Ma i missionari non sono operatori sociali

 

 

                                        Intervista  di Antonio Giuliano

 

Secondo un dossier della Cei, dagli anni Novanta ad oggi sono dimezzati i missionari italiani. Gheddo: «La crisi dipende anche dal fatto che non vengono più presentati come testimoni di Cristo».

 

Sono ancora migliaia i nostri connazionali pronti a rischiare la propria pelle per portare il Vangelo nei cinque continenti. Ma i missionari italiani diminuiscono inesorabilmente. L’ultimo dossier rilanciato in questi giorni dalla fondazione Missio – organismo della Conferenza episcopale italiana – presenta cifre impietose: se negli anni Novanta i nostri missionari (sacerdoti di istituti missionari, preti fidei donum, religiosi, suore e laici) hanno raggiunto la quota record di 20 mila unità, oggi il loro numero è quasi dimezzato, 10 mila appena. Con un’età media che si attesta sui 63 anni.

 

Padre Gheddo, se l’aspettava?

 

Sì, ma non in questa misura diciamo catastrofica: secondo me il rapporto è fra 16.000 e 12.000, tutto dipende dai criteri che si usano per l’indagine. Avevo studiato i dati di questo fenomeno nel mio libro del 2003 La missione continua (San Paolo). Dipende da una serie di fattori. C’è un calo notevole della natalità in Italia e una evidente crisi vocazionale. Molti vescovi, comprensibilmente, sono restii a far partire i seminaristi perché in molte diocesi il numero dei preti è del tutto insufficiente. E i seminari diocesani sono da sempre il serbatoio delle missioni. Ma il motivo principale è un altro.

 

Quale?

 

Dagli anni 70-80, in seguito alla crisi di fede del dopo Concilio e del’68, l’animazione  missionaria non ha più presentato la vera identità di uomini e donne mandati dalla Chiesa ad annunziare Cristo ai popoli del mondo. Gli istituti missionari e religiosi sulla scia della secolarizzazione hanno ridotto il missionario a un operatore sociale. Ormai ci concentriamo solo su campagne e slogan contro la fame del mondo, la vendita delle armi, le multinazionali che sfruttano i popoli, il debito estero dei paesi africani, la privatizzazione dell’acqua… E sulle riviste viene fuori un’immagine fuorviante del missionario. Un tempo io stesso fui conquistato dalle testimonianze di padre Vismara sulla rivista Italia missionaria del Pime. Oggi però fanno notizia quasi solo Zanotelli e altri perché, magari strumentalizzati contro le loro stesse intenzioni, manifestano per l’acqua pubblica o contro la vendita delle armi…

 

Secondo il dossier aumentano però i missionari laici.

 

Ne dubito. Uomini e donne sposate che partono per le missioni, come medici, infermieri, insegnanti o costruttori stanno diminuendo. Negli anni Ottanta quando c’era il boom delle ong, i laici in missione in Africa erano 1700, oggi sono circa 700. Anche i fidei donum (i sacerdoti che i vescovi mandano in missione per un certo tempo), frutto di una grande intuizione di Pio XII, purtroppo sono sempre meno. Anche gli ordini religiosi, che non hanno uno specifico carisma missionario (gesuiti, francescani, ecc,), soffrono la crisi demografica e ll calo di vocazioni.

 

Il rapporto evidenzia l’incremento delle vocazioni locali nelle missioni e già oggi sacerdoti asiatici, africani e latinoamericani vengono in Europa. Cosa pensa di questo fenomeno?

 

Mi pare del tutto positivo, se realizzato con la debita prudenza. Parecchie giovani Chiese sono state fondate da missionari italiani e oggi loro aiutano noi che siamo in crisi. Ma rimane il nostro dovere di mandare missionari dove sono richiesti dai vescovi locali dei paesi non cristiani. E le richieste sono sempre molte, specialmente per compiuti specialistici che il clero locale non è ancora in grado di affrontare.

 

È vero però che sono tempi difficili per i cristiani nel mondo. Il 17 ottobre è stato ucciso nelle Filippine un altro missionario italiano, padre Fausto Tentorio del Pime. C’è anche nei giovani la paura  di perdere la vita?

