimoni dell’Italia nel mondo?

                                                                      Piero Gheddo

Come rispondere alle sfide di Gheddafi

 

     Il 31 agosto scorso i giornali italiani portavano in prima pagina la provocazione di Muhammar Gheddafi, ospite del governo italiano per il II° anniversario della firma del Trattato di pace e di collaborazione fra i due paesi. Il capo libico, come tutte le volte che visita un altro paese (persino all’Assemblea generale dell’ONU lo scorso anno), anche questa volta ha lanciato la sua sfida. Prima ha tenuto una lezione sull’islam alle 500 hostess espressamente reclutate da un’agenzia e le ha invitate a convertirsi all’islam, affermando che “in Libia la donna è più libera che in Occidente”; poi ha detto chiaramente che l’Europa è destinata a diventare islamica.

    Giornali e televisioni hanno ridotto l’avvenimento ad un caso politico, accusando il governo e il presidente Berlusconi di aver permesso al capo beduino di approfittare della nostra ospitalità per insultare il popolo e la nazione italiana. Giusto, ma a questo modo si continua a strumentalizzare tutto a fini politici italiani, mentre, come ha detto ad “Avvenire”  l’islamologo gesuita egiziano Samir Khalil Samir: “Si tratta di una previsione non certo campata in aria e starei attento a liquidarla come una boutade di poco conto”. La demografia e la convinzione religiosa dei popoli testimoniano contro di noi italiani ed europei.

      Personalmente penso che fra i capi dei paesi islamici Gheddafi non è certo il peggiore perché nel suo paese, certo da dittatore (quale  paese islamico si può definire democratico?), sta facendo cose buone: ha smesso di finanziare il terrorismo, tiene a freno l’islam estremista che ha in casa sua, ha mandato le ragazze all’università e le bambine a scuola, ha aperto le vie per il lavoro femminile, usa il petrolio per fare strade, case, ospedali, estrarre l’acqua dal deserto (tirata su da 800-1000 metri!) e canalizzarla  con acquedotti sotterranei per irrigare il nord Libia, ecc.

     Certo è uno sbruffone che viene a dirci di convertirci all’islam, dovunque va dorme sotto una tenda e tante altre trovate (o pagliacciate) folcloristiche; ma non mi pare che questo teatrino di Gheddafi debba impedirci di stringere accordi vantaggi con la Libia, da dove viene circa il 30% della nostra energia elettrica. Per rompere i rapporti con Gheddafi bisognerebbe prima conoscere chi può assicurarci, a prezzi migliori,  questa forza motrice che ci permette di andare in auto e accendere la luce nelle nostre case.

    Nessun giornale invece (eccetto “Avvenire”) ha preso in considerazione seriamente  come si può rispondere a questa sfida dell’islam, che prima o poi conquisterà la maggioranza in Europa. La sfida va presa sul serio. Certamente da un punto di vista demografico, perché ormai è chiaro a tutti che gli italiani diminuiscono di circa 120-130.000 persone all’anno a causa degli aborti e delle famiglie disastrate; mentre fra i più di 200.000 immigrati legali l’anno in Italia più della metà sono musulmani e le famiglie islamiche hanno un tasso di crescita molto più alto di quello delle nostre famiglie! Di questo sui giornali e nei talk shaw televisivi non si parla mai.

     Ma la risposta va data anzitutto in campo religioso, culturale, identitario. Nel nostro paese (e nell’Europa cristiana)  diminuisce la pratica religiosa e dilaga l’indifferentismo; il cristianesimo e la Chiesa vengono osteggiati. Quando c’è qualche notizia negativa sulla Chiesa ci sono giornali che la pubblicano con risalto, a volte anche con accenti di giubilo. La Costituzione europea rischiava di essere approvata pur non nominando le “radici cristiane” della nostra cultura e del nostro sviluppo. Il fatto è che, come popolo, diventiamo sempre più pagani e il vuoto religioso viene  inevitabilmente riempito da altre proposte e forze religiose. Se ci consideriamo un paese cristiano, dovremmo ritornare alla pratica della vita cristiana, che risolverebbe anche il problema delle culle vuote.

