La fede dei semplici ci salverà

L’ultima settimana di maggio l’Italia ha salvato in mare 13.000 migranti. Le strutture di accoglienza sono al collasso, si pensa di mandare 70 migranti per provincia. Comunque  è una grave emergenza nazionale. Nei miei viaggi di visita alle missioni ho già visto situazioni simili. Ne racconto una, solo per dare un’idea dell’abisso che esiste fra la nostra Europa, colta e democratica e l’Africa più povera, ricca solo di umanità.

Nel 1991 ero nel Mozambico indipendente dal 1975, disastrato dalla guerra civile: sparatorie, posti di blocco, attentati terroristici, villaggi bruciati, profughi in fuga. Ma ho potuto visitare quattro diocesi: Maputo (con i Missionari della Consolata), Beira (con i Padri Bianchi), Quelimane (con i Dehoniani), Nampula (con i Comboniani) e parecchie  missioni dell’interno. A Beira, la seconda città del Mozambico, il padre Bianco francese di cui ero ospite mi dice che i suoi cristiani sono gente semplice, ma hanno una fede molto viva. E mi fa incontrare uno dei suoi catechisti, Antonio Macuse, responsabile della comunità cristiana di un quartiere lungo il mare. È un padre di famiglia con cinque figli che fa il pescatore in una cooperativa, sua moglie è l’infermiera del quartiere, anche lei credente. Due giovani pieni di vita e di fede.

Antonio mi dice: «Siamo in guerra da molti anni e una delle piaghe della nostra città sono i bambini abbandonati, i “meninos da rua”, bambini di strada: non hanno più nessuno, né casa, né genitori. Vivono alla giornata, mangiano e dormono quando e dove possono». Gli chiedo quanti sono e risponde: «A Beira parecchie migliaia, su un milione circa di abitanti. Ma la nostra gente è buona, le famiglie sono accoglienti: hanno poco, ma quel poco lo distribuiscono volentieri. I “meninos da rua”, che in genere vengono dalla campagna, dai villaggi bruciati o assaltati dalla guerriglia, prima o poi riescono a trovare una famiglia che li accoglie. Io ho già cinque figli, ma, d’accordo con mia moglie, ne abbiamo presi altri cinque. Come si fa a lasciare un bambino per strada?» .

Antonio parla con grande naturalezza, come si trattasse di un fatto normale. Mi porta a vedere la sua abitazione: tre stanze più la cucina, i servizi e un balcone, in un palazzo a molti piani, costruito al tempo dei portoghesi ma già fatiscente. Mi pare impossibile che riescano a dormire in 12, ogni notte, in quelle tre stanze. Ed anche mangiare tutti i giorni. «Padre – mi dice Antonio – il Signore è buono ci ha sempre aiutati. Tanti ci aiutano anche per portare i bambini a scuola e sostituirci in casa quando siamo fuori per lavoro, ma senza l’aiuto della Caritas parrocchiale, non potremmo farcela. Oggi l’educazione dei miei cinque figli più grandicelli (la prima ha 16 anni) è più facile. Si sentono responsabili anche loro di questi nuovi fratellini e sorelline. Insegnamo a tutti le preghiere cristiane e preghiamo assieme a loro». Nella casa di Antonio e Maria c’è il letto matrimoniale e due altri letti, dove dormono i maschietti e le femminucce più piccoli. Da sotto questi due letti, Antonio tira fuori le stuoie di paglia che stende per terra anche nel corridoio. «Ciascuno ha il suo letto e la sua coperta – dice – e sono tutti al riparo dalla pioggia».

In Mozambico, una delle parole portoghesi più usate è “partilhar”, che significa “condividere”, farne parte a tutti. È il Vangelo tradotto in pratica, che diventa vita. L’ho sperimentato in varie circostanze. Ad esempio, se dai una caramella a un bambino, quello va subito a cercare il fratellino o l’amichetto per farne succhiare un po’ anche a lui. Ho pensato spesso, durante il viaggio in Mozambico, che l’Africa, il continente più povero e primitivo, è la riserva di umanità che Dio ha preparato per questo nostro tempo e sta offrendola a noi, popoli ricchi, più colti, più produttivi, più tecnicizzati, ma tanto aridi e dal “cuore duro”. La fede dei semplici, se diventa esemplare anche per noi, ci può salvare.

 

Africa un miliardo di abitanti

Secondo la stima dell’organismo dell’ONU Unpf (United Nations Population Fund) alla fine del 2009 è nato il miliardesimo africano, cioè l’Africa ha raggiunto un miliardo di abitanti. In genere si dice e si scrive che ha circa 900 milioni di abitanti (il “Calendario Atlante De Agostini 2009” dice 929 milioni) e invece sono un miliardo, quasi il doppio dell’Europa comunitaria (circa 600 milioni).

Il miliardo di africani crescono di 24 milioni all’anno e possono raddoppiare entro il 2050, raggiungendo i due miliardi. L’Africa è il continente con il più alto tasso di natalità del mondo, i bambini e gli adolescenti con meno di 15 anni sono 400 milioni, il 40% del totale. In Italia i nostri minorenni con meno di 15 anni sono il 17% dei 60 milioni di italiani, circa 10 milioni! Africa continente dei giovani, Italia (ed Europa) paese e continente degli anziani.

Queste moltitudine di giovani africani hanno diritto di avere l’istruzione, un impiego gratificante e un’adeguata assistenza sanitaria: le condizioni sociali ed economiche del mondo globalizzato saranno in grado di soddisfare le loro crescenti aspettative? Nel mondo globalizzato questo sarà tra i principali problemi sociali dei prossimi decenni. I giovani africani sono un potenziale enorme di crescita dell’intera umanità, ma oggi rimangono in buona parte nell’ignoranza e nella povertà e domani saranno una bomba demografica pronta ad esplodere.