 

Non credo. Il vero problema, ripeto, è la crisi di fede nel popolo cristiano e l’orientamento secondo me errato dell’animazione e della stampa missionaria. C’è bisogno che i missionari riacquistino la loro vera identità, debbono essere conosciuti come testimoni appassionati del Vangelo fra i non cristiani. La Chiesa, la scuola, le famiglie devono ritornare a parlare della bellezza dell’annuncio cristiano, specie ora quando Benedetto XVI ha lanciato la campagna per la “Nuova evangelizzazione” dei popoli cristiani. Di recente ho intervistato mons. Cesare Bonivento, da oltre vent’anni vescovo in Papua Nuova Guinea. Mi diceva che ha pochi preti, ma sono contenti della loro vocazione. Quando incontra e si converte a Cristo, il popolo papuano si commuove e diventa lui stesso missionario, perché sperimenta la differenza tra il cristianesimo e la religione animista, il culto degli spiriti. Oggi costa rinunciare al benessere della nostra società, ma chi accoglie con generosità la chiamata di Dio alle missioni sappia che è bello fare il missionario. Se ti dai tutto a Cristo, lui ti rende, già in questa vita, “il cento per uno e poi la vita eterna”. I giovani sono sempre animati da grandi aspirazioni e ideali. Il problema è che noi missionari non gli presentiamo più la bellezza e la felicità della vita missionaria.

                                                                                        Piero Gheddo

I valori irrinuziabili (non negoziabili) della Chiesa

    

 

      In riferimento al discorso del card. Angelo Bagnasco al Forum dei cattolici in politica a Todi (Perugia) il 17 ottobre scorso, un amico mi telefona per chiedermi di spiegare quali sono e perché la Chiesa insiste nel proclamare i suoi “valori irrinunziabili”. Ecco in breve.

     Per la Chiesa, i “valori irrinunziabili” (o “non negoziabili”) sono tre:

1)     la difesa della vita dalla nascita alla morte, l’aborto, l’eutanasia e la manipolazione del gene umano;

     2)  la difesa del matrimonio monogamico tra uomo e donna, cioè la condanna del

          riconoscimento giuridico del matrimonio tra omosessuali e delle coppie di

          conviventi; la difesa della famiglia comporta il terzo valore irrinunziabile:

    3)  la difesa della libertà di educazione, cioè il diritto della famiglia di scegliere

         come educare i propri figli, quindi la parità tra scuola pubblica e scuola privata

         paritaria, perché il compito di educare i figli spetta anzitutto ai genitori.

            

     Perché questi valori irrinunziabili? Una delle grandi novità della “Caritas in Veritate” di Benedetto XVI (2009) è questa: per la prima volta in un’enciclica sociale, la CV presenta il diritto alla vita come valore prioritario dello sviluppo “plenario” (cioè non solo economico) di ogni popolo e dell’umanità (n. 28). La “questione antropologica”, su cui tanto insistono la Santa Sede e la CEI, diventa a pieno titolo “questione sociale” (nn. 28, 44, 75). La crisi dell’Occidente è una “crisi antropologica”: cioè si perde il concetto di uomo creato da Dio, si vuole manipolare il Dna dell’uomo, si vuole creare l’uomo sano e senza difetti fisici, si distrugge il matrimonio e la famiglia monogamica, ecc. Tutto questo, anche se molti non lo sanno o non ci credono, porta alla barbarie. L’uomo padrone di se stesso, l’uomo padrone della vita e della morte è l’anticamera per nuovi Auschwitz e nuovi Khmer rossi, che possono nascere da questa cultura orientata a produrre la morte.

     La Chiesa condanna il controllo delle nascite, l’aborto, le sterilizzazioni, l’eutanasia, le manipolazioni dell’identità umana e la selezione eugenetica non solo per la loro intrinseca immoralità, ma anche perchè lacerano e degradano il tessuto sociale, corrodono la famiglia e rendono difficile l’accoglienza dei più deboli e innocenti: “Nei paesi economicamente sviluppati – scrive Benedetto XVI (CV 28) – le legislazioni contrarie alla vita sono molto diffuse e hanno ormai condizionato il costume e la prassi… L’apertura alla vita è al centro del vero sviluppo…”. L’enciclica spiega che per lo sviluppo dell’economia e della società occorre impostare programmi di sviluppo non di tipo utilitaristico e individualistico, ma che tengano “sistematicamente conto della dignità della donna, della procreazione, della famiglia e dei diritti del concepito”.

 

    Dalla “Humanae Vitae” di Paolo VI (1968) ad oggi, spesso l’insistenza del Papa e dei vescovi su questi concetti non è compresa nemmeno dai cattolici, una parte dei quali pensano che la difesa della vita e della famiglia passa in secondo piano di fronte alle drammatiche urgenze della fame, della miseria, delle ingiustizie a livello mondiale e nazionale. Non capiscono il valore profetico di quanto dicono il Papa e i vescovi, che denunziano le conseguenze nefaste di certi orientamenti culturali e legislativi anche per la soluzione dei problemi sociali.