     Per concludere, la sfida di Gheddafi parte da una visione dell’Europa che hanno i popoli islamici e ripetono spesso i loro giornali. Nel 2004 ho visitato la Malesia e l’arcivescovo della capitale Kuala Lumpur mi mostrava l’editoriale del massimo quotidiano locale in inglese (“The Star – The People’s Paper”) che diceva: “L’Occidente cristiano è ricco, benestante, istruito, democratico, militarmente potente, ma vuoto di ideali e di figli perchè senza Dio. L’islam ha un compito storico: riportare l’Europa a Dio”.  Perché di una risposta a questa provocazione, molto diffusa tra i popoli islamici (e che la cultura locale proclama a piena voce) non si parla, non si discute mai?

 

                                                                                                 Piero Gheddo

 

Profeti di sventura o di speranza?

 

                    

    Ieri, 31 agosto 2010 scorso (27° anniversario della sua morte), ho celebrato, come tutti i mesi, la S. Messa per la glorificazione del servo di Dio dottor Marcello Candia  (1916-1983), industriale milanese che a 48 anni ha venduto le sue industrie ed ha speso gli ultimi 18 anni della vita con i missionari nell’Amazzonia brasiliana, spendendo tutti i suoi averi per aiutare i poveri e i lebbrosi, condividendone la vita. E’ un modello per il volontariato internazionale ed è sulla via per essere proclamato Beato.      

     Ha ricevuto numerosi premi e riconoscimenti di prestigio. Nel 1971 il Presidente del Brasile, Emilio Garrastazu Medici, gli ha conferito il grado di Ufficiale dell’Ordine nazionale del “Cruzeiro do Sul”, la massima onorificenza brasiliana per i benemeriti della nazione, conferita solo ad una ventina di viventi, Marcello unico straniero.  Nel 1975 il settimanale “O Cruzeiro” ha pubblicato un lungo servizio sulla sua vita e le sue opere in Brasile, definendolo “L’Uomo più buono del Brasile”.    

     Il 25 novembre 1982, all’Accademia dei Lincei il Presidente della Repubblica Italiana, Sandro Pertini, gli ha consegnato, assieme a letterati e poeti, il “Premio Feltrinelli”, attribuitogli “per un’impresa eccezionale di alto valore morale e umanitario”. Candia era accanto a Gùnther Grass, candidato al Premio Nobel, emerso nel dopoguerra come un astro della letteratura tedesca e considerato uno dei “profeti” della nostra epoca. E Grass, nel discorso ufficiale di accettazione del Premio, parlando in rappresentanza degli altri quattro premiati, descrive un futuro nero per il mondo e per l’uomo: fame, povertà, morte, guerra, aria inquinata e acque avvelenate, boschi distrutti ed animali estinti, corsa folle alle armi atomiche.

    Grass non propone alcuna soluzione a questo sfascio del pianeta e dell’umanità. Calmo e cupo, in abito nero, ha il tono di un profeta, ma “profeta di sventura” che non vede altro se non l’annientamento dell’uomo e la fine del mondo. “Rimane la protesta – conclude – indebolita da attacchi di impotenza. Una paura balbettante, che presto non troverà più parole e si rivelerà un terrore muto perché, di fronte al nulla, nessun uomo ha più senso”.

    L’assemblea attonita guarda nel vuoto senza reazioni. Forse ciascuno pensa a come salvarsi dall’apocalisse o a come meglio godere gli ultimi spazi di vita che il caos prossimo venturo ancora ci lascia. Marcello, seduto vicino a Grass, non riesce ad atteggiare il vo  lto a tristezza o meditazione, come la circostanza richiederebbe. La risposta al catastrofismo di Grass lui l’ha già data con la sua vita donata al prossimo: una vita di pace e di aiuto ai più poveri, che costruisce e non solo protesta. Anzi, una vita che è stata la più autentica protesta contro le tendenze nichiliste del nostro tempo. Marcello ha dimostrato che nulla è perduto per l’uomo e l’umanità, fin che rimane l’amore capace di dare la vita per il prossimo, fin che l’uomo ha fiducia in Dio che dà speranza e capacità di reagire positivamente, con energia e creatività.

     Mai come in quel momento della consegna del “Premio Feltrinelli” molti hanno avuto ho avuto la chiara percezione di quel che Marcello Candia rappresenta per il mondo d’oggi: anche lui profeta, ma profeta di speranza e di ottimismo. Un segno concreto di amore all’uomo, contro ogni tendenza al pessimismo radicale che corrompe il nostro popolo.

                                                                             Piero Gheddo