Spesso si dice e si scrive che l’Africa è povera perchè sovraffollata. Menzogna colossale. Il continente africano ha 31 abitanti per chilometro quadrato, l’Europa comunitaria 61, il Giappone 343. Europa e Giappone non hanno quasi nulla delle immense risorse dell’Africa. Riccardo Cascioli e Antonio Gaspari nel recente volume “Le bugie degli ambientalisti” (ed. Piemme), scrivono che “dei 21 paesi più poveri del mondo solo 7 hanno una densità superiore ai 100 abitanti per kmq. e i 5 paesi africani fra i più colpiti dalla fame (Etiopia, Sudan, Somalia, Mozambico e Liberia) il più popolato ha una densità di 41,8 abitanti per kmq.”. L’India, con più d’un miliardo di abitanti, è estesa poco più di Sudan ed Etiopia sommate assieme con soli 120 milioni di aitanti. Eppure Sudan ed Etiopia soffrono la fame, l’India esporta cibo anche in Africa e da vent’anni è in pieno sviluppo economico, con un indice dì crescita del Pil del 6-8% l’anno. Ci sono i poveri e gli affamati anche in India, ma per insufficiente distribuzione della ricchezza, non per mancanza di produzione di cibo. L’Africa produce poco cibo. I paesi a sud del Sahara importano circa il 30% del cibo di base che consumano (riso, grano, mais).

Noi, ricchi e privilegiati del mondo non vogliamo ammettere che la povertà del’Africa dipende anzitutto e soprattutto, prima di qualsiasi altra causa (e ce ne sono molte altre), dalla scarsezza o mancanza di istruzione. Non è possibile che si sviluppi un continente con il 50% di analfabeti, oltre a circa il 25-30% di “analfabeti di ritorno”, cioè quelli che hanno frequentato qualche classe delle elementari, ma poi non sanno leggere né scrivere perché non hanno mai avuto la possibilità di esercitarsi. Di scuola e di istruzione-educazione, per aiutare l’Africa giovane, si parla e si scrive troppo poco perché chiama in causa i nostri paesi ricchi e cristiani, che dovremmo correre in aiuto ai fratelli e sorelle africani. Invece in Occidente diminuiscono le vocazioni missionarie, i volontari e gli organismi di volontariato internazionale. E’ un segno evidente, fra tanti altri, della crisi di umanità e di vita cristiana del nostro popolo.

Piero Gheddo

Perchè illudere i popoli africani?

Nel Blog del 20 settembre scorso  ho riferito che il 4 settembre l’agenzia Zenith ha dato notizia di una lettera che 50 leaders religiosi e direttori di agenzie che aiutano i paesi poveri hanno inviato al segretario delle Nazioni Unite, nella quale si legge che “la corruzione è la maggior causa di  povertà nei paesi in via di sviluppo”. Ho raccontato alcuni esempi riferiti al Camerun, l’ultimo paese africano che ho visitato nell’inverno 2006-2007. Un missionario che ho conosciuto in Africa anni fa, mi telefona per dirmi che quanto scrivo deprime ancor più l’immagine dell’Africa nell’opinione pubblica italiana. “L’afro-pessimismo, dice, non porta risultati positivi, oggi noi italiani dobbiamo aiutare l’Africa, non  deprimerla ancora di più”.

Gli ho risposto che per aiutare gli africani (e bisogna aiutarli!) anzitutto non dobbiamo illuderli. Se 50 Ong religiose che operano in Africa (fra le quali Caritas Internazionale) affermano in una lettera ufficiale che la corruzione è la maggior causa di miseria dei popoli poveri, non posso far finta di niente e consolarmi dicendo e scrivendo che gli africani hanno dei grandi valori umani e culturali (e ci credo anch’io, lo scrivo spesso). Le élites africane debbono rendersi conto che, continuando a quel modo, i loro paesi non possono svilupparsi. Parlando a volte con africani colti, laici cattolici ma anche preti e vescovi, mi capita di sentir dire: “Noi non siamo poveri, ma impoveriti. Fin che i paesi ricchi non ci tratteranno con giustizia, siamo condannati a questa miseria”. Si illudono e illudono i loro popoli.

Il 27 febbraio 2007 ho intervistato a Bissau (capitale della Guinea Bissau) il suo primo vescovo mons. Settimio Ferrazzetta (1924-1999), francescano veronese di grande valore spirituale e sociale, che ha lasciato in tutti un ottimo ricordo, anche per aver riportato la pace nella guerra civile del 2008-2009. Ha corretto personalmente la sua intervista pubblicata nel volume “Missione Bissau – I 50 anni del Pime in Guinea-Bissau, 1947-1997”, Emi 1997, pagg. 289-292. Gli ho chiesto cosa pensa del suo popolo guineano e risponde:

–  E’ un popolo buono con tante qualità umane, tollerante, sopporta tutto. Pensa che cosa ha sopportato sotto i portoghesi e poi sotto il partito comunista al governo! Umanamente c’è stata una crescita, è un popolo più cosciente, più reattivo, più impegnato: ma economicamente il Paese è un disastro, soprattutto perché è dominato, come tutti i paesi africani da una corruzione enorme, incredibile, spaventosa. La mentalità comune è che chi arriva al potere deve fare denaro, per sé e per i suoi.

–  Come si manifesta questa corruzione?