     Se nella cultura comune e nelle legislazioni nazionali, come anche negli organismi dell’Onu e della Comunità Europea, prevale l’egoismo dell’individuo, com’è possibile pensare che poi, nell’accoglienza del più povero e del diverso, quest’uomo egoista diventi altruista? Tra opere sociali e difesa della vita non esiste alcuna contraddizione, ma anzi c’è un’integrazione vicendevole, si  richiamano a vicenda, l’una non sta senza l’altra. La protesta per la fame nel mondo e per l’aborto hanno eguale significato e valore di difesa della vita. Ma i No Global anche cattolici hanno fatto molte proteste contro la fame, nessuna contro gli aborti, nessuna contro le coppie di fatto, i divorzi, le separazioni, i matrimoni tra gay!  Accettiamo tranquillamente che in queste situazioni vinca l’egoismo umano e poi chiediamo che nella lotta contro la fame nel mondo prevalga l’altruismo. Dov’è la logica?

 

      Nel suo discorso a Todi, il card. Bagnasco ha parlato dei “principi irrinunciabili” e ha detto: “Senza un reale rispetto di questi valori primi, che costituiscono l’etica della vita, è illusorio pensare ad un’etica sociale che vorrebbe promuovere l’uomo ma in realtà lo abbandona nel momento di maggior fragilità. Ogni altro valore necessario al bene della persona e della società, infatti, germoglia e prende linfa dai primi, mentre, staccati dall’accoglienza in radice della vita, potremmo dire della “vita nuda”, i valori sociali inaridiscono.

    “Ecco perchè – continua il presidente della CEI – nel “corpus” del bene comune non vi è un groviglio di equivalenze valoriali da scegliere a piacimento, ma esiste un ordine e una gerarchia costitutiva. Nella coscienza universale, sancita dalle Carte costituzionali, è espressa una acquisita sensibilità verso i più poveri e deboli della famiglia umana, e quindi è affermato il dovere di mettere in atto ogni efficace misura di difesa, sostegno e promozione…. Ma, ci chiediamo, chi è più debole e fragile, più povero, di coloro che neppure hanno voce per affermare il proprio diritto (alla vita)? Vittime invisibili, ma reali! La presa in carico dei più poveri e indifesi non esprime forse il grado più vero di civiltà di un corpo sociale e del suo ordinamento? E non modella la forma di pensare e di agire – il costume – di un popolo, il suo modo di rapportarsi nel proprio interno? Questo insieme di atteggiamenti e di comportamenti propri dei singoli, ma anche della società e dello Stato, manifesta il livello di umanità o, per contro, di cinismo paludato di un popolo, di una Nazione”.

 

      Insomma, se si concepisce l’uomo in modo individualistico,  come oggi si tende a fare, come si potrà costruire una comunità solidale dove si chiede il dono e il sacrificio di sé? Quando si sfascia la famiglia, si dissolve anche la società, come purtroppo stiamo sperimentando in Italia. Non si capisce come mai una verità così evidente è snobbata da chi appoggia altri tipi di famiglia (tra i gay ad esempio) e toglie ai coniugi lo stimolo di un patto d’amore da consacrare di fronte alla società col matrimonio, favorendo le coppie che si uniscono e si separano liberamente con il divorzio, le separazioni e ormai  il “divorzio rapido” della Spagna di Zapatero che si realizza in 15 giorni. Leggi come queste favoriscono l’egoismo individuale, ma disgregano la società. Il credente in Cristo non può sostenerle.

 

                                                                              Piero Gheddo

E' bello fare il prete, è bello fare il missionario

                      

 

      Nel 2011 a Barlassina  in provincia di Milano (circa 6.000 abitanti) celebra il centenario della nascita di tre bambini che sono diventati missionari del Pime. Una celebrazione sentita da lla gente e solennizzata da un piccolo libro, una ricca mostra fotografica dei tre missionari, alcune cerimonie religiose e una conferenza nel teatro dell’oratorio maschile, con circa 300 ascoltatori compresa la signora sindaco del paese, il parroco don Sandro Chiesa e altri tre sacerdoti. Il 15 ottobre ho tenuto la conferenza, illustrando brevemente i tre padri, che ho visto tutti e tre all’opera: Luigi Galbusera in Birmania, Luigi Pozzoli in India e Luigi Roncoroni in Brasile (negli anni ottanta è stato al Centro missionario Pime di Milano).

