La liberazione delle donne in Libia

Nell’ultimo Blog (11 giugno) ho espresso il mio compiacimento per la visita in Italia del premier libico Muhammar al-Gheddafi, certo anche per il rifornimento di energia che assicura all’Italia (il 30% del nostro necessario) e per il fatto di assegnare al nostro paese la priorità commerciale e industriale negli affari con la Libia.

Ma il fatto più sensazionale della sua visita è stato, secondo me, l’incontro con le donne italiane e il discorso da lui pronunziato, che non hanno avuto nei mass media il risalto che meritavano. E’ la prima volta che un capo di stato musulmano pronuncia parole così forti sull’uguaglianza sostanziale tra uomo e donna, giungendo persino a dire che “nel mondo arabo la situazione della donna è orrenda. Per gli uomini, le donne sono un pezzo di mobilio, lo cambiano in qualsiasi modo e nessuno chiede perchè lo hanno fatto, specie se hai i soldi e il petrolio”; e riferendosi ai paesi del Golfo ha aggiunto: “La donna è umiliata al massimo, le è proibito guidare l’auto, non ha nemmeno il diritto di sposarsi e di divorziare, è una situazione orrenda che incita alla rivoluzione”.

Non sono solo parole. Nel suo famoso “Libretto verde” (terza ediz. 1999) Gheddafi scrive, nel lungo capitolo sulla donna: “La donna è un essere umano, come l’uomo… è evidente che la donna e l’uomo sono uguali. La discriminazione fra uomo e donna è un atto d’ingiustizia flagrante e ingiustificabile”. Poi prosegue per pagine descrivendo le diversità e le funzioni che uomo e donna hanno nella società, ambedue nobili e indispensabili alla razza umana. Secondo le fonti ufficiali libiche, la violenza contro le donne è finita con la Rivoluzione del 1 settembre 1969, quando Gheddafi liberò il paese da re Idris Al-Sanusi. Naturalmente non è vero (in Libia lo stato ha istituito dei “Centri di riabilitazione sociale” per le donne in cerca di protezione), ma bisogna ricordare che Gheddafi ha fatto fare alla società libica passi importanti nel cammino di liberazione della donna, mandando le bambine a scuola (nei paesi islamici non è comiune) e all’università, vincendo molte resistenze anche fra docenti e studenti universitari. Nelle regioni rurali della Libia capita ancora di vedere case di contadini, il cui cortile interno è  circondato da un altissimo muro (sui 4 metri). Nella tradizione, in quel cortile stavano le donne di casa, che potevano uscire solo se accompagnate dal marito o da un parente stretto. Ma in Libia questa discriminazione, abbastanza comune in altri paesi islamici, è quasi del tutto scomparsa. Gheddafi ha varato leggi sul matrimonio e il divorzio favorevoli alle donne, molto più che in altri paesi islamici. In Libia le donne studiano, diventano insegnanti e infermiere, segretarie e dottoresse (soprattutto ginecologhe e pediatre). Le guardie del corpo femminili di Gheddafi, fatto unico credo in tutto il mondo, sono un segno evidente, dato al popolo libico, di quanto la “guida illuminata” stimi  e apprezzi le donne. Per cambiare una cultura millenaria non bastano le leggi e la repressione poliziesca, ci vuole tempo e, specie per popoli semplici, anche forti segni simbolici.

Nessuno però ricorda un fatto fondamentale per capire la rivoluzione che Gheddafi sta portando riguardo al mondo femminile. Ho visitato la Libia nel dicembre 2006, su invito del vescovo di Tripoli mons. Giovanni Martinelli, che mi ha raccontato di quando Gheddafi scrisse nel 1986 a Giovanni Paolo II chiedendogli suore italiane per i suoi ospedali. Oggi in Libia ci sono 90-100 suore cattoliche (italiane, libanesi, indiane , filippine, francesi, polacche, spagnole) e più di 10.000 infermiere cattoliche (specie filippine e indiane), con decine di medici cattolici, anch’essi stranieri. Mons. Martinelli mi diceva: “La presenza di queste giovani donne cristiane, professionalmente preparate, gentili, attente alle necessità del malato che curano con amore, stanno cambiando l’immagine del cristianesimo fra i musulmani e soprattutto dimostrano in concreto come la donna che studia ed è libera può essere utile e indispensabile all’uomo”.

Noi continuiamo a interessarci delle nostre miserande beghe da cortile, di veline e di Noemi, ma non ci accorgiamo che in Libia si sta realizzando una rivoluzione epocale che riguarda la donna nell’islam, per cui ci associamo all’auspicio del Presidente Giorgio Napolitano, che questa visita di Stato in Italia del leader libico Gheddafi “possa agevolare il consolidamento del progetto del Mediterraneo come area di pace e di prosperità anche per le donne”.