–  Ad esempio, sono troppe le delegazioni guineane che vanno all’estero, alberghi di prima categoria, aerei, 1000 dollari al giorno da spendere….Le delegazioni ai congressi internazionali vanno negli stessi alberghi dei delegati americani, “perché – mi ha risposto un guineano a cui avevo fatto questa osservazione – siamo anche noi uno Stato sovrano e abbiamo gli stessi diritti degli americani”. Nell’ottobre 1996  c’è stato a Roma un congresso della FAO: vi hanno partecipato 33 persone della Guinea Bissau, naturalmente a spese dello Stato! Ne è venuto fuori uno scandalo, perché oltre al Presidente è andata la moglie del Presidente, poi la sorella della moglie, poi altre signore….Queste dame della Guinea, l’hanno pubblicato con risalto i giornali italiani di cui mi hanno mandato copia, in via Condotti a Roma hanno firmato un assegno di 42 milioni di lire per le loro spese e l’assegno era coperto ! Spendono decine di milioni in alberghi e spese superflue, poi non c’è denaro per pagare medici, infermieri, insegnanti…

–  Ma da dove vengono questi soldi se il paese produce così poco?

–  Dagli aiuti internazionali e da altre fonti, ad esempio da compagnie straniere che pagano per poter pescare nel mare della Guinea. Sono almeno un centinaio di navi e pagano in media dai 150 ai 300 mila dollari l’anno a seconda del loro tonnellaggio. Le compagnie europee firmano il contratto attraverso la Comunità Europea. Vengono da molti paesi anche dall’Italia, da S. Benedetto del Tronto (Ascoli Piceno) e Mazara del Vallo (Trapani). Dicono che il nostro pesce è di primissima qualità. Sono milioni di dollari che arrivano in Guinea: dove vanno a finire? L’Africa è così, c’è una corruzione tremenda che taglia le gambe allo Stato perché la mentalità diffusa è questa: chi va al potere deve guadagnare tanto e in fretta perché può cadere da un momento all’altro .

–   Quindi lei è pessimista sul futuro di questo paese?

–  Assolutamente no, come cristiani abbiamo il dovere di essere ottimisti, di incoraggiare il popolo: questo fa parte dell’evangelizzazione. Fin che c’è qualcuno come noi che dà buon esempio, incoraggia gli onesti, sostiene gli sforzi della gente, aiuta i poveri e i giovani di buona volontà, la baracca va avanti e la gente cresce. D’altra parte, bisogna anche riconoscere che c’è stato un miglioramento in vari settori, assistenza sanitaria, istruzione, case, strade, coscienza politica, ecc. Soprattutto i giovani sono più animati, hanno voglia di imparare e impegnarsi. Quindi non si può che essere ottimisti, ma ci vogliono i tempi lunghi, come in ogni processo educativo perché il progresso è frutto di educazione. La Chiesa per aiutare il paese a crescere è soprattutto impegnata in campo educativo.

Piero Gheddo

Obama ai neri d’America: «Non cercate scuse!»

Il Presidente americano Obama non cessa di stupire. Grande oratore e comunicatore, parla quasi sempre improvvisando, cioè senza avere sott’occhio testi preparati da altri, ed esprime idee contro corrente che gli attirano la simpatia degli americani che non l’hanno votato e dell’opinione pubblica mondiale.

Il 16 luglio scorso a New York, parlando a 3000 neri della Naapc (“National Association for the Advancement of Coloured People”), la più antica associazione per i diritti civili dei neri d’America che compie 100 anni, in un appassionato discorso di 45 minuti ha preso di petto il problema che interroga la più grande potenza del mondo: come mai i discendenti degli schiavi neri non riescono, come popolo, a crescere e ad integrarsi nel mondo americano, quanto mai aperto a tutte le componenti etniche presenti nei suoi 300 milioni di abitanti? Interrogativo quanto mai provocante, dato che altri popoli di recente giunti sul suolo americano (ad esempio i vietnamiti) in trent’anni sono riusciti, partendo quasi da zero, a costruirsi una posizione di tutto rispetto nella società americana.

Obama ha ricordato le sue origini africane, rivendicando con orgoglio il suo essere nero ed ha affermato con forza che la discriminazione razziale esiste ancora in America e nel mondo, “e questa piaga colpisce in modo devastante la comunità afro-americana”: nella sanità, nella scuola, nel lavoro, nella società civile. Negli Stati Uniti d’America non deve esserci più posto per i pregiudizi e le discriminazioni. Questa è la nostra responsabilità di capi”.

Poi si è rivolto direttamente ai suoi concittadini neri, affermando che nessun intervento del governo potrà cambiare queste situazioni, se non interviene un radicale cambiamento di mentalità, che sconfigga la più pesante eredità del passato, cioè la convinzione nella Black America (l’America nera) che il loro destino di neri è ineluttabile. Obama ha detto che il problema va affrontato soprattutto sul piano educativo e ha gridato: “Il vostro destino è nelle vostre mani, non dimenticatelo”. Ma poi ha aggiunto: “I genitori devono assumersi le loro responsabilità, mettendo da parte i videogiochi e mandando i figli a letto presto”. Il primo presidente afro-americano della storia Usa non ha esitato ad attribuire a sua madre — una bianca — il merito dei suoi successi. “Se non fosse stato per lei la mia vita avrebbe preso una piega tutta diversa…. Quando guido per Harlem o nei quartieri del South Side di Chicago e vedo quei ragazzi buttati per le strade, mi dico: “Quello potrei essere io, ma grazie a Dio è andata diversamente””.