     Nella seconda parte della conferenza, in accordo col parroco don Lorenzo Chiesa, ho parlato della vocazione missionaria oggi. Tre punti, partendo dal messaggio del Papa per la Giornata missionaria mondiale che si celebrerà in tutto il mondo cattolico domenica 23 ottobre prossimo:

     1)  La missione alle genti è sempre più necessaria e urgente, specialmente in Asia dove il progresso economico e sociale fa capire a molti che solo il cristianesimo dà risposte ai problemi della modernità perché solo il cristianesimo umanizza l‘uomo. Le religioni tradizionali si scoprono inadeguate  al mondo moderno e vogliono modernizzarsi imitando in tanti modi le Chiese cristiane, ma molti capiscono che i principi di quelle religioni non vanno d’accordo con lo sviluppo moderno, la dignità e l’uguaglianza dell’uomo e della donna.

 

      2)  La missione della Chiesa è di tutti i battezzati: il dono della fede e il battesimo rendono missionari di Cristo (Marcello Candia). In Corea ad esempio non si capisce il cattolico passivo. Molte conversioni di adulti (300-400 adulti l’anno in media per ogni parrocchia) e nel catecumenato di due anni i catecumeni debbono impegnarsi a servizio della parrocchia per l’annunzio di Cristo ai non cristiani, secondo le capacità e le possibilità dei singoli. I cattolici sono “attivi” nella Chiesa, non passivi. Per rievangelizzare l’Italia dobbiamo essere attivi anche noi tutti.

 

     3)  Se il Signore vi chiama non ditegli di no. Dopo 58 annidi sacerdozio vi posso dire che è bello fare il prete, è bello fare il missionario. Se vi date tutti a Cristo e alla Chiesa di Cristo, avete una vita piena, serena e felice, pur con tutte le difficoltà e sofferenze di ogni uomo. Un giovane o una ragazza che si fanno missionari, prete, fratello o suora, non sono una perdita per la famiglia e la parrocchia, ma il segno più bello della fede e della generosità di quella famiglia e parrocchia. E Dio non può non ricompensare quell’atto di generosità nel lasciar maturare e partire una vocazione per la missione alle genti.

      Le reazioni sono state positive. Sono semi che si gettano e  che maturano, speriamo, con la preghiera.  

                                                                    Piero Gheddo

Quando gli ospedali erano "la casa di Dio"

 

 

      Il titolo può sembrare strano. Ma non è così. Ho appena letto un libro che racconta, in modo documentato, come nella storia dell’umanità gli ospedali sono nati dalla Chiesa cattolica e dai cristiani, animati dalla parola di Gesù (“Curate infirmos”, Luca 9, 2) e dal comandamento evangelico di amare il prossimo come noi stessi. Un volume interessante che si legge come un romanzo ed è autentica storia, da non dimenticare dato che c’è ancora chi non vuol riconoscere le radici cristiane dell’Europa (e le università non sono nate anch’esse dalla Chiesa?): Francesco Agnoli, “Case di Dio, ospedali degli uomini – Perché, come e dove sono nati gli ospedali – Con prefazione di Giancarlo Cesana”, Fede e Cultura, Verona 2011, pagg. 121.

     Nel mondo greco-romano non esistevano gli ospedali, anche se la medicina è nata in Grecia (Ippocrate, Esculapio, Galeno). Quindi in qualche modo si curavano gli ammalati. Platone però riteneva che “sono degni di cura solo i cittadini liberi e soprattutto quelli che possono guarire sicuramente”. Sono stati i cristiani ad iniziare la cura sistematica dei malati, di tutti gli ammalati, e dopo la conversione di Costantino sorgono gli ospedali sotto l’egida di monaci, suore e ordini religiosi. Ne vennero fondati a  migliaia grazie a lasciti di devoti.

     Agnoli ricorda che il primo ospedale di cui si ha notizia sicura venne fondato dalla patrizia Fabiola a Roma nel 390 dopo Cristo. Fabiola si convertì a Cristo e dedicò il resto della sua vita alle opere di carità. Ecco cosa scrive K. Haeger, storico della medicina: “Fabiola riuniva tutti gli ammalati raccolti per le strade, occupandosi personalmente degli infelici e delle vittime della fame e delle malattie”. I numerosi ospedali nati nel Medioevo, in genere presso monasteri, venivano chiamati “Domus Dei”, “Casa di Dio”, “Hotel-Dieu” in Francia, come ancor oggi sono indicati gli ospedali maggiori. La fioritura degli ospedali e della cura dei malati nasceva dalla fede, dall’identificazione del povero e del malato con Cristo sofferente. In una storia della Medicina medievale si legge che mentre le autorità civili non s’interessavano della cura sistematica degli ammalati, “questi centri medici monastici non furono soltanto ricoveri ospedalieri, ma centri di insegnamento dove accorrevano giovani desiderosi di apprendere le nozioni mediche dei manoscritti greci e latini, gelosamente conservati in quelle abbazie e dove accorrevano tutti per farsi curare”. I monaci insegnavano la medicina e distinguevano tra “Medicina soprannaturale”, cioè la cura delle malattie dell’anima, e la “Medicina naturale” con la cura dei malati, lo studio e l’insegnamento della scienza medica.

