Nell'Enciclica manca l'educazione dei poveri

Come ho già scritto nel Blog precedente (11 luglio), condivido pienamente i pareri positivi e laudatori espressi da molti sulla “Caritas in Veritate”, un documento che speriamo abbia un forte impatto in tutto il mondo, anche al di là di quello occidentale, fra i popoli “in via di sviluppo”. Vorrei però esprimere umilmente un mio sentimento di delusione. Visitando i missionari italiani in ogni parte del mondo, sento spesso ripetere l’antifona: qui manca l’educazione, qui manca la capacità di produrre, Ecco, nell’Enciclica manca il tema “educazione dei poveri”, che dovrebbe essere fondamentale quando si discute su cosa si può fare per aiutare “i paesi in via di sottoviluppo”: secondo una valutazione dell’Undp (United Nations Development Programm) ancor oggi sarebbero 34. L’educazione è il motore principale dello sviluppo, il mezzo, lo strumento che sviluppa anzitutto le facoltà intellettuali dell’uomo e fa crescere un popolo. Non si può separare l’economico dall’umano e noi, ricchi del mondo, diamo troppo spesso per scontato che anche nei 34 “paesi in via di sottosviluppo” la scuola sia assicurata a tutti. Ma non è così.

Come può svilupparsi l’Africa nera quando circa il 50% dei suoi abitanti sono analfabeti riconosciuti e un altro 20-25% “analfabeti di ritorno”? L’Enciclica mette giustamente l’accento sul diritto dei popoli al cibo, ma non dice nulla di quei popoli che producono meno cibo di quel che consumano, mentre potrebbero essere autosufficienti se fossero educati a produrre! L’Africa nera, dal 1960 ad oggi è passata da 200 a 700 milioni di abitanti, ma la produzione agricola non è aumentata di pari passo. In passato l’Africa esportava alimenti oggi, importa il 30% del cibo che consuma. A Vercelli produciamo 75-80 quintali di riso all’ettaro, nell’agricoltura tradizionale africana ne producono 4-5 (è solo un esempio tra mille) e non per pigrizia, ma proprio perché non sono educati a produrre di più. Ma chi va ad educarli a produrre? Prima di dire che bisogna assicurare ad ogni uomo il diritto al cibo, bisognerebbe dire che ogni uomo va educato a produrre per essere autonomo, lui e la sua famiglia, nelle necessità primarie della vita. Cosa di cui i governi locali dei paesi poveri non si preoccupano e il mondo internazionale meno ancora. Nel G8 di questi giorni si parlerà molto di aiuti, di soldi, di commerci, ma non di educazione.

Uno slogan efficace ma falso dei No Global dice: “Il 20% degli uomini possiede l’80% della ricchezza mondiale, mentre l’80% degli uomini possiede solo il 20%”. La verità è un’altra: invece di “possiede” bisogna dire “produce”. La soluzione è quella del famoso proverbio cinese: “Se un uomo ha fame non dargli un pesce, ma insegnagli a pescare”; oppure: dagli pure un pesce, ma insegnagli anche a pescare.

C’è un abisso d’incomprensione fra noi ricchi del mondo e gli autentici poveri dei villaggi africani che ignorano l’uso della ruota e della carriola (le donne portano tutto sulla testa), la trazione animale, la rotazione delle colture, l’irrigazione artificiale, la forza motrice del mulino ad acqua, la piscicoltura in laghetti artificiali, l’uso dell’aratro e tante altre piccole grandi “invenzioni” che permetterebbero all’Africa che soffre la fame di essere autonoma. Non si tratta anzitutto di “distribuire” il cibo e la ricchezza prodotti, ma di “insegnare” a produrre. Ma chi va a condividere con i poveri nei villaggi con capanne di paglia e di fango? E’ più facile mandare soldi e container che trovare giovani disposti a donare la vita o almeno alcuni anni della vita al prossimo più povero.