“Non tutti i vostri figli possono aspirare a diventare Le Bron o Lil Wayne — ha detto riferendosi ad una star del basket e ad un rapper —. Voglio che aspirino a diventare scienziati, ingegneri, dottori, insegnanti, giudici della Corte Suprema e presidenti degli Stati Uniti”. E con quell’afflato religioso e messianico che rende la democrazia americana tanto diversa da quella europea, ha detto che “tutti i nostri giovani devono avere le stesse possibilità, perché tutti figli di Dio”. Ma ha concluso con un forte richiamo alla fede e alla speranza che hanno sostenuto gli uomini neri nelle loro travagliate secolari vicende e alle responsabilità dei genitori e delle famiglie, affinchè anche i giovani neri possano cogliere le possibilità che la società americana offre anche a loro.

L’11 luglio scorso ad Accra, capitale del Ghana, dopo aver descritto le troppe miserie dell’Africa nera, il Presidente Obama ha detto alle élites intellettuali africane (vedi il mio Blog del 17 luglio): “E’ facile addossare ad altri la colpa di questi problemi!”, invitandoli ad un “esame di coscienza” delle colpe che hanno i capi africani. Ad esempio, l’Occidente non ha colpa alcune di tanti disastri africani ed ha ricordato lo Zimbabwe, la Somalia, il Darfur. Una settimana dopo a New York ancora un discorso “politicamente scorretto”. Su questi due discorsi tutti noi che siamo interessati e appassionati a questo tema, dovremmo riflettere. Non facciamo il bene dei neri quando continuiamo ad insistere solo e sempre sulle colpe dell’Occidente e dei bianchi e su quel vittimismo che li porta alla protesta e all’inazione. Dobbiamo invece trasmettere loro, per quel poco o tanto che possiamo, il senso ottimistico della fede e della speranza in Dio e nelle loro potenzialità di popoli giovani, secondo quanto ha detto Obama: “E’ facile addossare le colpe dei vostri problemi agli altri… Il vostro futuro sarà quello che oggi voi vi costruite”.

Avviso ai lettori

Cari amici lettori, fra alcuni giorni andrò a fare un po’ di vacanza nella casa del Pime a Genova, pur con qualche impegno sacerdotale e missionario. Riprenderò il Blog qualche giorno dopo di quando ritornerò a Milano per la festa di Maria Assunta in Cielo, il 15 agosto prossimo. Buone vacanze anche a voi e Dio vi benedica tutti. Vostro padre Piero Gheddo

Obama agli africani: "Yes, you can!"

“Akwaaba!” gridavano gli africani ad Accra, capitale del Ghana, mentre Barack Obama scendeva dall’aereo presidenziale americano: Benvenuto! Altri gridavano: “Akwaaba wo ba fiz!”, Welcome Home, Bentornato a casa! Era il sabato 11 luglio 2009. In una sola giornata il Presidente americano ha compiuto una visita al continente africano che rimarrà come uno dei momenti più alti nella storia di questo sfortunato continente, specialmente per il discorso tenuto al Parlamento di Accra. Perché Obama è andato in Ghana? Avrebbe dovuto andare in Kenya, paese dal quale viene la sua famiglia; ma il Kenya si trova in una situazione di insicurezza e di guerriglia per i contrasti fra le varie etnie, mentre il Ghana è oggi uno dei paesi più pacifici e democratici dell’Africa nera, che sta incamminandosi bene verso la democrazia e lo sviluppo.

Obama ha scelto il Ghana per dare un segno agli africani di come vuole tutta l’Africa, poi ha indicato con parole forti la via per la rinascita del continente, che ancora fatica a uscire dalla morsa del sottosviluppo. Parlando al Parlamento del Ghana, ha incominciato ricordando le sue origini africane: “Io ho dentro di me il sangue dell’Africa. Mio nonno faceva il cuoco per gli inglesi in Kenya, e nonostante fosse un anziano rispettato nel suo villaggio i suoi datori di lavoro lo chiamarono “boy” (ragazzo) per buona parte della sua vita. Mio padre crebbe pascolando le capre in un minuscolo villaggio, lontanissimo dalle università americane dove sarebbe poi andato per ricevere un’istruzione”.

Il Presidente della maggior potenza mondiale si presenta come africano e la sua stessa persona dimostra che “il futuro dell’Africa spetta agli africani”, anche se oggi l’Africa è rimasta “drammaticamente indietro. Malattie e conflitti hanno devastato intere parti del continente africano”. Ma, ha aggiunto Obama, “è troppo facile addossare ad altri la colpa di questi problemi. L’Occidente non è responsabile della distruzione dell’economia dello Zimbabwe nell’ultimo decennio o delle guerre in cui vengono arruolati bambini tra i combattenti. Ma io sono convinto che questo sia un nuovo momento di promesse. Non saranno giganti come Nkrumah o Kenyatta a plasmare il futuro dell’Africa. Sarete voi. E soprattutto, saranno i giovani”.
Quattro i pilastri della rinascita africana: democrazia, opportunità per tutti, lotta alle epidemie e risoluzione pacifica dei conflitti. “La prima cosa da fare è sostenere governi democratici e onesti. Nessun Paese riuscirà a creare ricchezza se i suoi leader sfruttano l’economia per arricchirsi, o se la polizia può essere comprata da trafficanti di droga. Questa non è democrazia, questa è tirannia ed è tempo che finisca. Possiamo star certi di una cosa: la storia è al fianco degli africani valorosi, non al fianco di chi usa colpi di Stato o modifiche costituzionali per rimanere al potere. L’Africa non ha bisogno di uomini forti, ha bisogno di istituzioni forti”.
“Questo continente è ricco di risorse naturali”, continua il Presidente americano e gli africani hanno la responsabilità di realizzare le potenzialità dell’Africa, “trasformando la crisi attuale in opportunità”. Poi ha detto: “Voglio essere chiaro: per tanti, troppi africani i conflitti armati sono parte dell’esistenza. Questi conflitti sono una pietra al collo per l’Africa. Dobbiamo combattere la mancanza di umanità in mezzo a noi. Non è mai giustificabile prendere di mira innocenti in nome dell’ideologia. Costringere i bambini a uccidere in guerra è la sentenza di morte di una società. Condannare le donne a stupri incessanti e sistematici è un segno estremo di criminalità e di vigliaccheria. Dobbiamo dare testimonianza del valore di ogni bambino del Darfur e della dignità di ogni donna del Congo. Nessuna fede o cultura può giustificare le offese contro di essi. Quando in Darfur c’è un genocidio o quando in Somalia ci sono i terroristi, queste sono sfide che riguardano la sicurezza globale ed esigono una risposta globale. Ecco perché siamo pronti a collaborare attraverso l’azione diplomatica, l’assistenza tecnica e il supporto logistico, e sosterremo gli sforzi per portare i criminali di guerra di fronte alla giustizia”.