 

     Anche nei tempi moderni gli ospedali sono nati dalla Chiesa. L’Italia si mostrò all’avanguardia, com’era sempre stato il paese di Cassiodoro, dei benedettini, della “scuola medica” di Salerno, dell’Ospedale del Santo Spirito, delle prime università e poi della chirurgia nel XIII secolo. Bologna, Padova, Roma furono per secoli, nel campo della medicina, punti di riferimento per l’Europa intera. Del resto, Agnoli riferisce che lo stesso Martin Lutero, per nulla tenero verso l’Italia “papista”, nel suo viaggio a Roma afferma nei suoi “Discorsi conviviali”: “(Gli ospedali in Italia) sono costruiti con edifici regali, ottimi cibi e bevande e sono alla portata di tutti… Accorrono qui delle spose onestissime, tutte velate, servono i poveri e poi tornano a casa. L’ho visto a Firenze con quanta cura sono tenuti gli ospedali. Così anche le case dei fanciulli esposti, dove i fanciulli sono alloggiati, nutriti ed istruiti in modo eccellente”.

     Interessante il capitolo intitolato “Le cause teologiche della nascita degli ospedali”, perché dimostra come mai gli ospedali sono nati dalla Chiesa e dai cristiani e cita tre passaggi:

     – solo nel cristianesimo Dio si è fatto uomo in Cristo, che ha rivelato la bontà e la misericordia di Dio e ci ha dato il comandamento dell’amore verso tutti gli uomini;

     – nella sua vita terrena, Gesù è stato guaritore di corpi e di anime e lui stesso sofferente, come dicevano i teologi medievali: “Christus medicus et infirmus”;

     – infine, in età medievale, la Passione di Cristo, profondamente meditata, rende ancor più chiaro il dovere dei cristiani verso coloro che portano qualsiasi tipo di croce. Di qui la definizione presente negli statuti degli ordini ospedalieri: “Domini nostri pauperes”, i nostri padroni sono i poveri.          

     L’ultimo capitolo del volume di Francesco Agnoli è intitolato “Fuori dell’Europa cristianizzata” e ricorda che in America Latina, in Asia e in Africa i primi ospedali  sono stati fondati dalle missioni cattoliche e protestanti e ancor oggi la sanità delle Chiese cristiane occupa un ruolo importante in non pochi paesi, dove i cristiani sono infima minoranza, l’India ad esempio e il Bangladesh, per non parlare dell’Africa nera.

                                                                                              Piero Gheddo 

 

Il Beato Paolo Manna, profeta delle missioni

      

    Dieci anni fa, il 4 novembre 2011, Giovanni Paolo II proclamava Beato il missionario del Pime padre Paolo Manna, che nel 1916 aveva fondato l’Unione Missionaria del Clero, oggi Opera Pontificia. Nel discorso ai pellegrini venuti a Roma per la beatificazione il Papa diceva: “Con la sua esistenza completamente spesa a favore della causa missionaria,  (il Beato Paolo Manna) fu un autentico precursore delle intuizioni e delle indicazioni del Concilio Ecumenico Vaticano II”.

    Perché è importante ricordare e studiare questo Beato? Perché richiama ancor oggi il principio che ha orientato il Concilio Vaticano II: la Chiesa è fatta per evangelizzare l’umanità. Paolo VI  ha scritto che scopo del Concilio è stato di “rendere la Chiesa del XX secolo sempre più idonea ad annunziare il Vangelo all’umanità” (Evangelii Nuntiandi 2). Il beato Paolo Manna era convinto che l’evangelizzazione del mondo dipende in gran parte dai sacerdoti: “Se i preti sono missionari, il popolo cristiano lo sarà egualmente; se i preti non vivono la passione di portare Cristo a tutti gli uomini, anche il mondo cristiano non potrà fare miracoli”. Il tono è il suo, appassionato, un po’ eccessivo nelle affermazioni, ma sincero, diretto, esprime con forza quel che vuol dire.

     Nel testo inedito “Il cammino di un’idea” il beato padre Manna scrive: “Il mondo l’hanno convertito i sacerdoti, che per questo furono creati…. Se diamo uno sguardo al mondo, dobbiamo dire che tutto quanto vi ha in esso di grande, di nobile, di santo, è ispirazione del Vangelo e realizzazione di sacerdoti. Non c’è elemento per cui il mondo è diventato cristiano e civile, che non faccia capo all’opera dei sacerdoti di Gesù Cristo. Se il mondo è per tanta parte buono e santo, è perchè così lo hanno fatto i sacerdoti; e se non è migliore e più santo, è ancora dove e quando l’opera dei sacerdoti è stata deficiente… Quale triste spettacolo offriamo noi sacerdoti quando, sfiduciati, lamentiamo impotenti la deplorevole condizione di gran parte del mondo e dei nostri stessi paesi cristiani, quasi per piangere il fallimento del nostro ministero, il fallimento di Dio! Ma Dio non fallisce mai e non può venir meno la Chiesa; può però fallire un ministero di uomini deboli e inetti per un’opera sì soprannaturale e divina…”.