Piero Gheddo

Le «condizioni disumane» dei profughi in Libia

Nell’inverno 2007 sono stato in Libia e ho potuto visitare la città di Sebha (900 km. a sud di Tripoli, 80.000 abitanti), dove, ospite di don Vanni Bressan, medico e sacerdote cattolico fondatore dell’unica chiesa nel deserto del Sahara libico, ho potuto vedere gli africani che arrivano dopo due-tre mila chilometri di deserto (uno o due su dieci muoiono nel viaggio). La Libia li accoglie anche perché ha bisogno del loro lavoro. In città e nelle campagne fanno di tutto, contadini, baristi, spazzini, falegnami, cuochi. Rimangono nel deserto per alcuni anni, fin che hanno abbastanza denaro per pagarsi il viaggio verso il nord e la traversata del Mare Mediterraneo. Ho parlato (in inglese e francese) a questi neri, tutti molto giovani spesso con moglie e bambino (non pochi sono cristiani, cattolici e protestanti), che fuggono la fame, le dittature, le guerre e tutti le tragedie che tormentano i paesi dell’Africa nera. Ho anche scritto (su “Mondo e Missione”, “Avvenire” e “Il Timone”) di questi disperati che spesso, per fuggire dalle situazioni del loro paese “verrebbero anche a nuoto in Italia o in Europa”. In Libia, nella città del deserto, non sono trattati male, anzi sono anche contenti perché hanno un lavoro e possono guadagnare. Li assiste padre Bressan, che oltre ad essere l’unico sacerdote, è anche medico nel locale ospedale governativo dall’inizio anni novanta.

Conosco quindi la situazione da cui vengono questi poverissimi fratelli e sorelle africani. Per cui, il respingimento dei barconi di immigrati verso la Libia mi ha ferito. Non ne ho ancora scritto perchè capisco benissimo le ragioni del nostro governo, che non può portare da solo il peso di questa continua emergenza. Ma leggo che il vescovo di Tripoli, mons. Giovanni Martinelli (che mi aveva invitato in Libia), ha inviato al sito missionline.org, attraverso un suo portavoce, questa sua riflessione:

Come è possibile rigettare sui libici un problema così vasto? Noi possiamo capire che l’Europa si difende da questa “invasione”, ma non si potrebbero trovare altri mezzi per farlo? Quanto a noi, è l’aspetto umanitario che conta per primo: povera gente che cerca di fuggire dalla povertà, dall’ingiustizia, da una condizione di miseria insopportabile… Come discernere tra questa gente allo sbando chi sarebbe da considerare “rifugiato politico”? E come si possono rifiutare gli altri? Sarebbe una buona cosa se l’Italia potesse impegnarsi e riflettere per giungere a trovare soluzioni giuste e rispettose delle situazioni concrete. Queste persone che sono ricacciate verso la Libia, come potranno vivere in un Paese come questo, che non ha i mezzi concreti per discernere, e che dovrà per forza lasciarle in condizioni inumane?

La nostra Chiesa è continuamente confrontata a una grave questione umanitaria, questo in modo particolare ogni venerdi: infatti il venerdi è una folla di povera gente che si riversa in chiesa e che domanda aiuto. Da parte nostra, facciamo del nostro meglio per accogliere tutti: il servizio sociale cerca di offrire loro cibo, indumenti e quanto serve per l’igiene…. Una semplice clinica gestita grazie a un gruppo di volontari funziona ogni venerdi; questi offrono quache servizio sanitario e accompagnano a volte delle persone gravemente malate in ospedale, spesso donne incinte. Capita anche di aiutare qualcuno a morire! Visitamo dei centri di raccolta per clandestini o delle prigioni: qualche piccolo aiuto possiamo offrirlo, ma la soluzione bisognerebbe cercarla più lontano, alla radice del male…

Ci domandiamo: come è possibile rigettare sui libici un problema così vasto? Non si potrebbe piuttosto aiutare i libici a studiarlo, analizzarlo, a discernere?

Condivido pienamente quanto scrive mons. Martinelli. Mi spaventa specie perché è riuscito a rimanere in Libia per quasi cinquant’anni usando sempre una grande prudenza. Eppure oggi parla di “condizioni disumane” in cui questi profughi sono lasciati!

Parole che pesano come pietre, conoscendo l’uomo e la situazione di precaria libertà religiosa in cui vive.

Piero Gheddo