Parole forti, accuse precise che nessuno aveva mai pronunziato in Africa. Per concludere riprendendo il massaggio di fondo della sua visita: “Come ho detto prima, il futuro dell’Africa spetta agli africani…. E sto parlando in particolare ai giovani. Questo è quello che dovete sapere: il mondo sarà come voi lo costruite. Voi avete la forza per chiamare i vostri leader a render conto del proprio operato, per costruire istituzioni che siano al servizio del popolo. Potete sconfiggere le malattie, mettere fine ai conflitti e creare il cambiamento partendo dal basso. Potete farlo. Sì, voi potete. Perché ora la storia sta cambiando”.

“Yes, you can!” ha tuonato il Presidente americano rivolto ai giovani: Sì, voi potete! Un messaggio di speranza e di fiducia. Due brevi riflessioni:

1) “E’ troppo facile addossare agli altri le colpe di questi problemi”. L’Occidente deve prendere coscienze delle proprie colpe, passate e presenti e coltivare verso i fratelli africani gli stessi sentimenti di fiducia e di disponibilità del Presidente americano. Ma anche gli africani, soprattutto gli “intellettuali” e le élites politiche, culturali e religiose del continente debbono rendersi conto delle proprie colpe e responsabilità. Noi in Italia e in Europa, non facciamo un buon servizio all’Africa se continuiamo solo e sempre ad attribuire all’Occidente le colpe dei drammi e dei fallimenti africani. Quando si parla e si scrive dei problemi africani, vengono alla ribalta i temi di sempre: colonialismo, neo-colonialismo, multinazionali, sfruttamento materie prime, oro e diamanti, vendita di armi, debito estero, ecc… Mai che si protesti contro l’analfabetismo, la corruzione dei governi africani, le divisioni e le guerriglie tribali, le dittature, l’instabilità politica che scoraggia gli investimenti dall’estero, la mancanza di strade (persino quelle fatte al tempo del colonialismo spesso non sono mantenute efficienti), ecc.

2) Obama ha indicato i quattro pilastri della rinascita africana: democrazia, possibilità per tutti, combattere le epidemie e risoluzione pacifica dei conflitti. Nel suo discorso non ha sviluppato il secondo pilastro: penso che con “possibilità per tutti” volesse indicare la scuola per tutti (la scuola vera non le povere scuolette africane di villaggio, senza libri e quaderni, con 80-100 alunni per classe!), per dare a tutti i bambini e le bambine eguali possibilità di crescere e di partecipare alla lotta per il buon governo e lo sviluppo. Con il 50% di analfabeti (e non pochi degli “alfabetizzati” sono “analfabeti di ritorno”), l’Africa purtroppo non va da nessuna parte: non può avere governi democratici e non può svilupparsi in un mondo super tecnicizzato come il nostro.

Piero Gheddo

Perché respingere gli africani a casa loro?

Il Blog del 25 maggio sul respingimento degli immigrati africani in Libia ha suscitato parecchi commenti di cui ringrazio gli amici interlocutori. Mi pare che, a parte i vari accenti sul problema (che è molto complesso), tutti concordano su due princìpi che esprimono il sentimento comune del popolo italiano:

– primo, di voler aiutare gli africani che a costo della vita fuggono in Italia per poter lavorare e vivere in pace;

– secondo, che però una immigrazione incontrollata di clandestini, aprendo le porte a tutti, finirebbe per dissestare il sistema di vita del popolo italiano, che non può sopportare da solo l’arrivo di migliaia e decine di migliaia di profughi clandestini, oltre a quelli regolari.

E’ la morsa di una tenaglia di cui non sappiamo come liberarci: da un lato la compassione per povera gente disperata, dall’altro la certezza che se non mettiamo un freno, un ostacolo all’arrivo di quanti vorrebbero venire in Italia e in Europa, ci troveremo assaltati da una marea di persone che fuggono la fame, le guerre, le dittature e le pandemie africane.

Nell’inverno 2006-2007 ho visto arrivare gli immigrati africani ai confini della Libia col Sahara (vedi sul mio sito internet www.gheddopiero.it le corrispondenze dalla Libia). Ricordando quelle scene provo ancora una pena enorme, ma sinceramente non so dare una risposta concreta ai molti interrogativi degli amici lettori. Avete tutti ragione. Non si possono respingere verso l’inferno, bisogna aiutarli. Ma come? Questo il vero problema e nessuno ha una risposta plausibile. Tutte le ipotesi sono teoricamente belle, concretamente irrealizzabili:

– deve interessarsene l’Europa perché è un problema continentale. D’accordo, l’Europa critica l’Italia, però quando la Spagna alcuni anni fa ha respinto in Africa i profughi, sparando e uccidendo alcuni clandestini africani, non ricordo il clamore di proteste dell’U.E. e della stampa internazionale; o c’è un forte pregiudizio contro l’Italia di cui già si lamentava Romano Prodi? Comunque, l’Europa non fa nulla: tutti chiudono le frontiere ai clandestini. Ed è facile capire perché. Se l’Europa dovesse aprire le porte a tutti, con i mille problemi che ciascun paese deve gestire al suo interno, non è pensabile né possibile che possa ospitarli tutti. Dobbiamo renderci conto che i potenziali immigrati in Europa da paesi africani, o comunque in guerra o sotto pesanti dittature, sono milioni e decine di milioni.