    L’Unione missionaria del clero, alla cui fondazione partecipò in modo decisivo il beato mons. Guido Maria Conforti, arcivescovo di Parma e fondatore dei missionari Saveriani, aveva lo scopo di infiammare i sacerdoti dell’amore di Cristo e poi “accendere in tutto il popolo cristiano una grande fiamma di apostolico zelo per la conversione del mondo”. E più avanti, in un articolo del 1934 su “Il Pensiero missionario”, padre Manna si lamentava perché nell’Unione missionaria si stava travisando lo spirito degli inizi, riducendo l’associazione ad uno strumento volto ad impressionare, a commuovere per far denaro: “L’opera di Dio non si muove con questi mezzi”.

    Ecco la profezia del Beato padre Paolo Manna, che da superiore generale del Pime (1924-1934) ha scritto 23 “Lettere ai missionari”, poi pubblicate nel volume “Virtù Apostoliche” (IV edizione Emi 1997, pagg. 460), che è stato definito “un vero trattato di spiritualità della missione, maturato nell’esperienza sul campo, un classico della letteratura missionaria dei tempi moderni”. A dieci anni dalla beatificazione, il beato Manna è più che mai attuale. Ancora Giovani Paolo II, nel discorso per la beatificazione di padre Manna (4 novembre 2001) ha detto: “In tutte le pagine dei suoi scritti emerge viva la persona di Gesù, centro della vita e ragion d’essere della missione. In una delle sue Lettere ai missionari egli afferma: “Il missionario di fatto non è niente se non impersona Gesù Cristo… Solo il missionario che copia fedelmente Gesù Cristo in se stesso… può riprodurne l’immagine nelle anime degli altri” (Lettera 6).

                                                                  Piero Gheddo

La fede entusiasta dei cirstiani papua

                 

     Nelle nostre Chiese millenarie abbiamo perso l’entusiasmo della fede dei primi tempi dopo Cristo. Anche nei buoni fedeli che frequentano le nostre parrocchie ci sono molti valori e virtù, ma non viviamo più la fede con lo stupore e la commozione che hanno i neofiti là dove la Chiesa sta nascendo adesso.

     Ad esempio nella lontana Papua Nuova Guinea, da cui viene mons. Cesare Bonivento, missionario del Pime e vescovo di Vanimo dal 1992 (vedi il Blog del 2 ottobre scorso). Bonivento mi dice: “Un aspetto tipico e sorprendente della PNG è l’entusiasmo della fede in chi si converte a Cristo e la voglia di parlare, di comunicare la fede, l’amore a Cristo”.

 

     L’amico Cesare, mio redattore a “Mondo e Missione” negli anni sessanta, mi racconta che in PNG le sette pentecostali (di origine protestante) “convertono” rapidamente molti tribali portando loro la Bibbia (o alcune parti di essa) e lasciando a tutti piena libertà di parola. Nelle assemblee delle sette, tutti parlano, parlano e i nostri cattolici a volte dicono: non possiamo partecipare così alle funzioni, perché parla sempre il prete. La nostra liturgia è più strutturata e in chiesa parlano solo il sacerdote o il diacono. Ma al di fuori della liturgia c’è spazio per tutti. Anche i cattolici vogliono parlare nelle piazze e il vescovo li incoraggia a dare la loro testimonianza di fede e di conversione a Cristo, dicendo sempre che non parlano a nome della Chiesa, ma per testimoniare la loro fede.

 

     “Allora dice Bonivento – i cattolici si organizzano e parlano nelle piazze, nei mercati, dove si raduna la gente. Questi gruppetti di cattolici portano con sé anche i suonatori, la banda musicale per fare un po’ di musica, portano gli altoparlanti e poi predicano e la gente è contenta, vengono a sentirli. Io dico sempre a loro che la predicazione deve essere accompagnata dalla testimonianza della loro vita e dalla preghiera, altrimenti non funziona e può anche scandalizzare.