Tutto quel che dice l’Enciclica è giusto e vero, ma mi stupisco  di come il tema “educazione” non venga mai fuori. Educare vuol dire partire dalla base, dal piccolo popolo povero che soffre la fame (almeno in certi periodi dell’anno). Una delle più importanti Ong cristiane e italiane di volontariato internazionale, l’AVSI, da alcuni anni insiste con campagne d’opinione pubblica sul tema “Educazione dell’uomo per lo sviluppo”, specialmente degli uomini più poveri e marginali. Che poi è proprio quello che fanno le Chiese locali ed i 7.000 missionari e volontari italiani in Africa.

Piero Gheddo

Cosa dice la "Caritas in Veritate"

La terza Enciclica di Papa Benedetto “Caritas in veritate” è veramente un testo di grande valore. Dopo averla letta (e sottolineata per ricordare i temi più importanti), penso che sia, nel nostro tempo, “la magna charta dei paesi poveri”, come il Primo ministro dell’India aveva definito 40 anni fa la “Populorum Progressio”, di cui questa nuova Enciclica sociale vuol essere la continuazione aggiornata al nostro tempo. E’ il tentativo riuscito di sintetizzare la situazione caotica in campo economico-finanziario in cui ci troviamo tutti sommersi. Lo scopo è di orientare l’economia mondiale, specie quella dei paesi ricchi, verso la fraternità fra i popoli, termine preferito a solidarietà: gli uomini infatti sono tutti fratelli perché figli dello stesso Padre. Quindi verso i popoli più poveri e marginalizzati dal mercato mondiale. Un’Enciclica scritta anzitutto per i grandi del mondo, gli studiosi, i periti di varie scienze, ma credo leggibile anche da “tutti gli uomini di buona volontà” a cui il Papa espressamente si rivolge.

Un’enciclica di alto livello intellettuale e di inquadratura schematico-concettuale molto ampia, anche se non facile da leggere. E’ la prima osservazione che mi viene in mente leggendo. Manca una trascrizione direi “giornalistica”, che renda certi passaggi un po’ più comprensibili e digeribili. Un’osservazione generale che nulla toglie al valore del testo pontificio e si potrebbe ripetere per tanti altri documenti delle autorità ecclesiastiche: per voler comprendere tutto, per non trascurare alcun aspetto delle complesse situazioni del mondo attuale, si finisce per far perdere di vista il quadro generale del tema trattato. La stessa divisione della Caritas in Veritate in lunghi capitoli senza alcun sottotitolo non invita a leggere. La “Populorum Progressio” aveva avuto un grande successo di opinione pubblica in tutto il mondo, nei giornali laici e nei paesi poveri, credo anche per questo motivo, diciamo didascalico:  procedeva per paragrafi di 15-20-25 righe, ciascuno dei quali con un suo chiaro e nero titoletto. I sei capitoli della “Caritas in veritate” procedono per pagine e pagine con un titolo molto generale e poi un po’ di corsivi che si perdono nella lunghezza dei testi. Chi legge non respira più, si stanca, perde di vista la trama generale dell’opera!

Un documento, ripeto, che merita di essere veramente letto da tutti “gli uomini di buona volontà”, perché spiega molto bene la dottrina sociale della Chiesa riguardo ai problemi economici, politici, sociali e culturali di cui oggi si discute e si dibatte specialmente fra i soggetti politici e nei Parlamenti. Cosa dice la Caritas in Veritate? Il Papa parte spiegando il significato del titolo: la carità, cioè l’amore all’uomo, è il segno distintivo del cristianesimo: “La carità è la via maestra della dottrina sociale della Chiesa”. Ma questo amore dev’essere nel rispetto della verità sulla natura dell’uomo e della società umana. Due i “criteri orientativi dell’azione morale”, la giustizia e il bene comune. Ecco in estrema sintesi i contenuti del primo capitolo, che orienta e giustifica tutto il resto dell’Enciclica:

Benedetto XVI parte dal messaggio fondamentale della “Populorum Progressio: l’uomo creato da Dio non è un essere autosufficiente. Senza Dio, lo sviluppo umano viene “disumanizzato” (10-12). Il Vangelo è indispensabile “per la costruzione della società secondo libertà e giustizia” (13). Quindi lo sviluppo dell’uomo è una “vocazione” perché nasce “da un appello trascendente” ed è uno “sviluppo integrale” quando è “volto alla promozione di ogni uomo e di tutti gli uomini (16-18). Secondo queste premesse, le cause del sottosviluppo non sono primariamente di ordine materiale. Il sottosviluppo ha una causa radicale, che è “la mancanza di pensiero… e di fraternità tra gli uomini e tra i popoli” (19). “La società globalizzata – rileva il Papa – ci rende vicini, ma non ci rende fratelli… Bisogna allora mobilitarsi, affinchè l’economia evolva verso esiti pienamente umani” (19-20).

Non è possibile, in questo breve Blog, seguire tutta l’Enciclica nei restanti cinque capitoli, che trattano dei problemi in cui oggi si dibatte l’umanità. La Caritas in Veritate non è un’enciclopedia o un elenco sistematico di problemi, ma un esame e una proposta di soluzione, affinchè lo sviluppo sia veramente per tutto l’uomo e per tutti gli uomini. Mi pare importante rilevare che la Caritas in Veritate riprende dalla Populorum Progressio e mette bene in risalto quello che quarant’anni fa era stato trascurato di quell’Enciclica, nei commenti e studi anche di parte cattolica. Paolo VI partiva dallo “sviluppo dell’uomo che viene da Dio e deve portare a Dio” (nn. 14-21 e 40-42 della P.P. e n. 58 della “Redemptoris Missio” di Giovanni Paolo II).

Un ricordo. Nel 1972, cinque anni dopo la Populorum Progressio, nella sede di Piacenza dell’Università cattolica si tenne un congresso di studio di tre giorni sull’Enciclica, al quale ho partecipato con una lezione sull’azione dei missionari per lo sviluppo dei popoli. Mi stupiva il fatto che, a parte l’introduzione teologica del gesuita padre Joblin, si parlava dei problemi materiali dello sviluppo, gli aiuti, i finanziamenti dei piani di sviluppo, il commercio internazionale, i prezzi delle materie prime, i lavoratori emigrati, ma quasi senza più connessione con l’ispirazione religiosa profonda della P.P. Quasi due mondi separati: da un lato Dio, il Vangelo, la Chiesa, la vita religiosa; dall’altro il quotidiano con i suoi angosciosi problemi politico-economico-sociali-culturali. Era l’impressione comune che avevo in quegli anni, leggendo i molti studi e commenti internazionali, ripeto anche di cristiani e cattolici, dell’Enciclica di Paolo VI.

La Caritas in Veritate, riprendendo il grande documento di Paolo VI, ha voluto congiungere in modo fermo la fede con la vita, che deve illuminare e guidare anche la ricerca di una soluzione ai grandi problemi dell’umanità, ai quali oggi ci troviamo confrontati e spesso non abbiamo risposte adeguate. Insomma, credo che la Caritas in Veritate debba essere letta e meditata da tutti coloro che hanno a cuore specialmente temi come la fame nel mondo, l’integrazione culturale dei popoli, gli aiuti allo sviluppo da parte dei popoli ricchi e via dicendo.

Piuttosto, si può ancora notare che in questa Enciclica di Papa Benedetto manca qualcosa che ci aiuti a comprendere meglio gli ultimi della terra, quel miliardo di uomini e donne che ancora oggi soffrono la fame. E, di conseguenza, capire meglio cosa in concreto possiamo e dobbiamo fare per aiutarli. Nel prossimo numero del Blog parlerò di questo limite dell’Enciclica, che è un po’ quello dei documenti ecclesiastici e civili dei popoli ricchi che trattano di quelli poveri.

Piero Gheddo