– Bisogna aiutare gli africani a casa loro, affinchè si sviluppino in modo autonomo. Anche questa è una soluzione più che giusta, ma già sperimentata da mezzo secolo e fallita. Nell’Europa dell’ultimo dopoguerra, in 10-12 anni il “Piano Marshall” ha riportato i paesi europei distrutti ad uno sviluppo maggiore di prima della guerra. In Africa, cinquant’anni dopo l’indipendenza (1960), i finanziamenti dei “piani di sviluppo” e l’invio di aiuti finanziari e di macchine non hanno prodotto un vero sviluppo dei singoli paesi. La vera soluzione per l’Africa sarebbe l’educazione del popolo: in media i paesi africani hanno ancora un 50% di analfabeti! Ma chi va ad educarli quando i governi locali si interessano poco o nulla delle campagne e delle scuole? Chi ha viaggiato nell’Africa rurale sa che le scuolette di villaggio, quando ci sono, hanno classi da 80 a 100 e più bambini, spesso senza libri e senza quaderni. Circa la metà dei supposti “alfabetizzati” sono analfabeti di ritorno. Nei villaggi tradizionali africani si ignora la ruota, il carro agricolo, i fertilizzanti, l’irrigazione artificiale, ecc. Dico sempre e lo ripeto che a Vercelli produciamo 80 quintali di riso all’ettaro, nell’Africa rurale (non nelle poche fattorie moderne) si producono in media cinque quintali di riso all’ettaro! Le vacche della pianura padana producono 30 litri di latte al giorno, in Africa le vacche (ripeto: escluse le poche fattorie moderne) non producono latte, eccetto un litro o due quando hanno il vitellino. Il continente africano nel 1960 esportava cibo, oggi importa circa il 30% del cibo di base che consuma (riso, mais, grano). Ma chi va ad educare e insegnare a produrre di più?

– Non vendiamo più armi e le guerre finiranno anche in Africa. Giusto, anch’io vorrei che non si producessero nè vendessero più armi. Ma non illudiamoci, le guerriglie tribali che sconvolgono i paesi africani avvengono anche senza le nostre armi. Vent’anni fa l’Italia era al 7° posto per la vendita di armi nel mondo, oggi è al 16°, ai primi posti sono salite Cina, India, Brasile, Sud Africa, oltre alle potenze tradizionali, USA, Russia, Francia, Inghilterra. Nel novembre 1994 ho visitato Ruanda e Burundi dov’era attivo un vero genocidio e mi dicevano che le eliminazioni di massa erano fatte con coltelli e coltellacci, bastoni e fuoco. Dove c’è odio e non amore, le guerre (o guerriglie) sono inevitabili. Nel 1982 ho visitato per “Avvenire” e la Caritas le regioni di frontiera del Pakistan con l’Afghanistan dov’erano i campi profughi afghani che fuggivano l’occupazione sovietica del loro paese; ebbene, mi dicevano che gli artigiani di villaggio riuscivano, con i loro poveri mezzi, a fabbricare il kalashnikov sovietico, arma semplicissima ed efficace.

–  Smettiamola di rapinare l’Africa delle sue ricchezze naturali e paghiamo con giustizia le sue materie prime. Giusto, però lo sviluppo di un popolo non è anzitutto un problema di soldi e di macchine, ma, specie nel mondo moderno, un problema culturale ed educativo, di stabilità dei governi e di pace. Qualche anno fa la Banca mondiale rivelava che la Nigeria (paese ricchissimo per il petrolio) aveva un debito estero di 90 miliardi di dollari, ma i capitali nigeriani nelle banche svizzere ed europee erano circa 130 miliardi di dollari. L’Onu ha tentato di intervenire in Somalia per riportare la pace tra le etnie e le fazioni in guerra, con l’operazione “Restore Hope” del 1993-1995. Poi si è ritirata e la Somalia non ha più uno stato e un governo nazionale da 18 anni, è un paese allo sbando, rifugio dei “pirati del mare” e degli estremisti e terroristi islamici. Lo sviluppo di un paese è essenzialmente un problema culturale-educativo e di pace, ma chi va ad educare? Ormai tutti lo ammettono e Giovanni Paolo II l’ha scritto nella “Redemptoris Missio” (n. 58) “Lo sviluppo di un popolo non deriva primariamente né dal denaro, né dagli aiuti materiali, né dalle strutture tecniche, bensì dalla formazione delle coscienze, dalla maturazione delle mentalità e dei costumi”. I missionari e i volontari cristiani creano sviluppo perché rimangono tutta la vita fra un popolo, ed educano. Ma diminuiscono di numero. Molti mandano aiuti e denaro, cdrtamente provvidenziale, ma quanti giovani italiani consacrano la vita a Cristo per la missione alle genti e per aiutare davvero i popoli poveri condividendone la vita?

Cosa dire d’altro? Non lo so e se qualche lettore ha una risposta, intervenga pure liberamente. Scusatemi la lunghezza di questo Blog, ma il problema degli immigrati clandestini è angoscioso per tutti e nessuno sa in concreto cosa fare!