     “Ma il dato fondamentale è che questa gente vuole esprimere se stessa, vuol comunicare agli altri la gioia di aver incontrato Cristo. Anche le donne, non solo gli uomini, predicano volentieri. C’è la direttrice delle poste di Vanimo, persona colta e laureata, che predica e racconta a tutti la storia della sua conversione a Cristo. Vengono a chiedere a me vescovo non il permesso, ma se non ho niente in contrario. Io dico di no ma faccio le raccomandazioni necessarie.

     “Non soltanto loro predicano volentieri, ma la gente è contenta di questo. Se vai nella capitale Port Moresby, trovi predicatori da tutte le parti. Un po’ lo fanno per i loro interessi, ma c’è anche l’aspetto positivo, anche nelle sette. Perchè parlano e predicano per convinzione personale: per loro l’incontro con Cristo e la conversione a Cristo è un fatto rivoluzionario che cambia la vita, sperimentano la dolcezza e la bellezza di aver trovato il Messia. In tutto questo c’è una componente fortemente emozionale. Loro esprimono una convinzione personale, una storia personale. Gesù Cristo lo sentono profondamente e vogliono raccontarlo a tutti”.

 

      Chiedo all’amico vescovo se la predicazione dei preti deve adattarsi a questo modo di predicare più immediato, non teorico ma molto concreto. Risponde: “La nostra predicazione in PNG è molto diversa da quella in uso in Italia, che è più teorica, là è molto pratica e fatta di episodi, di fatti, di esperienze. Nella predicazione viene usata molto la Bibbia e poi i fatti della vita. Ho dei sacerdoti che vengono dall’India e sono fantastici. Predicano e raccontano delle storie e la gente li ascolta volentieri. Quali storie?  Storie bibliche o evangeliche, loro storie personali, fatti che tutti conoscono, parabole, episodi quotidiani. Il Vangelo è trasmesso attraverso il racconto, la notizia, la vita. Anche una piccola storia, breve, breve, però che ha un significato. Non dev’essere molto lunga. Ad ogni modo, la predicazione dev’essere molto concreta. Tu non puoi andare in Papua con un documento della Chiesa o del Papa e leggerlo. No, devi trasmettere quel contenuto attraverso una storia, come Gesù quando racconta la parabola del buon samaritano o tante altre parabole, per dare un messaggio di salvezza”.

     

     “Certamente è un modo di predicare che per noi missionari è difficile, bisogna adattarsi, faticare, mentre loro lo fanno naturalmente. Noi siamo abituati a trasmettere la verità teorica, loro parlano della vita e il Vangelo va incarnato in quel modo di predicare, che per loro è spontaneo, mentre a noi richiede uno sforzo di riflessione, di preparazione. Loro condividono con gli altri quello che hanno nel cuore, non hanno vergogna di parlare di se stessi e della loro esperienza religiosa, non hanno vergogna di Gesù Cristo, non hanno vergogna di appartenere alla Chiesa cattolica, non hanno vergogna di dire che sono devoti di Gesù e della Madonna. Per loro essere cattolici è un grande dono ricevuto da Dio e debbono trasmetterlo ad altri”.

 

    Chiedo a mons. Bonivento se pensa che tutto questo è esemplare anche per noi cattolici italiani. Risponde:  “In Italia c’è una cultura secolarizzata per cui la fede è un affare privato, un hobby  di cui non si deve dire nulla per non fare brutta figura. In Papua invece, molti cristiani sono proprio neofiti e la fede è la gioiosa scoperta della vita, che li rende entusiasti di quel dono ricevuto da Dio. Raccontano la loro conversione e lo fanno per condividere il dono ricevuto anche a quelli che non credono. Io dico sempre che devono anche dire che la forza per rimanere fedeli a Cristo e alla Chiesa la ricevono dai Sacramenti, Battesimo, Cresima, Eucarestia, remissione dei peccati, partecipazione alla S. Messa e alle cerimonie religiose. Questo perché gli altri predicatori cristiani parlano contro i Sacramenti e noi dobbiamo raccontare come i Sacramenti della Chiesa sono la via attraverso cui lo Spirito Santo ci dà la forza per rimanere fedeli di Cristo.

     “Comunque, in generale, quello che accomuna tutti i papua che credono in Cristo è di comunicare agli altri la fede ricevuta come un dono. Credo che, specialmente in questo “mese missionario” di ottobre, anche i cristiani d’Italia dovrebbero sentire il dovere di dare una testimonianza della loro fede anche con la parola, oltre che con la vita. Cioè parlarne liberamente quando è opportuno e forse necessario, senza vergognarsi del Vangelo”.

                                                                       Piero Gheddo

Nasce una nuova parrocchia e il vescovo non lo sa

 

  

      Domenica 23 ottobre si celebra in tutto il mondo cattolico la Giornata missionaria mondiale. Nelle missioni nasce la Chiesa, lo Spirito Santo è sempre all’opera ed a volte si manifesta in modo imprevisto.  Parlo a Milano col mio confratello mons. Cesare Bonivento, vescovo di Vanimo in Papua Nuova Guinea, che mi racconta la sua ultima avventura in quel grande paese dell’Oceania. “Ho inaugurato, mi dice, una parrocchia della quale non sapevo nulla”. Gli chiedo perché e dice: “I miei cristiani sono giovani ed entusiasti della fede, la mia diocesi è molto grande, montagnosa e forestale, con poche strade. E’ successo che un gruppo di battezzati, nell’interno del territorio non ancora del tutto esplorato, hanno costruito la loro parrocchia e poi mi hanno chiamato a inaugurarla. Allora dico a chi è venuto ad invitarmi: come mai avete fatto una parrocchia senza dirlo al vescovo?”. E mi ha raccontato la storia.

 

      In una parte della diocesi di Vanimo considerata “territorio protestante”, un gruppo di cattolici molto fervorosi lavorano per una “Logging Company”, una Compagnia che viene dalla Malesia e disbosca la foresta. Vivono in un accampamento di baracche di legno con le loro famiglie, ma non avevano una chiesa. Così vanno dal datore di lavoro e gli dicono che hanno bisogno di una chiesa cattolica. Il datore di lavoro ha tergiversato un po’, poi ha capito che la costruzione della chiesa è a vantaggio della Compagnia, perché quando c’è la religione e la chiesa, viene il prete e la gente è più contenta, va d’accordo, lavora meglio. Il datore di lavoro, che è un protestante malesiano, ha costruito la chiesa in legno, ma fatta bene, solida, elegante, bella . Mons. Bonivento continua: “Sono andato in quell’accampamento e sono rimasto davvero meravigliato. Pensa che io, come vescovo cattolico, non mi sarei nemmeno osato di avventurarmi in quel territorio che i protestanti si erano riservati. Invece, nasce una parrocchia cattolica, proprio in una posizione centrale per il territorio, dalla quale si possono visitare facilmente molti villaggi. Comunque sono andato ad inaugurare la chiesa ed è stata una bella festa, sono venuti tutti, cattolici e protestanti, animisti e musulmani, non ho mai visto una chiesa così strapiena. Non passava più nessuno, una chiesa piena dentro e fuori, bambini da tutte le parti. Una gioia dirompente. In quel buco nella foresta, dove sorge l’accampamento, dove non succede mai niente, la presenza di un vescovo in paramenti solenni e poi l’inaugurazione della chiesa ha messo tutti d’accordo.

     Dopo la Messa e l’inaugurazione, abbiamo fatto i discorsi e la consegna dei doni. Dopo il discorso del governo, che era presente, arriva il discorso del Land Owner, il proprietario di quella terra che era un uomo grande e grosso. Io avevo paura perché in Papua il problema della terra è complicato, i conflitti e guerre di famiglie e tribali  nascono spesso dai problemi della terra. Poteva dire che non era d’accordo e che dovevamo distruggere la chiesa. Infatti incomincia a dire: “Vorrei ricordare subito al vescovo, che questo è un territorio protestante. Io lo dico a tutti e anche al vescovo”. Io pensavo: qui va a finir male! Invece l’uomo continua: “Però dico anche che sono contentissimo che venga qui la Chiesa cattolica e se qualcuno ha qualcosa in contrario, venga da me e aggiusteremo i conti”. Gli applausi e le grida di gioia salivano al cielo”.

     “Naturalmente il proprietario della terra è contento perchè quando arriva la Chiesa cattolica le cose vanno meglio per tutti, arrivano il prete e poi le suore che sono a servizio della gente. La Chiesa dà sicurezza, stabilità, continuità, educa i figli e cura i malati, porta la mediazione e la pace. Chiunque sa che quando arriva la Chiesa cattolica, la situazione migliora, certo in senso morale, ma anche in senso educativo. Ad esempio, in quella nuova “parrocchia” i cattolici hanno subito fatto domanda alla società che gestisce i lavori di fare una scuola primaria, cioè elementare e media, per i molti bambini e ragazzi che ci sono nell’accampamento e anche per tutti i giovani che dei villaggi vicini senza scuola. Quando avremo questa scuola, fra un anno o due, la parrocchia diventerà un centro di penetrazione evangelica. Tutto questo mi ha convinto di una grande verità. Io vescovo non avrei mai potuto organizzare una cosa simile, non l’immaginavo nemmeno. Lo Spirito Santo ha agito attraverso dei buoni cattolici e ha portato il vescovo a ringraziare Dio per il grande dono di questa nuova parrocchia”.

                                                                           Piero Gheddo