Piero Gheddo

Sui profilattici il Papa ha ragione

Ancora sul tema del preservativo come mezzo per combattere l’Aids (vedi Blog del 18 aprile e del 25 marzo). In una recente intervista pubblicata da “il Sussidiario”, il dott. Edward Green, Direttore dell’AIDS Prevention Research Project della Harvard School of Public Health and Center for Population and Development Studies, ha sostenuto che in merito ai profilattici “il Papa ha ragione”.  “Sono un liberal sui temi sociali, per me è difficile ammetterlo, ma il Papa ha davvero ragione”, ha dichiarato il dott. Green. “Le prove che abbiamo dimostrano che, in Africa, i preservativi non funzionano come intervento per ridurre il tasso di infezione da HIV. […] Quello che si riscontra in realtà è una relazione tra un più largo uso di preservativi e un maggiore tasso di infezione”.

Il dott Green ha poi spiegato: “Non conosciamo tutte le cause di questo fenomeno, ma parte di esso è dovuto al fatto che chi usa i preservativi è convinto che siano più efficaci di quanto realmente sono, finendo così per assumere maggiori rischi sessuali… Un altro fatto ampiamente trascurato – ha aggiunto – è che i preservativi sono usati in caso di sesso occasionale o a pagamento, ma non sono usati tra persone sposate o con il partner abituale. Perciò, una conseguenza dell’incremento nell’uso dei preservativi può essere un aumento del sesso occasionale”.

Come i lettori ricordano, in occasione del primo viaggio di Benedetto XVI in Africa (Camerun e Angola, 17-23 marzo 2009), stampa e televisioni internazionali avevano montato una campagna di condanna del Papa, il quale aveva affermato che il preservativo non serve per la prevenzione dall’Aids e anzi può anche favorire la diffusione della malattia. Addirittura alcuni governi (Francia, Belgio, Germania) in vario modo avevano ufficialmente disapprovato le parole del Papa! Come già ho ricordato (Blog del 25 marzo e del 18 aprile), non pochi studiosi e soprattutto medici e missionari sul campo hanno dichiarato che quanto ha detto il Papa corrisponde alla realtà dei fatti osservata quotidianamente per anni. E due governi africani (dell’Uganda e del Senegal) da anni si sono impegnati, assieme ai musulmani e alle Chiese cristiane, in campagne per l’astinenza sessuale in età minorile e fuori del matrimonio e per la fedeltà coniugale, unici rimedi sicuri di prevenzione dell’Aids) in campo sessuale (oltre naturalmente all’igiene, ecc.). Con ottimi risultati: la diffusione del terribile male è diminuita in Uganda e in Senegal, mentre in altri paesi come il Sud Africa, che hanno fatto tambureggianti campagne per il preventivo, l’infezione continua ad aumentare. Ma quando questo lo dicono i governi africani e i medici sul campo (e addirittura alcuni governi africani), si fa finta di niente, se lo dice il Papa, subito scoppia la canea di accuse, menzogne, condanne!

Una buona notizia per finire. L’8 maggio scorso, il Parlamento europeo ha bocciato con 253 voti contrari, 199 favorevoli e 61 astenuti un emendamento presentato a nome del gruppo liberaldemocratico da Marco Cappato (i soliti radicali italiani!) e da Sophie in’t Veld e che intendeva “condannare fermamente” le affermazioni sull’uso del preservativo nella lotta all’Aids fatte da Benedetto XVI durante il suo recente viaggio in Africa. L’emendamento riguardava il rapporto annuale sui diritti dell’uomo nel mondo.

Piero Gheddo

Contro l’Aids in Africa serve educazione

A proposito delle polemiche contro Papa Benedetto in Africa, sull’uso del “preservativo” per combattere l’Aids (vedi Blog del 25 marzo scorso, con il caso dell’Uganda), segnalo una dichiarazione alla Radio Vaticana del Cardinale senegalese Théodore-Adrien Sarr, Arcivescovo di Dakar, il quale ha ricordato che dal 1995 in Senegal, su richiesta dell’allora Presidente Abdou Diouf, le comunità religiose cristiana e musulmana si sono impegnate nella lotta contro l’Aids: “Abbiamo detto che avremmo predicato, esortato in favore dell’astinenza e della fedeltà e l’abbiamo fatto, sia noi cristiani che i musulmani. E se oggi il tasso di contagio dell’Aids rimane basso in Senegal, penso che sia grazie alle comunità religiose che hanno insistito sulla morale e sui comportamenti morali”.

Anche se il cardinale ha riconosciuto che in alcuni paesi del continente africano potrebbero esserci delle difficoltà “perché ci sono usanze diverse”, però sostiene che “in ogni caso è necessario sapere che l’Africa è variegata e che ci sono delle società africane che conoscono e osservano molto bene il concetto dell’astinenza e della fedeltà” e che “è necessario aiutarle a continuare a coltivarlo”.

Quanto al Senegal, ha confessato di temere che “se si iniziasse a distribuire dosi massicce di profilattici ai nostri giovani, questo non li aiuterebbe e sarebbe più difficile controllarsi e rimanere fedeli fino al matrimonio, Penso che aiutare la gente attraverso l’educazione ad imparare lo sforzo di controllarsi, rimanga un contributo valido per la prevenzione dell’Aids”, ha commentato. Secondo il Cardinale Sarr è “un peccato che, invece di riflettere su come il Papa è stato accolto e su tutto quello che ha vissuto con le popolazioni del Camerun e dell’Angola, alcuni media abbiano messo l’accento quasi esclusivamente sulla questione del profilattico e dell’aborto. In questo viaggio ci sono state cose belle che è necessario trasmettere e invece alcuni non hanno trovato niente di meglio da fare che alimentare polemiche”, che peraltro “sono state gonfiate rispetto al resto del contenuto” della visita papale.

A questo proposito, il Cardinale ha dichiarato che “diventa sempre più necessario che l’Occidente e gli occidentali smettano di pensare che solo quello che loro concepiscono come modo di vedere e di fare, sia valido”. E ha aggiunto: “Ciò che rimarrà nella mia mente del viaggio papale è che, se il Papa ha sollevato questi due problemi dell’aborto e dei profilattici, forse è stato per ricordare sia a noi africani e in special modo a noi Vescovi d’Africa che pensare con la nostra testa e per noi stessi è meglio…. In ogni caso, io mi sono impegnato a lavorare perché noi possiamo esprimerci e dimostrare che abbiamo modi di vedere e di agire che sono validi, anche se sono diversi da quelli che alcuni propongono”.

Piero Gheddo

Contro l’Aids vince l’educazione non il preservativo

Il Papa ha detto in Angola che il preservativo non risolve il problema della diffusione dell’Aids e gran parte della stampa mondiale, quella italiana compresa, si è scatenata nell’affermare “The Pope is wrong”, il Papa si sbaglia! Eppure l’esperienza di medici che in Africa operano contro l’Aids conferma quanto Benedetto XVI ha detto. Dato che anche non pochi credenti sono rimasti vittime di questa campagna anti papalina (ormai abitudinaria in numerosi mass media), ecco l’intervista ad un medico missionario comboniano che vive e lavora in Uganda.

Piero Gheddo

Nell’Africa sotto il deserto del Sahara (“Africa nera”) risiede il 10 per cento della popolazione mondiale. E il 66 per cento degli infetti dall’Hiv (Aids) di tutto il mondo. Cifre impressionanti. Tuttavia, negli ultimi anni, in alcuni paesi dell’area è stato notato un calo deciso della frequenza delle infezioni negli adulti. Il modello abc, basato su una campagna che promuove l’astinenza sessuale, in particolare per i più giovani, la fedeltà nella coppia, e solo come ultima risorsa l’uso dei preservativi, si è dimostrato vincente. Come spiegano i medici Filippo Ciantia e Pier Alberto Bertazzi in un articolo apparso sul quotidiano online www.ilsussidiario.net, in Uganda la frequenza di infezioni Hiv nella popolazione è scesa dal 15 per cento nel 1991 al 5 per cento nel 2001. Il metodo è stato studiato con interesse negli ultimi anni e discusso su riviste internazionali come “The Lancet”, “Science”, “British Medical Journal”. Il comboniano fratel Daniele Giovanni Giusti è medico con un’esperienza trentennale in Uganda. Ha lavorato per vent’anni in vari ospedali del paese. Negli ultimi dieci anni è stato incaricato del coordinamento dei servizi sanitari della Chiesa cattolica ugandese. Un testimone oculare di quanto sta accadendo in quel paese africano.

Dunque il preservativo è l’unica valida strategia nella lotta contro l’Aids in Africa?

Il preservativo ha funzionato in epidemie focalizzate e tra gruppi particolari:  prostitute, omosessuali e drogati. Non così in altri casi. Dire che il preservativo è la strategia vincente in epidemie mature, cioè diffuse tra la popolazione generale, è fuorviante. Si deve tener conto dell’esperienza particolare fatta in Uganda, citata da tutti come una delle vittorie nella lotta contro l’Aids. La forte campagna di coscientizzazione si è focalizzata sul modello abc. Si è chiesta l’astinenza a chi non è maturo per esprimere la sua sessualità (adolescenti e giovani), si è sostenuta la fedeltà nel rapporto con il partner contro la promiscuità per chi è sessualmente attivo, e – per chi non segue le prime due – l’uso del preservativo come ripiego. Il Governo ugandese ha sostenuto questa campagna nonostante le molte pressioni contrarie. Ciò ha permesso di vincere questa sfida. Chi sostiene che i risultati sono stati ottenuti con l’uso dei preservativi dice il falso. L’esperienza sul campo dice il contrario. Il fattore principale di questo successo è il frutto dell’educazione e del cambiamento di comportamento.

Quale è stata la risposta della popolazione?

Abbiamo visto un innalzamento dell’età del debutto sessuale nella popolazione giovane, e una diminuzione del numero di partner tra i sessualmente attivi. Questo ha causato l’abbassamento della prevalenza, cioè il virus si trasmette di meno tra la popolazione. Il preservativo è stato sì usato, ma con una copertura irrisoria, e quindi non ha influenzato significativamente i risultati ottenuti.

In sostanza l’educazione è la vera risposta all’epidemia?

L’educazione trasmette un concetto di persona umana che aiuta il cambiamento. Ci si basa sulla fiducia e sulla ragionevolezza della persona. Si spiega che cosa comporta il rischio, cosa lo riduce e cosa lo elimina. L’astinenza annulla il rischio per quanto riguarda i casi di trasmissione per via sessuale. Questa è la strategia più sicura. Se il messaggio dato ai giovani è consistente, questi cambiano il loro comportamento sessuale. La fedeltà nel rapporto sessuale riduce il rischio. Se ambedue i partner sono fedeli, il rischio è notevolmente ridotto. L’uso del preservativo riduce il rischio, ma non lo elimina.

Cosa dicono le grandi agenzie internazionali coinvolte nella lotta contro l’Aids?

Nel passato, le agenzie internazionali avevano sposato la linea dell’uso del preservativo. Oggi, anche se in sordina, si sta cambiando strategia. L’esperienza sul campo ha dimostrato che nei paesi dove si è puntato tutto sul preservativo, non si sono ottenuti – tra la popolazione – risultati soddisfacenti come quelli ugandesi. Propagandare oggi l’uso del preservativo non tiene conto della mentalità degli africani e di come essi recepiscono i messaggi.